di Mauro Baldrati
Un interessante movie girato da un regista esordiente, che conferma un certo talento italiano nel noir. Siamo ormai degli esperti artigiani che producono un combinato a lievitazione naturale di crime classico che non fa sconti, di fumetto noir, un po’ di neorealismo, romanticismo, un argot etnico – napoletanesco, romanesco -, esistenzialismo da terzo millennio. Questo incedere naturista ci aiuta a decolonizzarci dallo stereotipo hollywoodiano, un predatore commerciale patinato che ci ha tenuto sotto scacco per decenni, e ancora tiene banco, in certi settori dell’immaginario, quello televisivo soprattutto, con la continua riproposizione di film e “telefilm” vecchi anche di vent’anni, e le eterne commedie.
“La svolta” è un prodotto di questa scuola di liberazione. E’ in continuità con Gomorra, con Suburbia, anche se più generalista, più contaminato.
L’attacco è già speed: un tipo – un tipaccio – entra in un baraccio e chiede del boss. Ma c’è qualcuno che lo controlla, e noi lo vediamo attraverso lui. I suoi occhi sono i nostri occhi. Poi, accade. Il nostro osservatore, Jack, lo aggredisce, lo manda a gambe all’aria e gli ruba lo zaino, che presto scopriremo essere pieno di banconote, 500.000 auro. Fugge, su una moto, inseguito dal derubato, pure lui a cavallo di una moto.
Finisce nell’appartamento di un ragazzo che abita isolato, Ludovico, che soffre “di un brutto male”, la depressione. Sopravvive barricato in casa, in stato semi catatonico, incapace di svolgere qualsiasi lavoro, anche solo sistemare una mensola, terrorizzato dal mondo esterno.
E qui parte il racconto nel racconto, il procedimento osmotico che coinvolge Jack, alto, secco, nervoso, e Ludovico, basso, morbido, linfatico. Il sequestratore cede a Ludovico, come il sale nel brodo, una parte della sua aggressività e della sua energia, mentre l’altro gli fornisce, come il miele nel tè, un po’ della sua dolcezza. E’ un rapporto che transita presto nell’amicizia, in cui Jack si complimenta con Ludovico per i suoi fumetti (effettivamente interessanti), e lo incita a riprenderli, a uscire dall’apatia. Si offre addirittura di mantenerlo coi soldi rubati fino al completamento della storia, che dovrà diventare un libro. Entrano anche in contatto con due ragazze, una che abita nello stesso stabile, e l’amica, e naturalmente Jack assesta uno scrollone a Ludovico, per farlo uscire dalla timidezza che lo paralizza. Organizzano una cena, con tanta allegria e seduzione, facilitati da qualche joint.
Ma il male, naturalmente, non concede tregua. Jack controlla continuamente la finestra, perché l’hanno sgamato e un drappello di “pischelli” sorveglia giorno e notte l’isolato per scoprire dove si nasconde. Il derubato è un criminale detto “dottor Caino”, che col suo braccio destro, un glaciale assassino psicopatico, forma una coppia che sembra uscita da una graphic novel di J. P. Manchette. Personaggi macchiettistici, feroci in modo disumano, hanno come unico obiettivo quello di scovare Jack e recuperare i soldi. Infatti per Caino “la reputazione è tutto”, per cui chiunque sgarra e gli manca di rispetto viene immediatamente, esageratamente giustiziato. Sono due maschere horror parodistiche, due sanguinari bimbiminkia che conferiscono una accelerazione funzionale alla storia, salvandola da alcuni stereotipi e dal rischio della commedia comico-sentimentale, una suggestione forse inevitabile del rapporto tra Jack e Ludovico.
Il film fila come un treno verso la conclusione, e qui arriva il problema: il finale in stile noir underground anni ’70, una crepa narrativa che si allarga in uno squarcio cui noi sopravvissuti non siamo più abituati, mentre le nuove generazioni forse non conoscono proprio, anche se abbiamo un referente nel primo Tarantino. Per cui può essere duro da accettare. Ma è un atto di coraggio, e nell’era dell’omologazione c’è bisogno di coraggio, di qualcuno che osa, che non si tira indietro (Su Netflix).