Quando il mio ricordo va a Valerio Evangelisti la prima immagine che mi viene in mente è quella di un grande narratore, di una persona capace di raccontare storie meravigliose. Storie che non avevano una conclusione definitiva, ma che potevano ricominciare sempre, continuare all’infinito perché avevano un carattere aperto e multilineare. Storie pensate per costituire una sorta di memoria collettiva degli oppressi e degli sfruttati e per consentire loro di riappropriarsi delle proprie passate gesta, cancellate dalla storia scritta dai vincitori. Insomma, nel mio ricordo Valerio più che apparire come uno scrittore in senso stretto assomiglia un po’ al narratore di cui ci parla Walter Benjamin.
Sono ben consapevole che questo paragone ha dei limiti. A cominciare dal fatto che raramente i suoi romanzi hanno per protagonista l’uomo giusto e semplice di cui ci parla il filosofo berlinese. È più frequente che il motore della narrazione proceda dal “lato cattivo della storia”. Basti pensare al suo personaggio più famoso, l’inquisitore Nicolas Eymerich. I suoi racconti, in questo modo, sono in grado di dissezionare i fondamenti antropologici, ideologici, psicologici del potere, mettendosi dalla parte del potere stesso. È poi ovvio che il suo mezzo espressivo principale era il racconto scritto e non quello orale, per quanto sia anche vero che, sentendolo parlare con il suo tono di voce basso e leggermente cantilenante, non si poteva non rimanere affascinati dalla sua capacità affabulatoria e dalla sua sottile ironia.
Rimane il fatto che Valerio non si accontentava di cristallizzare in forma letteraria l’insanabile scissione tra significato e vita, come accade al romanziere tipo benjaminiano. I suoi racconti, come quelli del narratore descritto dal filosofo berlinese, hanno un orientamento pratico anche se di natura peculiare. Hanno una finalità eminentemente politica, fanno cioè parte della sua battaglia per contendere palmo a palmo territori dell’immaginario alle potenze mitiche al soldo delle classi dominanti. Pur non avendo assolutamente nulla di didascalico, le sue storie hanno una morale. Si prenda come esempio la conclusione, tragica e al tempo stesso priva di rassegnazione, di Black Flag.
– È inutile! Tanto hanno già vinto! Il mondo è loro! Il futuro è loro!
Sheryl rispose: – Può darsi. L’importante è che sappiano che c’è chi resiste.
Avanzò verso i carri sparando tutti e sei i colpi del tamburo, in successione. Sei pallottole argentee perforarono il metallo urlante.
Devo confessare che a questo romanzo sono particolarmente legato, non perché lo consideri una delle opere più significative di Evangelisti, ma semplicemente per il fatto che è stato il suo primo libro che ho letto. Per me, oramai vent’anni fa, fu una vera folgorazione scoprire la sua eccezionale capacità di mescolare diversi tipi di narrativa di genere (western, horror, fantascienza, racconto di guerra) e di intrecciare nello stesso testo epoche passate, presenti e future tra loro distantissime costruendo un insieme incredibilmente compatto, appassionante, popolare, profondo. Per quanto sia poi diventato un avido lettore della sua opera, la meraviglia di quella scoperta letteraria è rimasta per me indelebile. Tanto da farmi venire la voglia di rileggere questo romanzo quando ho saputo della scomparsa di Valerio.
Ci sarà tempo per considerazioni di più ampio respiro rispetto a quelle che sto proponendo in questo scritto. I compagni della redazione di Carmilla e tutti coloro che conoscono più di me la vita personale, la produzione letteraria e l’attività politica di Valerio potranno dare il loro contributo. Nel frattempo, penso valga la pena di condividere la rilettura di un testo che per me ha avuto un grande significato.
Si potrebbe individuare anche un motivo meno personale per parlare di Black flag, legato in qualche modo all’attualità. In questo romanzo, infatti, in primo piano c’è la guerra, intesa come fondamento nascosto del mondo contemporaneo che tende a farsi inerzialmente esito ultimo e totalizzante della sua storia, guerra civile globale potremmo anche dire. Il romanzo è pubblicato nel 2002 quando è ancora fresco il ricordo dell’abbattimento delle Torri Gemelle a New York e da non molto è iniziata l’invasione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti. Ma la storia inizia e finisce con un’altra vicenda bellica, l’invasione statunitense nel 1989 di Panama dove Sheryl e Carl, medici psichiatrici americani, sono impiegati per curare nove marines affetti da una misteriosa malattia. I due scopriranno di essere stati inconsapevole strumento di un esperimento dell’esercito statunitense finalizzato alla creazione di un gruppo di soldati-mostro: il commando Gray Wolves. La parte più ampia della narrazione è però ambientata al tempo della guerra civile americana e segue le vicende di uno spietato gruppo di irregolari sudisti, i bushwhackers, cui si unisce per caso il Pantera, stregone e killer a pagamento messicano.
