Dobbiamo annunciare che il nostro direttore, Valerio Evangelisti, ci ha lasciato. Già da tempo aveva problemi di salute, ma ha sempre continuato la sua attività di redazione e di scrittura con la sua lucidità di visione delle cose che lo ha sempre contraddistinto.

D’ora in poi Carmilla non sarà più quella che è stata sino ad oggi e che ha potuto essere nel panorama della letteratura di genere e di critica sociale proprio grazie a Valerio. Tutti noi gli dobbiamo molto e proprio per questo proseguiremo quello che è un grande impegno redazionale con la sua presenza nel nostro cuore.

Ciao Magister!

La redazione di Carmillaonline


Alcune parole di chi lo ha conosciuto, apprezzato e amato

La morte di Valerio Evangelisti mi lascia attonito, ci lascia attonite e attoniti. Se ne va uno dei pesi massimi della letteratura italiana del mio tempo. Senza la sua inesausta opera di radicalità narrativa e poetica, di incisività intellettuale e di presenza storica, la mia generazione letteraria non sarebbe quella che è. Ha spalancato il fantastico, sottraendolo alle fumisterie fasciste e ricollocandolo nel cuore del farsi narrazione, aprendo l’idea di ciclo alla possibilità di percorrere nuovamente una scrittura epica e mitopoietica inesausta, infinita. Perdo, perdiamo un amico e un maestro. Il metallo era urlante tanto quanto la carne, la bandiera nera schiantava lo spettro cromatico, l’inquisitore era colpevole e il colpevole inquisitore, la parola si spalancava a tutte le diversità, la più intollerabile delle quali era il silenzio per impotenza, senza rischio: la morte in vita. Valerio Evangelisti è stato vivo in vita e ora è morto in morte. I suoi cieli plotiniani, ben ancorati nella storia, sono patrimonio del piacere di chi ha letto, legge e leggerà. Vorrei qui, per l’enormità della notizia e della perdita, ricomporre il rito laico con cui fu celebrato al suo exitus Primo Moroni, che Evangelisti amava: la celeberrima poesia di Franco Fortini, a Primo dedicata, è evidentemente dedicata a Valerio.
Forse il tempo del sangue ritornerà.
Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
Padri che debbono essere derisi.
Luoghi da profanare bestemmie da proferire
incendi da fissare delitti da benedire.
Ma più c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli essere guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
Giuseppe Genna
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Tanti anni fa, in un mondo prima di questo mondo, incontrarlo è stato aprire una sliding door.
Esistono la mia vita prima e la mia vita dopo quell’incontro.
Esistono i suoi libri straordinari. Esiste il suo impegno politico. Esistono soprattutto per me il suo affetto e le voci e le anime di tante persone incredibili che mi ha fatto conoscere e incontrare in quel mondo prima del mondo, nei meandri di una rete a 56k. Quelle persone, che popolavano il suo universo, sono ancora oggi la mia famiglia allargata, il regalo più bello che mi abbia e ci abbia fatto.
Esistono tante altre cose, ma le parole mi muoiono dentro.
Esiste il bene che gli ho voluto, tanto.
Il bene che ci siamo voluti. Con lui, con tutti quelli che hanno avuto la ventura di percorrere insieme questo pezzo di strada fuori dal tempo, di avventurosa neghentropia.
Valerio caro.
Silvia Samorì
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Valerio, grazie per averci restituito la storia del Risorgimento italiano come storia di popolo, grazie per i pirati, per i nativi messicani, per il primo sindacalismo.
E grazie per la tua solidità, la solidarietà e la capacità di stare dalla parte giusta.
La terra ti sia lieve, compagno.
Fabio Perretta
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«Ma sì che mi riconoscerai, ho l’accento del Dottor Balanzone!», mi scrisse per un appuntamento in via Paolo Fabbri, a Bologna. Avevo Guccini nelle orecchie dalla scuola. Un incontro, anni fa, e quello era il segno convenuto: la parola del disordine. Scriveva di Eymerich ma, pensa un po’, non gli dispiaceva paragonarsi a una maschera della commedia dell’arte. E come è accaduto alle maschere, la forza del suo scrivere l’ha sentita solo chi ha saputo guardare più in alto, oltre le convenzioni pietrificate. Perché siamo a bagno nel piccolo mondo strafico dei prodotti letterari su misura per la vendita, per le pile di libri uguali, programmati all’usa e getta della lettura innocua, buona per l’intramontabile travaso delle idee. I libri vuoti. Ma sono i libri col nome, la faccia per la TV, per sputare opinioni sul sesso e sui vaccini e sulla guerra. La letteratura dell’oca al passo va coi nuovi fascismi della fiction, che tutto fa brodo, che se serve ci fabbrichi anche un capetto politico per metterlo su da qualche parte. Offrire nuovi, infiniti mondi è un’altra cosa, e quando non ti fanno fuori, come minimo ti mettono sullo scaffale di genere, che già t’è andata bene. C’è chi ha pagato più caro, dai. C’è chi ha preso la via di Londra per non giurare fedeltà all’Austria, e quando è morto non c’erano neanche i soldi per il funerale, ma poi hanno messo le ossa in Santa Croce. E in fondo è una vecchia storia. Prima, ma prima prima, c’è chi ha messo papi all’inferno e ha dovuto sognare la sua città e la cerchia antica senza rivederla più, per farsi rubare i versi, sette secoli dopo, da letture in audiolibro con la voce impostata. Se gli scrittori continuano a scrivere, se gli artisti continuano a darsi, i poeti a tessere un filo, devono avere una tenacia che scànsati. Un santo o un diavolo dalla loro, una testa proprio dura. Li pesti come l’uva, e danno vino. Ma se io avessi previsto tutto questo, forse farei lo stesso.

