di Jack Orlando
Guido Carpi, Lenin vol. II. Verso la Rivoluzione d’Ottobre (1905-1917), Stilo Editrice, Bari, 2021, 327 pp., 18€
Avevamo già incontrato Lenin di recente, su queste pagine (qui), attraverso le pagine di Guido Carpi e della sua biografia del sensei bolscevico.
Ci ritroviamo di nuovo qui a percorrere i sentieri di Vladimir Il’ič Ul’janov, quasi sempre in un frustrante e recalcitrante esilio; lo si era congedato all’alba del 1905, prima dello scossone rivoluzionario, fermi con lo sguardo su uno dei sommi cardini della sua opera: il militante, il rivoluzionario di professione che opera da cinghia di trasmissione tra processo (di rottura) oggettivo e volontà (politica) soggettiva, figura deputata al rovesciamento dell’esistente.
Lo riprendiamo ora nella frattura del 1905, per accompagnarlo fino alle soglie di quel fatidico ‘17, in un decennio dove il vecchio mondo scivola nella catastrofe fino a frantumarsi nelle trincee, e dove per il rivoluzionario si rivelano in tutta la loro importanza la centralità del partito e la imprescindibile dialettica tra tattica e strategia, tempi duri per gente dura e menti radicali.
Andiamo rapidi, che non stiamo qui a far gli storici; la parentesi rivoluzionaria del 1905, quella del pope Gapon e dei gendarmi che sparano sulla folla con le icone sacre, vede Lenin (come quasi sempre) in una posizione di minoranza all’interno della socialdemocrazia, e con un apparato bolscevico impostato sulle indicazioni del che fare: partito ristretto, cospirativo, portato avanti da un èlite “neogiacobina”; una struttura atta a muoversi agilmente negli interstizi e nel mondo ben poco accomodante dello zarismo russo.
Il 1905 pone i rivoluzionari di fronte a una situazione inedita: l’irrompere sulla scena delle masse operaie come attore autonomo in grado di stabilire una propria agenda sganciata, a volte contrapposta, dagli interessi dello Stato o della borghesia. I lavoratori si dotano dei propri strumenti di decisione ed organizzazione, i Soviet, e l’incedere del processo rivoluzionario allarga le maglie della partecipazione alla vita pubblica, dalle libertà politiche alla stampa.
La fase è di attacco, di allargamento, e avanza convulsa. Va da sé che chi non tiene il passo resta indietro, come legge di natura, gli animali che non si adeguano alle mutazioni ambientali periscono.
Di qui una revisione dei principi d’azione bolscevichi che si orientano verso la messa in piedi di un partito di massa, in grado di occupare quei nuovi spazi di manovra convogliando le energie della massa in movimento, con l’esperienza combattiva del militante.
Non si tratta di scegliere tra vecchie maniere e nuovi democraticismi, come per quasi tutti i moderati. Non c’è teleologia del socialismo che tenga, né riforma che valga.
È sempre il processo rivoluzionario a portarsi appresso, come effetto collaterale, una politica di riforme; viceversa nessun riformismo o forma di rappresentanza può davvero far avanzare il percorso di emancipazione.
Si tratta di occupare tatticamente i posti disponibili in una Duma sostanzialmente impotente, per parlare al popolo dei lavoratori e non al potere burocratico, di usare le possibilità di stampare giornali legali non per tessere le lodi della libertà d’opinione ma per formare e radicalizzare la soggettività combattiva in lotta; i bolscevichi stanno nei soviet non per abbracciare il moto perpetuo e progressivo delle masse verso l’utopia socialista, ma per articolarne e coordinarne le potenzialità su di un piano di attacco che arrechi danni e sottragga terreno quanto più possibile al nemico.
Si dialoga con la spontaneità proletaria, unica davvero a rompere gli argini del potere, ma la si articola in organizzazione per portarla ad un livello superiore, per darle nuovo spazio e non farla rifluire.
Portare all’estremo le conquiste democratiche, accelerare la rivoluzione fino al punto di non ritorno.
O tutto o niente.
E quando poi la parentesi si va chiudendo, quando gli spazi si restringono, la repressione colpisce duro e le energie cominciano a smobilitare, come sopravvivere al contraccolpo?
L’ormai ex piccolo gruppo compatto, ora giovane partito di massa con articolazioni legali e non, deve operare una nuova virata e passare attraverso la porta stretta della controrivoluzione: mettere in sicurezza le varie articolazioni prima che vengano annientate; nella prassi: lasciare attivi i presidi conquistati, come i rappresentanti della Duma, per tenere viva una voce pubblica, ma investire le energie in una pratica di esercizio della forza, che sfrutti gli ultimi scampoli di tempo per un colpo di reni in grado di deviare la tendenza. È ora un bolscevismo insurrezionale che si nutre di rapine per il finanziamento, di truffe internazionali e contrabbando per l’approvvigionamento di armi, di tentativi lottarmatisti, gruppi di combattimento e granate nelle strade.
Ma all’impossibilità di tenere il confronto armato con gli apparati dell’impero zarista, si rende necessario uno spostamento ulteriore, con un non pacifico smantellamento dell’apparato militare prima che esso inghiotta l’intero partito in una spirale senza uscita. La direzione del processo deve rimanere sempre dell’elemento politico, anche quando questo tenga in mano una pistola.
È qui che Lenin imprime una nuova mutazione alla sua struttura: un partito fluido, rizomatico direbbe qualcuno, che al tradizionale centralismo bolscevico innesta una molteplicità di centri operativi indipendenti che portino avanti il lavoro sul campo, e che alla monolitica struttura-partito preferisce l’infiltrazione nelle forme legali e associative della società, per operare tramite queste un’egemonia politica sul tessuto sociale.