Un altro filone della storia è ambientato all’alba dell’anno 3000, in un futuro distopico caratterizzato da una sorta di anomia ferocemente carnevalesca. Un mondo in cui vige il più classico homo homini lupus, la guerra di tutti contro tutti. Un mondo in cui l’unica cosa che distingue le persone è la diversa psicosi da cui sono affette: esistono solo i Fobici, gli Isterici, gli Ossesso, gli Autistici, gli Schizo. Tra questi ultimi c’è anche Lilith, una giovane donna astuta e forte come nessun altro, una belva piena di rabbia anche se incapace di comprenderne il motivo.
Qui vediamo all’opera l’estrema conseguenza della logica bellica.
Al riparo dalla violenza! Lilith si sentì fremere dall’indignazione. Senza violenza non c’era contatto umano. Che razza di società poteva mai essere, quella che ignorava la comunicazione attraverso la morte e il dolore?
Tutta Paradice stava vivendo l’unica forma di empatia tra gli uomini rimasta sulla terra. L’antitesi del gelo che si viveva normalmente. Uccidere per uscire dal proprio isolamento ed entrare in rapporto col prossimo. La festa. Finì per sgozzare il giovane inebriandosi dei suoi sussulti. Lo amò per un istante.
Come si è potuti arrivare a questo punto? Bisogna tornare indietro nel tempo, al periodo della guerra civile americana. Qui l’intero territorio dell’immaginario sembra esaurirsi nella dialettica tra un delirante utopismo anarco-individualista e un realismo conservatore meno visionario ma altrettanto spietato. Tra un massacro e un altro di civili perpetrato dai bushwhackers, Pantera assiste a ripetuti dialoghi tra Hamp Wyatt, uno degli uomini della milizia sudista, e Anselme Bellegarrigue, medico parigino dedito a cinici esperimenti sul malcapitato Koger, uomo lupo al seguito della banda, per renderlo suo malgrado una spietata macchina da guerra. Le argomentazioni del francese non vanno tanto per il sottile. Per lui non è la “sciocchezza” della schiavitù a tener insieme ciò che resta della Confederazione, ma è il suo “stile di vita”.
Noi ci battiamo per un’America in cui nessun governo ostacoli la proprietà individuale e le scelte del singolo. Non c’è governo che non sia nemico naturale della proprietà.
Proprietà equivale a libertà. Quando ogni americano bianco, maschio e adulto avrà la propria particella di terreno, grande o piccola che sia, non serviranno più leggi.
Caricare di energia il metallo che è in noi, renderci di nuovo belve e predatori. Questo è l’obiettivo. Uomini liberi capaci di vivere fuori di ogni costrizione sociale, così come vivono i lupi che hanno abbandonato il branco. Ognuno potente come una pila galvanica. In pratica tanti magneti che si respingono.
L’uomo servile, che vive in gregge, costruisce. L’individualista, che disprezza il branco, distrugge. È quest’ultimo che fa la storia.
Hamp Wyatt, replica con simpatia ma ritiene il suo interlocutore un po’ folle.
D’accordo, ma la schiavitù è un principio, che poi si riassume in autorità e disciplina. Servono gerarchie, ruoli ben definiti. È questa l’anima del Sud, e lo schiavismo ne è la sintesi.
Racconti storie. Non c’è terra per tutti, e non tutta la terra è coltivabile senza braccia. La schiavitù è una necessità economica prima che morale.
Wyatt, in ultima istanza, considera pericoloso l’utopismo del francese perché
Nel Nord gente come lui, ha persuaso gli operai a scioperare in piena guerra … Comincio a credere che la schiavitù andrebbe estesa a tutti i salariati.
Il mondo però non si esaurisce nella dialettica tra i Bellegarrigue e i Wyatt. Perché tra di loro si aggira anche Pantera, eroe riluttante, infastidito catalizzatore della fiducia e della speranza dei più strambi emarginati nel gruppo dei bushwhackers. Attorno a lui si aggira un mondo di spiriti maligni ma giusti. La sua magia rispetto al mondo moderno appare come un arcaismo, memoria e tradizione di un passato che fatica a diventare una guida per il presente. L’attrito tra i differenti strati temporali genera una tensione la cui risultante appare inizialmente sospesa tra il mero rifugio nel passato e la creazione di nuove e inedite possibilità. Pantera, infatti, non ha molto da dire su ciò che accadrà al suo mondo o su ciò che pensa sia auspicabile per i tempi a venire. Chiamato in causa in una delle tante discussioni tra Bellegarrigue e Wyatt si limita a commentare “Quando ho combattuto con Juan Nepomuceno Cortina l’ho fatto per difendere gli ejidos, le terre comuni. Non so altro”. Alla fine, però, sotto l’apparenza riuscirà a percepire un’altra realtà. Che si tratti dei suoi poteri di stregone o di una mera allucinazione poco importa. Quello che riesce a vedere con chiarezza è la vera natura dei suoi nemici.