Luca Baiada

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Lo mandi un salutino a Valerio?
Termina così quasi ogni lettera, ed ogni colloquio con Cesare Battisti, detenuto, che Valerio ha affidato alle mie cure, una volta arrivato a Ferrara.
Ho conosciuto Valerio Evangelisti, quasi 30 anni fa, iniziavo con la mia attività a favore dell’Unione Inquilini, ed organizzammo uno sportello in uno dei quartieri di Bologna.
Lavorava ancora presso l’Intendenza di Finanza, ma era appunto un lavoro: per il resto, ho imparato dopo, scriveva di Eymerich e svolgeva l’attività dei militanti di base nei quartieri.
Ho comprato Urania solo per leggere, appunto, di questo suo personaggio, che sin dall’inizio appariva straordinario: non ho mai letto fantasy e mi sembrava di commettere un sacrilegio.
Ma boom! amore a prima lettura… e poi tutti i suoi libri, come l’allieva disciplinata che non sono mai stata.
Le strade si sono incrociate tantissime volte, ma quest’ultima mi è sembrata che fosse un affidamento: un amico caro, un grande problema, la necessità di un miracolo.
Contavo di organizzare un colloquio tra te e Cesare, studiavo mentalmente come farti fare il tragitto dal cancello del carcere al parlatoio, diversi metri difficoltosi, ma non mi pareva impossibile.
Ma l’ultima volta che ci siamo sentiti mi hai detto che sapevi che Cesare non l’avresti mai più rivisto.
Non è facile salutarti, creatura che ha emozionato in modi che è difficile eguagliare: non è facile neanche entrare in quel carcere e pronunciare quelle parole, stracciando ancora una volta un’anima sofferente e prigioniera, a cui è negato tutto, anche il diritto al dolore.
Troveremo un modo in cui ricomprendere tutto, dolore, amicizia, ergastoli e libertà.
Basterà fra quelle sbarre, anche un piccolo raggio nel nostro sole… quello dell’avvenire.
Ciao Valerio So Long è stato un onore esserti amica
Marina Prosperi
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Ha ragione Giuseppe Genna: la scomparsa di Valerio lascia attoniti. A me ha lasciato talmente attonito da causarmi uno stordimento che mi ha reso incapace di mettere insieme due pensieri, figuriamoci delle parole. Perché Valerio è stato talmente tanto per me, la mia vita, la mia formazione, che a malapena riesco a credere a ciò che è successo. La consapevolezza di quanto mi ha dato mi ha scosso e spinto per lo meno a qualche riga di ringraziamento, attraverso qualche ricordo sparso.
Quando ero studente lavoravo in un’osteria dove si tenevano le riunioni della rivista di antagonismo sociale “Progetto Memoria”; Valerio lo avevo conosciuto in occasione di cicli di cineforum al Kamo, organizzati da lui ed altri. Da rifornitore di boccali di birra, passai per suo volere a redattore della rivista in un brevissimo lasso di tempo. La sua capacità di leggere il reale con una lente interpretativa radicalmente critica, sempre in maniera argomentata e con un fondo di rabbia pacata, sempre ironica mi affascinò subito e mi stupì sempre. Aveva una dimestichezza incredibile nell’usare tutte le scienze sociali come strumenti per arrivare a dimostrare le sue ipotesi interpretative, i possibili sviluppi, le potenziali soluzioni. Mi spediva alla Calusca di Milano – io pischello – a riunioni in cui discuteva dei massimi sistemi gente del calibro di Sergio Bologna, Primo Moroni, Franco Fortini, per poi ascoltare i resoconti con crucciata attenzione.
Poi il Centroamerica, il Nicaragua sandinista: devo a lui e a Daniela Bandini i contatti con l’Agencia Nueva Nicaragua, con cui collaborai vari mesi e dove riuscii ad avere i ganci per le fonti primarie della mia tesi di laurea.
E poi, con i suoi primi successi da scrittore, l’esperienza pazzesca di fargli da cavia-lettore, insieme a Wainer Marchesini: racconti meravigliosi come “Hormigas locas” o “Sepultura”, e tanti altri, che poi inserì – sempre in maniera geniale – dentro le saghe eymerichiane, nei diversi universi spazio-temporali che univa nei suoi romanzi dell’inquisitore. E poi la cartacea Carmilla/Mircalla, rivista dell’immaginario, con le riunioni della redazione nazionale, con Sandrone Dazieri, Luca Masali, Nicoletta Vallorani, Giuseppe Genna, Nico Gallo, Vittorio Catani, Franco Clun, Vittorio Curtoni, Franco Ricciardiello, Danilo Arona, Roberto Sturm e tanti altri ancora, fino a Carmillaonline.
Ma Valerio mi ha dato anche molto a livello politico e umano, come amico e compagno, in mille occasioni. Ma soprattutto celebrando, appena uscito dalla malattia, il mio matrimonio con Genni. Poi, dismessa la fascia tricolore (!), entrando nel cordone del servizio d’ordine – stile Aut.Op. – che ci scortò lungo Piazza Maggiore fino all’osteria, per il primo brindisi.
Ciao fratello, ti voglio bene anch’io.
Nei secoli.
Giorgio Camel
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Ieri Valerio ci ha lasciato, e la perdita ci appare incredibile quanto incommensurabile. Che fossero le mura di via Avesella, quelle dell’Università o del Laboratorio Crash non era mai venuto a mancare, nella sua parabola di militante e scrittore, il contributo di un compagno la cui vita è stata dedicata ad un unico pensiero: il comunismo.
Nemmeno quando le sue apparizioni pubbliche si erano diradate, ma mai annullate, e quando alle richieste per un appello, un’iniziativa, un sostegno – che non davamo mai per scontate – lui ci rassicurava ogni volta con la sua voce tranquilla e generosa.
Nei suoi testi – tutti, dai romanzi, alle prefazioni, ai saggi – viveva e si faceva largo il nostro mondo, con tutte le sue passioni, le contraddizioni, le sconfitte e le vittorie nelle epoche e nei continenti. Una totalità unita ed intessuta in un mirabile corpus da un’unico filo rosso: quello dell’appartenenza di classe, del riscatto e della giustizia sociale.
Forse ciò che li rendeva così convincenti, oltre che coinvolgenti, era la frequente adozione del punto di vista di chi quel mondo lo combatteva e lo combatte – guardie, inquisitori, infami, informatori. E che nondimeno ne veniva affascinato, attratto, succube, nella propria incapacità di immaginarne un altro ed emanciparsi da ogni grettezza ed individualismo. Figuri che riecheggiavano i detrattori di Valerio stesso, quando aveva preso le difese di Cesare Battisti e di altrə esuli della lotta armata del decennio rosso.
Alcune delle sue pagine più belle Valerio le ha scritte ritraendo la sua e nostra Bologna: da “Gli Sbirri alla Lanterna”, vera e propria genesi del proletariato felsineo, a “Il Sol dell’Avvenire” – in cui era immediata la continuità tra istituzioni di ieri ed oggi nella condiscendenza al fascismo e nella repressione di ciò che si muoveva oltre la loro sinistra.
Fino a “Scorrete Lacrime, disse lo Sceriffo”: il suo regalo più grande negli anni più bui della sinistra di Cofferati, che abbiamo combattuto fianco a fianco e sconfitto insieme. Senza purtroppo impedire del tutto che i germi securitari e del razzismo istituzionale tracimassero nel paese, andando a consolidare il presente-futuro di miseria e desolazione che viviamo e che già occhieggiava in quei racconti distopici.
Le compagne ed i compagni autonomə di Bologna si aggiungono al saluto dei tanti e delle tante che ti stanno ricordando in queste ore, levando il pugno chiuso alla Puerto Escondido che tanto amavi e che ti consegna all’oceano infinito del movimento comunista! Hasta Siempre Valerio!
Laboratorio Crash
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La notizia della tua morte ci lascia un tremendo vuoto,
quante cose ancora avremmo voluto chiederti,
quante cose ancora avremmo voluto fare insieme.
In questo scritto racconti del periodo in cui eri il “custode” di via Avesella,
quando una parte dell’archivio di Lotta Continua andò perso,
«Purtroppo gli storici non avranno mai più a disposizione quei documenti» scrivi.
Forse non avremo a disposizione quei documenti,
ma anche grazie a te, Valerio, la sede di via Avesella e il materiale conservato lì dentro sono un patrimonio a cui oggi abbiamo accesso.
Anche grazie a te abbiamo gli strumenti come compagnə, storichə, archivistə, studiosə, appassionatə per ricostruire queste storie e farle parlare con la città.
Anche grazie a te sappiamo che la storia si deve raccontare, ma che esistono tanti modi per farlo: tu l’hai sempre fatto mettendoti nei panni degli ultimi, dei reietti, dei marginali, facendo emergere i loro punti di vista, raccontandoci storie ordinarie da prospettive inedite e storie straordinarie da prospettive comuni.
Non hai mai smesso di raccontarci conflitti, di regalarci visioni, di restituire dignità alle storie e a chi le ha vissute.
Ti vogliamo ringraziare per averci insegnato che la storia e la narrativa si possono intrecciare in modi bellissimi; che la fantascienza può parlare delle lotte del presente; che la rivoluzione ha tante forme e l’importante è tentarla.
Dal canto nostro, oggi più che mai ci sentiamo pienə di responsabilità e sentiamo sulle nostre spalle il compito di far continuare a suonare con foga quei campanellini da via Avesella per tutta la città…
Buon viaggio Valerio, ci mancherai molto. 🌹
Archivio via Avesella
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Valerio in questi mesi di pandemia ha fatto incontri clandestini. Ci trovavamo per pranzare insieme ad altri compagni, ma non dirò certo dove. Del resto come la pensava Valerio riguardo la gestione criminale della pandemia lo si desume da questa lettera che abbiamo scritto insieme a Roberto.