Un bolscevismo poco attenzionato dalla tradizione che però traghetta il partito fino al ‘17, alla resa dei conti finale col nemico storico. L’ultimo livello della sfida.
A fare questa breve cavalcata, è subito evidente una cosa: la coerenza delle forme è roba da neofiti.
Il militante bolscevico si è trovato a cambiare pelle più e più volte, ora scrittore ora agitatore politico, ora sindacalista, ora bandito e dinamitardo; così come alla sua comunità politica è chiesto un perpetuo sforzo di adattamento ed aggiornamento del sistema operativo. Anche a costo di una continua frammentazione dei rapporti personali e organizzativi, e quindi ad un costante riperimetrare il campo della propria amicizia politica. Bisogna prima dividersi, delinearsi, per poi potersi unire.
La coerenza delle forme, siano esse quelle dell’organizzazione o quelle dell’ideologia, finiscono sempre per essere pensiero autocentrato, che antepone il proprio sguardo alla realtà materiale, di fatto scollandosi da essa e diventando inutile orpello o strumento di affermazione personale.
Quella leniniana è invece dottrina di combattimento, e in quanto tale, non può mai prescindere dall’analisi concreta del campo di battaglia.
Se coerenza c’è, essa è tutta interna al rapporto dialettico tra tattica e strategia. Vero asse centrale dell’agire politico. Si preserva la rigidità strategica, perché l’obbiettivo è uno solo ed è indifferibile: l’instaurazione del comunismo da parte del proletariato attraverso le sue avanguardie organizzate. Stante questo assunto si può mantenere la flessibilità tattica per cui ad ogni passaggio di fase, come si rimodula il capitale, così corrisponde un adeguato riposizionamento della forza antagonista e delle sue pratiche.
“Lenin prendeva ciò che gli serviva quando gli serviva. Ma per riporlo in una cassetta degli attrezzi dagli scomparti ben ordinati. A costituire la griglia immutabile attraverso cui il bolscevismo filtra, scompone e metabolizza ogni altro elemento, sono: la lotta come esperienza diretta, immediata che – assai più delle acquisizioni teoriche – determina la crescita politica, organizzativa, addirittura morale dei soggetti coinvolti; la profonda consapevolezza di come la lotta pratica non sia mai fine a sé stessa, ma sia fonte primaria di teoria, così come non si dà teoria che non si traduca immediatamente in pratica; l’enfasi su di una nuova figura di militante, che unisce in sé le capacità teoriche dell’intelligent e la determinazine pratica del proletario. Infine tutti questi elementi trovano la propria sintesi nell’organizzazione, pietra filosofale del leninismo e manifestazione sensibile di quell’universale istinto alla partiticità (partijnost’) che si configura come una vera e propria grazia laica.”1
Uno schema da tenere a mente, tanto più in quest’oggi che la guerra, con lo spettro della sua deflagrazione totale, torna a soffiare in Europa.
L’adagio leniniano del trasformare la guerra imperialista in guerra civile è ritornato di moda tra un certo antagonismo sempre a caccia di slogan, pure se non si sa bene chi, cosa e come dovrebbe operare questa mutazione bellica.
Guardare a Zimmerwald, cioè guardare a una politica che, innanzi alla sfida della guerra mondiale, della pace e del sentimento umanitario sostanzialmente se ne infischia e pone all’ordine del giorno ancora una volta il qui e ora della frattura rivoluzionaria, aiuta a smarcarsi da certe ingenuità pacifiste e dall’assorbimento in campo nemico (che è sempre quello che ci tiene direttamente il piede sul collo) e stabilisce, come sua consuetudine, che “non importa cosa soggettivamente pensi di stare facendo, ma negli interessi di chi stai oggettivamente operando; e guai se i due parametri non collimano”.2
Insieme al piccolo uomo dagli occhi di tataro siamo di nuovo di fronte al Moloch del capitale nella sua fase suprema, quella dell’imperialismo, pronta a scatenare tutta la sua furia (auto)distruttiva. Ma siamo orfani di una parte collettiva in grado di far sentire la sua voce, orfani di sodalizi davvero in grado in rompere questo frame, schegge sparse tra derive, resistenze e tentativi generosi.
Un compagno, parlando della situazione attuale, mostrava con rammarico il timore “di essere di nuovo in ritardo, e di non poter essere più in tempo ora che la Storia ha ricominciato a correre veloce”.
Non un timore infondato insomma, ma Lenin mostra come non esista un tempo giusto per il rivoluzionario, solo tempi diversi in cui agire diversamente, con l’occhio sempre all’obbiettivo.
Esistono momenti di ritirata, altri d’assedio, altri ancora di attacco. Ma il tempo giusto, in ultima istanza, sono volontà e intelligenza a determinarlo.
Non esiste fraseologia che tenga, è solo il metodo a contare davvero; l’uomo Lenin dorme in una teca di vetro, ed è giusto che sia lì a riposo, a noi servono gli strumenti del suo laboratorio, non le spoglie. Quegli echi che attraversano un secolo, non arrivano a noi per essere soggetti a condanna o celebrazione, ma perché siano ascoltati e reinterpretati, lingue nuove alimentate di grammatica antica. Il passato è per il rivoluzionario materia viva.
La condizione oggettiva non serve a niente senza una volontà soggettiva di rovesciamento. Né esiste un sentiero su cui camminare verso il Sol dell’Avvenire, abbiamo solo catene di istanti da far deflagrare, anello dopo anello, finché tutto il continuum non vada in frantumi.