Non erano esseri umani: erano lupi. Lupi diversi dalla sua guida però. Più famelici che affamati, più crudeli che selvaggi, più violenti che forti. Odiavano tutti, si odiavano tra loro, ma soprattutto odiavano lui, che pure apparteneva alla stessa specie, e la sua diversità … pregustavano il momento in cui avrebbero soppresso l’anomalia, il lupo di branco. Feroce quanto loro, ma non sempre e non comunque.
Dopo il combattimento finale Pantera decide di seguire nuovamente il suo vecchio comandante Juan Nepomuceno Cortina per andare in Messico e unirsi alla causa di Benito Juarez. Ha accettato finalmente la sua natura di lupo di branco e ha compreso che la battaglia appena affrontata è solo un episodio di una lunga guerra.
La lotta, in questo Paese, continuerà anche senza di noi. Lupi di branco contro lupi solitari. Se avranno la meglio i secondi, l’America sarà l’inferno, e prima o poi il mondo intero. La loro frontiera si sposta -. Ghigno tra sé – Bellegarrigue lo avrebbe però chiamato paradiso. Anzi paradice -. Imitò l’accento del francese.
E in effetti quella frontiera nel 1989 si è spostata fino a Panama, bombardata dagli Stati Uniti. E, nell’anno 3000, ha inglobato l’intero mondo, piagato da una sovrappopolazione di 300 miliardi di persone. In questo lontano futuro sorge un’unica megalopoli che unisce le vecchie città di New York, Los Angeles, Washington. Un mostruoso agglomerato urbano chiamato, appunto, Paradice. Un mondo votato all’autodistruzione, alla stregua di Lilith che in un estremo tentativo di ribellione, uccide l’uomo che la controlla e la vuole violentare. Ma i due si trovano in una navetta spaziale che li sta portando sulla Luna, ultimo avamposto “civilizzato” della Organizzazione mondiale per la sanità mentale in grado di tenere sotto controllo gli abitanti della terra attraverso i lampi, una sorta di scariche planetarie di elettroshock. Lei, rimasta sola e incapace di guidare la navetta, è destinata alla morte. Ma l’uccisione del suo carnefice era l’ultimo disperato tentativo di cercare un contatto umano, l’ultima esperienza voluttuosa che “valeva bene la morte”.
Questa versione fantascientifica della vecchia favola dello scorpione e della rana non vuole rappresentare un futuro ritenuto ineluttabile sulla base di un’antropologia pessimistica. È piuttosto un monito. “Quando un sistema di vita abolisce la comprensione del prossimo, l’aggressività diventa la norma. Dopo non ci sono che nemici, e se non ci sono li si inventa”, sostiene Sheryl poco prima del suo estremo atto di resistenza. Un atto che, occorre sottolineare, non si configura come mero gesto individuale. Evangelisti ce lo fa capire a modo suo: l’arma utilizzata da Sheryl per sparare contro le mostruose forze dell’esercito statunitense è una vecchissima colt a tamburo dalla canna brunita molto lunga, curiosamente caricata a palle argentate, raccolta un attimo prima dalle mani di un giovane panamense ferito a morte che indossava una maglietta insanguinata con la scritta Battallon de la dignidad. Evangelisti non ce lo dice esplicitamente ma è chiaro che è la pistola di Pantera, passata di mano in mano per generazioni di resistenti!
C’è dunque un filo rosso che unisce le lotte degli oppressi del passato e del presente. Un futuro possibile che è stato sconfitto nel passato può risorgere trasfigurato nel presente. Ma quale speranza ci potrà mai essere di fronte a un nemico così potente? Nell’universo narrativo di Evangelisti non c’è spazio per un ingenuo ottimismo, né per alcuna indulgenza verso il mito del buon oppresso. In fin dei conti anche gli sfruttati possono essere dei lupi feroci. Ed è bene che lo siano al momento giusto. E anche se appaiono più deboli dei loro oppressori, non tutto è perduto. La storia di Pantera e dei suoi strambi compagni di viaggio ci mostra che c’è sempre una chance:
Il messicano contemplò, all’ultimo raggio della luna che stava per tornare a sparire, i miseri campioni di umanità che aveva davanti. Trascinare con sé quelle creature fiacche e inservibili poteva costargli la vita. Tuttavia valutò che forse la somma delle loro debolezze poteva dare un risultato superiore alle parti. La magia zoppicante di Vecchia Pipa, la vigoria in declino di Koger, la modesta sensualità di Molly, se prese insieme, formavano quasi una sgangherata forma di potenza. Aggiunta alla sua, poteva dare qualcosa di buono.
La morale di Black flag, insomma, ci offre un monito e una speranza. Attraverso una narrativa di genere tutto suo, Valerio ci ha regalato una storia fantastica per ricordarci, insieme a Marx, che la lotta di classe dovrà finire “con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”; ci ha fatto dono di un meraviglioso racconto per dirci ancora una volta, riprendendo lo slogan degli Industrial Workers of the World, che “noi saremo tutto” soltanto se saremo capaci, per prima cosa, di essere un “noi”.