Non è stato facile restare in contatto in tutti questi mesi: le restrizioni per qualcuno, anzi per molti sono come una gestapo di regole demenziali.

Non posso nemmeno immaginare come questa solitudine abbia pesato ancora di più per lui.

Ma dicevamo in culo alle regole, davanti a quella che è oggi l’azione più sovversiva: il contatto umano, un abbraccio, guardarsi negli occhi e ridere, parlare, senza distanze prima ancora mentali (di chi ha accettato) che fisiche.

Partigiani della propria vita, come unica regola che fonda la propria visione del mondo. Valerio è sempre stato coerente fino in fondo, vedendo oltre gli eventi contingenti più di chiunque altro.

No, non farò nomi, di chi in questi 40 anni ha collaborato con noi, sin da Carmilla cartacea e poi online, di chi ha lavorato a Progetto Memoria, persone indubbiamente di spessore, alcuni divenuti anche famosi nel panorama letterario. Non sono importanti i nomi, ma i luoghi, dove andavamo come carmilliani: i centri sociali, come il viaggio al Leoncavallo, le librerie di movimento, ovunque ci fosse pensiero critico e lotta.

Solo due nomi, sì, due li devo fare, perché se non ci fossero stati loro, la vita di Valerio sarebbe stata più complicata, ne sono sicuro: Daniela e poi negli ultimi tempi Alessandro con lei. Sono stati straordinari nel sostenerlo, soprattutto nell’ultimo periodo. 

E uno dei ricordi più belli che ho di Valerio è proprio legato a loro, a mia moglie Kayo e ad Antonello, l’ultimo compleanno del Magister prima della pandemia, quando ci trovammo da Mimì, la pizzeria sotto casa sua. È un ricordo ancora vivido di quei momenti trascorsi insieme, come tanti altri flashback che me lo rendono ancora reale. E che in questi giorni mi fanno dire: è impossibile, impossibile che sia accaduto. Non è vero.

Nico Maccentelli

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Ricordo di un cattivo maestro
Un redattore di Zic.it sullo scrittore e militante scomparso ieri: “Ci spronava a continuare a lottare, a non perdere mai di vista l’importanza dei nostri sogni di cambiamento, a resistere e se possibile contrattaccare”.

Valerio Evangelisti era il mio cattivo maestro, ricordo ancora quando lo vidi per la prima volta, appena diciottenne, durante l’occupazione contro la riforma Moratti del liceo Minghetti nel 2001: venne a trovarci per sostenerci, solidarizzare e tenere una bellissima lezione sull’importanza della scuola pubblica. Lo ricordo ancora lì, seduto in cattedra, che ci parlava di quando era un giovane studente del Minghetti, delle occupazioni del Liceo degli anni ’70, degli scontri coi fasci, dell’Autonomia, della violenza repressiva della polizia di quegli anni e dell’importanza della cultura e della penna come forme di resistenza alle barbarie del quotidiano.

Ci spronava a continuare a lottare, a non perdere mai di vista l’importanza dei nostri sogni di cambiamento, a resistere e se possibile contrattaccare, ed anche lui lo fece: ricordo perfettamente come si erse in nostra difesa contro un deputato bolognese di Forza Italia, anche lui ex minghettiano, che aveva istituito un “telefono-spia” per segnalare i prof considerati di sinistra al ministero, e lo fece con cultura ed ironia, ricordando al deputato, che aveva avuto il coraggio di presentarsi all’occupazione, alcuni trascorsi di quando entrambi erano giovani liceali e di come fosse divenuto famoso come “centometrista”, tra le grasse risate dei presenti.

I suoi romanzi, i suoi articoli e le sue ricerche hanno poi accompagnato la mia formazione universitaria e politica, con quella sua incredibile capacità di scrittura, quella facilità di lettura che solo i grandi romanzieri sono capaci di avere, e la sua meticolosa attenzione alla Storia. Ho avuto la fortuna di assistere ad alcune presentazione tenutesi a Vag61 dei suoi ultimi libri, e quindi di poterlo poi conoscere di persona, ma sempre con quella deferenza e quella timidezza che riservo verso chi ritengo mi abbia formato: anni addietro avremmo dovuto presentare assieme un libro sul fascismo ma le sue condizioni di salute non gli permisero di esser presente, eppure le sue parole di incoraggiamento le porto ancora dentro e mi spronano ancora a resistere e contrattaccare.

Ciao Valerio, sib tibi terra levis.

Un redattore di Zic

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Avevo vent’anni e già qualche bel fallimento alle spalle quando incrociai la redazione di Carmilla, una rivista di fantascienza e approfondimento politico di sinistra (cose che mancano un po’ oggi, e infatti si vede come va il mondo). In quel circolo letterario e politico feci i miei primi passi seri nell’editoria e illustrazione. Questa per esempio, per un racconto di Nicoletta Vallorani, la ricordo con piacere. Direttore era Valerio Evangelisti, un grande spirito. Anni dopo conobbi i suoi libri di Eymerich, irresistibili, da cui nacque la collaborazione per il fumetto, i raduni di fan dove ho conosciuto mia moglie e tante amicizie, la serie di librogame… Poche persone hanno la capacità di trascinare le vite in percorsi convergenti, e farne nascere qualcosa di meglio. Valerio sicuramente aveva questo dono. So long…

Francesco Mattioli

 

 

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Caro Valerio,
a Marina, amica e mia avvocata grazie a te, poco tempo fa hai detto: “Mi sa che Cesare non lo riabbraccerò mai più”. Ci sono rimasto male, ma che vuoi, con due ergastoli sulle spalle e un nome come il mio, il presagio non era da scartare. Era a me che pensavo, amico caro, alla mia impossibilità di tornare a noi, non alla tua vita che stava per finire. Avevo gli occhi chiusi sulle tue pene. Volevo a tutti i costo credere che il tuo era un malessere passeggero e che il fratello con cui avevo scalato il cielo venisse di nuovo a trarci in salvo, ad aprirci insieme orizzonti nuovi. Che egoismo il mio. Pensavo anche che avevo bisogno di vederti, di incrociare ancora i nostri sguardi e ritrovare nei tuoi occhi l’allegria che faceva palpitare le parole tra le righe. Avevo una cosa seria da dirti. Se ci fossimo rivisti, ti avrei sorpreso con parole sdolcinate che tanto aborrivamo. Ti avrei detto una cosa che porto nel cuore da troppo tempo e che adesso la devo gridare per farmi sentire ovunque tu sia. Sei stato tu, fratello caro, a farmi credere che ce la potevo fare. C’era la tua ironia sulla mia dannata pagina bianca; c’eri anche tu a sfottermi quando mi rotolavo nell’impotenza. Hai lasciato in giro tanto amore che, mi chiedo, come faranno tutti gli altri a sopportare il vuoto che hai lasciato. Perché io vorrei che qualcuno mi dicesse come abolire almeno le prossime ore.
Ciao Valerio
Cesare Battisti

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Per Valerio Evangelisti

Intervista di Loredana Lipperini

Valerio Evangelisti, grande scrittore, uomo buono, amico, è morto ieri. Non era il re del fantasy, come leggo qua e là. Era l’autore che ha incrociato le vie del fantastico col mito, e soprattutto con la storia. Per ricordarlo, un’intervista del 2009. La feci per Mente e cervello. Leggetelo, ricordatelo.

Partiamo dallo scaffale: che diventa difficile da decidere per quanto riguarda la tua opera. Romanzi storici? Fantascienza?  Horror? Fantastico? Western? Avventura? Penso a Tortuga, anche. E penso a tutto il resto. E penso, e ti chiedo, quanto ha senso costringere la  narrazione in una sola definizione?
Sono orgoglioso del fatto che i librai abbiano difficoltà a collocare la mia narrativa in un settore specifico. Inizialmente finivo regolarmente nell’angolo della fantascienza, anche con romanzi per due terzi storici e per un terzo fantastici come Magus. In realtà, pure i miei primi romanzi “fantascientifici” toccavano generi vari. Adesso ho rotto la gabbia (al prezzo di sacrificare un poco Eymerich, il mio personaggio più famoso) e classificarmi è diventato difficile. Era il risultato che mi prefiggevo fin  dall’inizio. C’è chi mi inserisce nella categoria generale dei “romanzieri d’avventura”. La qualifica mi onora, però spero di sfuggire appena possibile anche a quella definizione. La narrativa che amo è libera e poco etichettabile.
Restringiamo il campo al tema del fantastico. Qui, mi sembra, le acque si confondono ulteriormente, e non è ben chiaro, nel nostro paese, cosa sia per esempio fantasy e cosa horror e cosa fantascienza. Ma la sensazione è che ci sia una parte di autori che insista per mantenere alzate le barriere, anziché abbassarle. Cosa ne pensi?
Abituati al ghetto, esistono scrittori che lo scambiano per il mondo intero. Finiscono per adattarvisi e per ritenere ostile, in nome del loro comfort, tutto l’universo “esterno”, che li ignora. Li comprendo, li stimo, ma ho fatto una scelta diversa dalla loro. A me interessa una narrativa che si scontra-incontra con grandi temi storici e sociali, che si confronta con il presente (anche se mascherato da passato o da futuro). Io non ho una formazione letteraria, ho studiato e per un po’ insegnato scienze politiche – storia, sociologia, economia. La grande fantascienza che lessi da ragazzo era piena di suggestioni di quel tipo. Si parlava del futuro per riferirsi all’oggi. Chi si chiude nei recinti dell’horror, della science fiction, del giallo ecc. rischia di creare da solo il proprio campo di concentramento.
Penso al lavoro fatto sul genere, nei campi del noir e del giallo. Nobilitato, portato al massimo livello di visbilità, e giustamente dissolto dentro il mainstream. Credo che in Italia la nebulosa di testi che ora “risuona” nel New Italian Epic  debba molto a quell’esperienza. Ma due settori sembrano ancora essere  immuni, o poco toccati, da questo discorso. E penso proprio a fantasy e horror. Perché?
Il giallo-noir di Macchiavelli, Lucarelli, Carlotto, De Cataldo, Camilleri, Fois  e altri, è stato il primo a sfondare le barriere. Parlava di società italiana proiettandole contro una luce fredda, mentre i bestseller correnti mettevano in scena drammi individuali magari interessanti, però avulsi dal contesto socio-economico, ed evitavano di prendere posizione. Qualche volta si limitavano a esercizi linguistici. Il noir, dunque, è stato importante, anche se poi ha generato una serie di romanzetti hard-boiled che dei modelli americani o francesi traevano solo le frasi sincopate e ciniche dei dialoghi.
Diverso il discorso per il fantasy e l’horror. Il primo ha preso piede (relativamente) in Italia quale antitesi alla fantascienza e alla sua logica. Prevalgono tra noi i testi poetici e carini, scritti da donne o ragazze per compiacere un pubblico di adolescenti – salvo occasionali scene “hard” di duelli, per tenere alta l’adrenalina. Quanto all’horror, non mancano in Italia autori di genio (Gianfranco Manfredi, Danilo Arona, Chiara Palazzolo, Alda Teodorani, Gianfranco Nerozzi), ma spesso ignari, salvo i nomi che ho citato e alcuni altri che non ho citato, delle profondità psicologiche che dovrebbero sondare. Insomma, il “genere” regge solo se è sorretto a sua volta da un progetto e da una filosofia. Altrimenti si riduce a trame stente e marionette spacciate per personaggi.
Quali sono, a tuo parere, i modelli dell’horror italiano? Ho spesso la sensazione che si fraintenda, per esempio, Stephen King e si tenda ad applicare l’etichetta horror anche a sue opere che non rispondono al canone stretto di horror. Insomma, il mondo del genere va avanti, altrove, e da noi si resta fermi ad una concezione del genere “da nerd per nerd”, dove la cura del linguaggio e del meccanismo è minima. Eppure ci sarebbe un pubblico predisposto ad accogliere il mutamento. Cosa lo impedisce?
Il guaio delle etichette è che poi è difficile staccarle. Anche se scrivesse un manuale di architettura, King finirebbe ugualmente tra i romanzieri horror, nelle librerie, e ciò è per qualche verso naturale. Il libraio che   si informa sui testi che vende è, non solo da noi, una specie in via d’estinzione. Io però non credo troppo all’efficacia dei modelli, si tratti di King, di Manchette o di Tolkien. Generano imitazioni non all’altezza dell’originale. Bisognerebbe essere capaci di violare sistematicamente la fonte ispiratrice, e sovrapporvi necessità di espressione personale. Faccio un esempio in positivo. Una giovane scrittrice palermitana, Alessandra Daniele, è diventata nota nel web per una serie di racconti brevissimi e fulminanti pubblicati nel sito Carmilla. Recentemente Urania le ha chiesto una serie di racconti più lunghi, da pubblicare in appendice. Poteva essere una specie di consacrazione. Lei ha risposto: no, io mi esprimo in altra maniera, la brevità dei miei pezzi è una scelta artistica. Temo che non sarebbero in tanti, in Italia, a reagire allo stesso modo. Specie se gli  eventuali modelli di riferimento sono di origine non letteraria, ma televisiva.
Appunto. Veniamo agli stereotipi. Purtroppo molta narrativa fantastica italiana è blindata dentro i medesimi. Specie quando si parla di personaggi femminili. A cui tu, invece, hai sempre posto grande attenzione. Penso al grande antagonista del femminile stesso, Eymerich. Solo per fare un nome. Quanto occorre lavorare perché il narratore acquisti questa consapevolezza?
Di solito mi ispiro a donne che ho incontrato nella mia vita. Forse questo mi aiuta a comporre personaggi credibili. Normalmente si tratta di persone che per quanto vinte, umiliate, schiavizzate, mantengono una loro irriducibilità. Alla fine trionfano. Lo stesso Eymerich, nemico giurato del femminino in assoluto, finisce per soccombervi. Nella narrativa di genere prevalgono invece ancora oggi la figura della bambolona, della donna passiva, dell’intrigante o, di converso, della super-donna capace di battere un uomo sul suo stesso campo, che sarebbe quello della forza bruta. Non so quali siano state le esperienze personali degli autori (e in qualche caso delle autrici) verso l’altro sesso. Nel mio caso quel rapporto mi ha arricchito, e fatto superare lo stereotipo secondo il quale “tutte le donne sono uguali”, “tutti gli uomini sono uguali” ecc.
Infine, una domanda sulla storia. Esplorarla per restituire la meraviglia che un tempo la fantascienza riservava all’esplorazione del futuro è una, credo, delle tue chiavi narrative. Anche qui: quanto si fraintende il concetto di romanzo storico?
La scena geniale del film 1492 è lo sbarco di Colombo. Approda in America come in un altro pianeta, non sa cosa si nasconda dietro i cespugli e la nebbiolina. Pare scendere su Marte. La storia è ricettacolo di abitudini strane, di forme di dialogo oggi incomprensibili, di costumi totalmente diversi. Chi rilegga oggi il Satyricon di Petronio, primo romanzo della latinità, fatica a ricostruire la logica delle conversazioni tra aristocratici romani adagiati sul loro triclinio. E il fenomeno si ripete anche in prossimità dei nostri tempi. Una donna ritenuta bella in un film del 1910, oggi la definiremmo grassa e basta. Un romanzo storico non può  restituire un passato quasi inconoscibile per intero. Può solo indurre nel lettore il “sense of wonder” di chi si curvi sull’ignoto, allo stesso modo della vecchia fantascienza. Fantascienza e romanzo storico hanno coltivato, e coltivano ancora, l’arte sublime del meravigliare.

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Listate a lutto, le bandiere rosse piangono la morte del compagno Valerio Evangelisti. Lui, che con la sua penna e la sua intelligenza ha trasformato in una spada la storia di moltitudini di donne e uomini protesi nella sempiterna sfida al presente, vive ora nei cuori e nelle menti delle tante e dei tanti che hanno avuto il piacere e l’onore di leggere e ascoltare le sue parole, traendone la forza necessaria a proseguire la lotta.

Intellettuale sensibile e generoso, Valerio non ha mai fatto mancare il suo sostegno ai figli della stessa rabbia che ha animato le straordinarie epopee proletarie raccontate nei suoi tanti libri.

Scrittore visionario, ha puntualmente restituito la parola a una realtà che ora e sempre ci ricorda che il futuro non è scritto ma che la guerra agli oppressori continuerà fino alla vittoria. È stato lo stesso Valerio a dircelo, inviando in redazione un contributo destinato a un volume dedicato alla Comune di Parigi curato da Accademia Rebelde. Nel dolore immenso per la sua morte, la forza che Valerio ci regala è il ferro che continua a pesare sulla testa delle classi dominanti. Perché, scrive Valerio a proposito della disfatta della Comune: «I carnefici hanno però trascurato la nascita di un bambino. Ha appena acquistato coscienza, è ancora fragile. Si chiama proletariato. Divenuto adulto, manifesterà sé stesso in mille occasioni. E, tante volte, la classe dominante avrà poco da sorridere. Quando vuole, quando recupera coscienza, il piccolo è capace di mordere».

La lotta continua, Valerio vive!

Red Star Press

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Valerio Evangelisti, per gli amici Solong
Valerio, un gigante in tutti i sensi: umano, fisico, intellettuale se ne è andato due giorni fa.
Per me è stato un amico e un punto di riferimento importante nella mia formazione sin dagli anni 90. Difficile definire cosa fosse perché era veramente un gigante in molti campi delle scienze sociali e della cultura: scrittore di primo piano, storico, militante politico rivoluzionario. Negli ultimi anni, per problemi di salute, è stato un po’ defilato dalla scena politica bolognese, ma ciò non gli ha impedito di essere l’ unico intellettuale di rilievo di sinistra a schierarsi nettamente contro il green pass. La cosa non mi ha mai sorpreso, sapevo che almeno da Solong non mi sarei sentito tradito. Proprio nei mesi scorsi mi sono letto tutto di un fiato la sua bellissima trilogia ” Il sole dell’ Avvenire”, una storia romanzata del movimento operaio e contadino nella Romagna di fine ottocento fino alla resistenza antifascista.
Leggendolo si capisce un aspetto che oggi è coperto dal volta faccia di molti: le lotte sociali che hanno fatto la storia di tutte le conquiste migliori sono sempre state mosse da un anelito incoercibile di LIBERTÀ. Libertà dai bisogni materiali, dalla repressione dello stato, dagli abusi padronali o polizieschi. Questo sentimento tracciava una  linea di demarcazione netta, definiva chi era in cammino per una società migliore e chi stava con l’ abuso e lo sfruttamento.
In particolare poi, rispetto al tema della guerra, che è uno dei tanti deja’ vu che ricorrono tristemente, la parte più consistente del movimento operaio e contadino si è sempre opposta, con lo slogan ” guerra alla guerra”.
Oggi prevale l’ opportunismo conformista, quindi gran parte di chi avrebbe dovuto giocare un ruolo di opposizione alle mostruosità viste negli ultimi due anni, di cui il green pass è solo un tassello, si è totalmente allineato alle politiche del potere. Infangando chi ha continuato a difendere spazi di libertà, di diritti, di umanità.
Libertà è oscenamente diventata una parola da denigrare, da ascrivere all’ individualismo borghese.
Si è spacciata per responsabilità sociale l’ allinearsi a politiche anti sociali che non solo niente hanno a che spartire con la salute, ma  che rendono patologici molti aspetti della vita bio psico sociale delle persone, soprattutto di quelle più fragili.
Ecco perché per me la perdita di uno come Valerio è grande.
Con lui se ne va un partigiano vero, per il quale essere coerentemente anti fascista aveva delle conseguenze rigorose, limpide, precise
Mi auguro che il ricordo del suo esempio sia da stimolo e da esempio a tutti i veri anti fascisti, che non sono sicuramente quelli delle celebrazioni liturgiche senza contenuto alcuno, ma l’ anti fascismo che oggi afferma con forza che le due battaglie sono insolubili: guerra alla guerra e riconquistare piena libertà e diritti per tutti abolendo l’ apartheid  emergenzialista e il vaccinismo forzato degli ultimi due anni.
Che il cielo dei ribelli ti accudisca caro Valerio, fratello e compagno.
Davide Milazzo
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La fraternità di Valerio Evangelisti

La lunga e vorticosa militanza politica. La straordinaria e prolifica esperienza di scrittore e studioso dei movimenti sociali. La sua gentilezza, la sua incredibile generosità. Difficile raccontare tutto ciò che è stato ‘So Long’, ma ci proviamo. I funerali si terrano domani alle 11 al cimitero di Casigno, frazione di Castel D’Aiano.

Non sappiamo se Bologna gli dedicherà mai una strada, una piazza, un giardino o una sala pubblica, ma Valerio Evangelisti, al di là di ogni retorica, è stato sicuramente uno dei suoi figli migliori.

Haidi Giuliani ha scritto: “Penso che Bologna, particolarmente, debba essere in lutto”.

E’ vero, è proprio così, la grande perdita di Valerio potrà essere alleviata solo se quelli e quelle della “sua parte”, tutte le realtà e tutte le persone per cui lui si è speso, faranno insieme qualcosa per ricordarlo degnamente.

La “città ufficiale” lo commemori (se lo farà) come meglio crede, ma gli spazi autogestiti, i collettivi, le organizzazioni politiche, gli archivi di movimento, i gruppi di base che Evangelisti ha frequentato e sostenuto debbono tenere vivi i suoi scritti e le sue idee, debbono continuare a far circolare i suoi libri, per il valore “universale” che rappresentano nella storia delle “classi oppresse”. E al di fuori di ogni logica da “memoria condivisa”, che Valerio ha sempre contrastato.

Infatti, diverse volte, nel corso degli anni, Evangelisti se l’è presa con l’ondata di “revisionismo” che ha investito la storiografia. I periodi potevano essere diversi, e svariare dall’Inquisizione al Fascismo, ma lui ha sempre trovato assurdi e ridicoli gli scritti storici che tentavano una loro riabilitazione. Li bollava come manifestazioni di barbarie e di oscurantismo che, in nome dell’anticomunismo, attaccavano tutti i momenti della storia in cui si era fatta strada l’idea di eguaglianza: dalla rivoluzione francese alla resistenza al nazifascismo, alle battaglie per la democrazia.

Era nato a Bologna nel 1952, emiliano per parte di padre, romagnolo per parte di madre, ed era sempre andato molto fiero del suo accento che “proteggeva” il suo linguaggio senza fronzoli, molto semplice e diretto anche quando parlava di cose complesse. Il suo amore per la regione in cui era nato e che lui chiamava “la terra degli uomini con la capparella” lo dichiarò anche in un articolo del settembre 2004 su un quotidiano francese. Del resto, Evangelisti a studiare era rimasto a Bologna dove, nel 1976, si laureò in Scienze politiche, con indirizzo storico-politico. Dopo la laurea, trovò lavoro al ministero delle Finanze, alternando a questa professione la ricerca storiografica e la produzione dei suoi primi saggi.

La militanza politica

In città, nel 1969, aveva iniziato a militare nei collettivi studenteschi e nella sinistra extraparlamentare, infatti fu da un suo compagno di Lotta continua che uscì il sopranome di “So Long” che gli fu affibbiato per diversi anni. Valerio di quel suo appellativo ne parlava così: «Il nomignolo derivava dalle sigarette che fumavo e dalla mia statura altissima. In quei tempi ci si chiamava essenzialmente per nome o soprannome. I cognomi riguardavano la polizia. Nessuno stava a chiederli».

Del movimento del ’77 Evangelisti scrisse molti anni dopo e con una grande lucidità: «In quel periodo io fui una delle parti in causa – “protagonista” non lo sono mai stato…».

Con uno suo contributo nell’Atlante dei movimenti culturali dell’Emilia-Romagna volume 3° (a cura di Piero Pieri e Chiara Cretella, Ed Clueb, Bologna, 2007) cercò di trovare un comune denominatore sociale alla massa eterogenea dei ribelli del ’77. Sapeva che era una cosa audace, ma decise di rischiare: «I protagonisti del ’77 erano (o parevano) principalmente studenti. Sì, ma quali studenti? Questa era la domanda che nessuno si poneva, e che nessuno si è posto in seguito, dopo che l’intero periodo storico è stato collocato in toto nella storia giudiziaria e lì cristallizzato (sia notato en passant: ben pochi ex “settantasettini” hanno raggiunto posizioni sociali di rilievo, a differenza dei loro presunti progenitori del ’68; salvo completa abiura, non così frequente).

Per chi visse il ’77 dall’interno, la risposta non è tanto difficile. L’Università di Bologna, polo d’attrazione per la sua fama, ha sempre visto una maggioranza di studenti fuorisede, provenienti in larga misura dal meridione. Alla fine degli anni Settanta, si mantenevano agli studi con ogni sorta di lavoro precario, e anche la laurea non garantiva loro un automatico sbocco professionale di prestigio. Ciò del resto valeva per ogni universitario, sebbene l’accesso alle professioni fosse, per chi era nato e viveva a Bologna, meno lento e problematico. Gli studenti finivano per alimentare il meccanismo del lavoro precario che l’assetto produttivo emiliano-romagnolo aveva quale naturale modus vivendi… E poi c’erano i marginali, i freaks, i piccoli malviventi. Una quantità, in un movimento che accoglieva nelle proprie fila il “proletariato extralegale”. Se il ’77 non ha prodotto una nuova classe dominante, lo si deve anche alla sua, negletta, composizione sociale… Che diede oggettivamente vita a un movimento operaio alternativo (l’altro movimento operaio, lo chiamò lo storico tedesco Karl Heinz Roth) che fondava le proprie rivendicazioni non sulla competenza professionale, bensì su bisogni dettati dalla vita in società, senza alcuna connessione tra questi e il lavoro erogato… Si trattava di bisogni non primari del proletariato che esigevano soddisfazione immediata, e su di essi andava modellato l’antagonismo…

Di qui il diffondersi a Bologna, ben prima dell’11 marzo 1977, della pratica della “autoriduzione” oppure dell’esproprio… Essendo la cultura uno di questi bisogni, furono svuotati negozi di dischi, si assalirono librerie, si invasero sedi di concerti, si fece irruzione nei cinema senza pagare il biglietto (ne fece le spese, tra l’altro, il film “King Kong” di John Guillermin). Quanto ai bisogni primari, si moltiplicarono le incursioni nei ristoranti, in cui, in cambio del pasto, si lasciava una cifra simbolica… Oggi tutto ciò può apparire bizzarro (e lo era già allora, agli occhi di chi coltivava una visione meno eterodossa del pensiero antagonista), però credo evidenzi due cose. Il movimento del ’77 non agiva casualmente, ma rifletteva su se stesso e sui propri compiti persino di più di quanto avessero fatto i suoi progenitori del ’68. In secondo luogo, le idee che lo percorrevano avevano poco o nulla in comune con le teorizzazioni delle Brigate Rosse».

Tra il 1978 e il 1979 Valerio / So Long si trovò ad essere, “di malavoglia”, il gestore di via Avesella 5/B, quella che nei primi anni ’70 era stata prima la sede de il manifesto (che allora, oltre che un giornale, era un gruppo politico), poi di Lotta Continua. Dopo lo scioglimento di L.C. nel 1976, per un breve periodo, ci fu la redazione bolognese del quotidiano Lotta Continua, poi, a partire dal 1978, ci fu una fase confusa in cui si insediarono diversi collettivi sopravvissuti all’estinzione del gruppo extraparlamentare, vicini all’area dell’autonomia, ma ancora non disposti a rinunciare del tutto alle vecchie simbologie. Secondo Evangelisti: «L’attività del 5/B, a tre anni dal decesso di Lotta Continua, era ricchissima, le riunioni quotidiane. A parte i collettivi strettamente politici, vi si ritrovavano il comitato di base dei tranvieri (quattro in tutto, però promotori di uno sciopero selvaggio che aveva paralizzato la città); vi operava la mattina un ambulatorio autogestito per eroinomani, curati con somministrazioni di morfina (nacque un problema quando ci si accorse che i medici lasciavano le fiale di morfina in un cassetto di via Avesella: abbastanza per farci finire tutti dentro, alla prima perquisizione); si incontravano gruppi musicali di quartiere; si radunava talora l’Unione Studenti Africani; confluiva occasionalmente la redazione de Il fondo del barile, un giornaletto scritto in larga misura da operai della Ducati».

Sempre come So Long, agli inizi degli anni Ottanta, Evangelisti prese parte a due occupazioni di spazi sociali: il Crack 1, ma soprattutto il Crack 2.

Così le descrisse sul libro Gli Autonomi (Volume 1 – Derive Approdi, 2007): «Da quando avevo lasciato la sinistra extraparlamentare – prima Lotta Continua poi Avanguardia Operaia, e infine la complicata diaspora di L.C. – avevo simpatizzato per gli autonomi romani di via dei Volsci, più “bolscevichi” nel modo di fare. Questi erano alleati all’Autonomia padovana nel Comitato Anti-Anti (Antinucleare Antimperialista). Però gli unici autonomi attivi a Bologna erano quelli dei Cpt (Comitati Politici Territoriali), legati ai padovani dissidenti e a un giornaletto chiamato “Passpartù”. Vi aderii, per quanto ancora idealmente vincolato ai Volsci. Il primo Crack durò un mese appena. Sorgeva in via San Carlo, in uno di quei piccoli prefabbricati che i muratori costruiscono quando hanno in corso lavori, e a volte lasciano a lavori finiti. Bastò un concerto degli Irah perché il Comune mandasse le ruspe. Furono distrutti anche tutti gli strumenti musicali e gli effetti personali… Ma dopo pochi mesi il Crack rinacque, questa volta in via Riva Reno. Si trattava anche in questo caso del capanno di un cantiere abbandonato, però molto più grande… Il Cpt si installò nel Crack 2 alla testa delle sue legioni di “operai sociali”. Che cosa si faceva? Be’, anzitutto si viveva assieme. Eravamo tutte le sere a decine. Si beveva, si discuteva, si conversava, si metteva su musica… I punk erano sempre presenti, e grazie a loro si organizzavano dei concerti con band venute da tutto il mondo….».

Nel 1983, con l’operazione Urgent Fury, il presidente Ronald Reagan diede l’ordine alle forze armate americane di invadere l’isola di Grenada che, in seguito ai suoi rivolgimenti politici, avrebbe potuto portare lo staterello delle Antille nell’ambito dell’influenza sovietico/cubana. Valerio promosse la costituzione di un comitato di sostegno ai grenadini. Negli stessi giorni Evangelisti stava leggendo un libro di Jean Ziegler, “Les Rebelles”, sulla rivoluzione sandinista in Nicaragua, sintesi tra socialismo e democrazia dal basso. Quella lettura lo “trascinò” in un altro continente: «Mi convinsi che non ci sarebbe stata una rivoluzione in Italia, e che bisognava sostenere quelle in corso altrove. Assieme ad altri diedi così vita a un gruppo internazionalista, il Circolo Carlos Fonseca. L’interesse per situazioni straniere, e in particolare per l’America Latina, forse ci salvò dalla repressione durissima che si abbatté sul movimento».

In un’altra intervista Valerio raccontò: «In quegli anni io mi proiettai molto di più fuori dall’Italia; quella che poi sarebbe stata mia moglie si trasferì addirittura là, e io la raggiungevo ogni volta che potevo. Dalle cose italiane cominciai a tenermi un po’ alla larga… Il circolo Carlos Fonseca è esistito fino alla fine dell’86, inizi dell’87, e si era allargato molto, ma poi iniziò a restringersi, anche perché nel Nicaragua la situazione cominciava a non essere più così “sexy” e attraente come era prima; ci furono inoltre dei dissidi interni, anche abbastanza forti e finimmo per scioglierci… Allora quale fu il mio destino in tutto questo viaggio? Esisteva in quel periodo a Bologna un circolo (di cui mai avevo fatto parte né mai mi ero avvicinato) che si chiamava Kamo, il quale raccoglieva gente proveniente dal Cpt e compagni arrestati all’inizio degli anni Ottanta che cominciavano ad uscire dalla prigione…. Il Kamo era separato dall’autonomia tradizionale, che si riuniva in via Avesella: alcune componenti dialogavano, altre avevano scarsi rapporti. Comunque il circolo Kamo diventò un punto di riferimento per varie cose. Io cominciai a frequentarlo… Tutto questo nell’87. Poi un’altra cosa che facemmo fu di rimettere in piedi la vecchia radio Under Dog, la quale non aveva mai chiuso ma trasmetteva solo musica: tentammo di farci dei programmi e una serie di attività culturali…».

Alle soglie degli anni Novanta, Evangelisti diede vita a una rivista di storia dell’antagonismo sociale, intitolata Progetto Memoria. Da quella esperienza, in seguito, nacque Carmilla, una pubblicazione prima cartacea e poi on line. Era stata una sua felice intuizione ed era dedicata alla narrativa fantastica e alla critica politica. Lo scopo della rivista, secondo il suo direttore editoriale, era di fare emergere le potenzialità critiche e antagoniste della letteratura “popolare”, cioè di genere.

Valerio trovò il tempo pure per collaborare all’edizione francese di “Le Monde Diplomatique” e di far parte del nucleo dei fondatori dell’Archivio storico della nuova sinistra “Marco Pezzi” di cui divenne “formalmente” il presidente.

Delle sue turbinose esperienze politiche ha più volte dichiarato: «Delle idee del passato, non ho mai rinnegato nulla, a parte aspetti molto marginali. Al contrario, quelle idee mi sembrano più attuali che mai… E’ alla sinistra “scomoda”, e non a quella imbolsita e oggi transitata a destra, che si devono la vittoria contro il nucleare, le più decise azioni antirazziste, il permanere di un antifascismo militante, il sopravvivere di un internazionalismo autentico, l’ancora larga diffusione di culture non ufficiali che passano di generazione in generazione, l’antimilitarismo, la critica dei sindacati accondiscendenti, la scoperta e l’uso di mezzi di comunicazione alternativi, la genesi di nuovi generi musicali, letterari e pittorici (i graffiti tanto odiati dal potere), la prima affermazione di massa del femminismo, l’antiproibizionismo…».

In anni più recenti, nella prefazione al libro “Berretta Rossa – storia di Bologna attraverso i centri sociali” (ed. Pendragon 2011) Evangelisti ha parlato del valore del concetto di fraternità: «La Rivoluzione francese, che tanta influenza esercitò sulle insurrezioni dei due secoli successivi, aveva un motto notorio: “Libertà, uguaglianza e fraternità”. La terza parola, la più trascurata, è quella che meglio definisce l’esperienza dei centri sociali. Laboratori di politica e cultura, certo, fucine di lotte e di forme alternative di svago, ma anche, in primo luogo, aggregazioni di individui che hanno deciso di aderire a un comune assieme di valori.

Ciò appartiene in fondo alla storia del movimento antagonista, sia antica che recente. Funzionavano grosso modo così le Case del Popolo, risalenti ai primi del ‘900 e, in qualche caso, all’ultimo decennio dell’ ‘800. Pensato alla stessa maniera era il circuito Arci. Più vicini a noi, nel tempo e nello spirito, i Circoli del Proletariato Giovanile degli anni ’70, o le Mense proletarie di Napoli e di altre località… A ben vedere, la sinistra antagonista si è sempre differenziata da quella istituzionale non tanto per questioni ideologiche (riforme o rivoluzione, elezioni o astensionismo, sindacato o organizzazione autonoma dal basso, e così via), quanto per la valorizzazione del momento esistenziale quale supporto a tutto il resto. E continua a farlo, più debole che in passato e tuttavia tenace. Non sedimentò nulla, si dirà. Non è affatto vero… Malgrado fratture a getto continuo, una compattezza rimane. Siamo il partito della fraternité. E’ giusto, urgente e necessario rintracciarne le origini. Una ricostruzione delle storie individuali può aiutare moltissimo a ricomporre la storia complessiva. Vale per Bologna, vale per tutta Italia».

Nel 2013, nella sua introduzione al libro di Fulvio Massarelli “La forza di piazza Syntagma” (ed. Agenzia X), ha scritto: «Abbiamo visto, dopo decenni, movimenti anticapitalistici di massa: “indignados”, “occupy”, presenti in vari continenti. Abbiamo visto riemergere dal nulla una sinistra che si credeva perduta, articolata in mille esperienze di base. Basta tutto ciò? No, per niente. I rapporti di forza permangono intatti. Poco importa che ad assediare i palazzi del potere siano decine di migliaia di persone. Non cambia nulla, le decisioni utili all’atto pratico sono prese nelle sedi deputate. Nazionali e sovranazionali. E’ bello e liberatore fare casino in piazza. Seguiranno l’inevitabile stanchezza, le divisioni, la rassegnazione. L’insorgenza tardo-giacobina ai tempi del Direttorio. Ne nacque il socialismo, ma con una gestazione lentissima».

Lo straordinario scrittore

Dopo i testi di natura storiografica, nel 1990, Evangelisti cominciò a dedicarsi alla narrativa.

Nel 1994 esordì con il suo primo romanzo, “Nicolas Eymerich, inquisitore”, vincendo il Premio Urania. Da quel momento, ridusse progressivamente il lavoro di funzionario statale, per diventare scrittore a tempo pieno.

Alla fine del 1997, dato il successo dei suoi romanzi, soprattutto quelli del ciclo di Eymerich (un inquisitore che indagava sui fenomeni misteriosi nell’Europa medievale), e i discreti guadagni che iniziava a trarne, si licenziò dall’impiego al ministero delle Finanze, durato quasi vent’anni. Era una scommessa non facile, ma Valerio la superò. Da allora riuscì a vivere solo di ciò che scriveva, senza introiti a margine.

Nel 1998, in concomitanza con il romanzo “Picatrix: la scala per l’inferno”, uscì con un altro lavoro: “Metallo Urlante”, un crocevia di storie, personaggi, linguaggi e scenari di genere fantasy dedicato alla musica heavy metal.

I suoi romanzi gli valsero il “Grand Prix de l’Imaginaire” nel 1998 e il “Prix Tour Eiffel” nel 1999, mentre nel 2000 vinse il “Prix Italia” per la fiction radiofonica. Nel 2001 fece parte della delegazione ufficiale degli scrittori italiani al Salon du Livre di Parigi.

Nel 1999 concepì in tre differenti volumi “Magus, il romanzo di Nostradamus”.

Nel 2000, con la casa editrice l’Ancora del Mediterraneo, pubblicò la raccolta di saggi “Alla periferia di Alphaville. Interventi sulla paraletteratura”, a cui seguì nel 2004 “Sotto gli occhi di tutti. Ritorno ad Alphaville”.

“Metallo urlante” aveva fatto da apripista alla serie “Pantera”, il secondo capitolo si aprì con il libro “Blak Flag”, un fantawestern del 2002, a cui seguì nell’anno successivo “Antracite” che, con lo stesso genere letterario, raccontò la storia delle lotte della seconda metà dell’Ottocento tra i minatori irlandesi e i proprietari delle miniere del bacino della Pensylvania.

Da “Antracite”, incentrato sul misterioso pistolero/stregone messicano Pantera, prese il via un intreccio nella cosiddetta “Trilogia Americana” con “One Big Union” (2011) dove un giovane meccanico di origini irlandesi, religioso e affezionato alla famiglia, si ritrovò a coltivare pregiudizi razziali e forme di patriottismo che sconfinavano nel nazionalismo. Questa sua indole lo indusse a diventare, per conto di agenzie specializzate, un infiltrato nei sindacati e nel movimento operaio americano, con il fine di spezzare gli scioperi e di ricondurre i lavoratori alla disciplina. Attraverso i suoi occhi Evangelisti ha descritto il percorso spesso tragico del sindacalismo americano lungo l’arco di un cinquantennio, con i suoi episodi grandiosi e terribili. Dai grandi scioperi dei ferrovieri di fine Ottocento fino all’epopea degli Wobblies, gli Industrial Workers of the World, nei primi vent’anni del Novecento.

Per raccontare le origini degli Stati Uniti, tra la fine della Guerra civile e il Novecento, Evangelisti scelse tre personaggi protagonisti dei suoi tre romanzi. Dei primi due abbiamo già parlato, il terzo, il gangster italo-americano Eddie Florio (realmente esistito) fu il soggetto più sinistro mai creato dalla sua penna, per raccontare in “Noi saremo tutto” (2004) il controllo dei porti statunitensi da parte della malavita e dall’Anonima Assassini, un’organizzazione di killer al servizio di Cosa Nostra. Sullo sfondo, trent’anni di movimento sindacale negli Usa e la lotta tra comunisti e malavitosi per l’egemonia sui lavoratori portuali.

Questi libri del “ciclo americano” furono intrinsecamente connessi ai suoi due romanzi storici sulla rivoluzione messicana: “Il collare di fuoco” (2005) e “Il collare spezzato” (2006).

Un fatto curioso fu la ristampa nel 2005 (per Derive Approdi) de “Gli sbirri alla lanterna” un saggio sulla “plebe giacobina bolognese negli anni dal 1792 al 1797” che fece parte, agli inizi delle sue produzioni editoriali, di una ricerca su “Bologna dell’Ottocento”. In città vigeva un sistema economico chiuso, che costringeva la popolazione a condizioni di vita intollerabili. In quel contesto, attraverso congiure, complotti e rivolte, si fece spazio una sorta di “giacobinismo plebeo”, rudimentale e violento, che ebbe il merito di strappare la politica al Palazzo e di radicarla nella quotidianità popolare. Il fatto curioso è che Evangelisti decise di rimettere in circolazione questo suo lavoro perché la situazione che si stava vivendo a Bologna nel 2005, col governo del “sindaco sceriffo” Cofferati, con le sue campagne moraliste contro i comportamenti disdicevoli della gioventù petroniana, contro i rom e i lavavetri, facevano venire in mente i tempi del Cardinal Legato e delle Assunterie. Naturalmente, dietro a tutto questo, c’era l’auspicio che i “malintenzionati del terzo millennio” seguissero le gesta delle antiche “plebi giacobine”.

La produzione letteraria di Evangelisti, pur avendo tutte le caratteristiche della “genialità artigiana” nell’uso e nell’assemblaggio delle parole, ha sempre avuto dei ritmi che avrebbero fatto invidia alla catena di montaggio fordista: infatti, dal 2008 al 2012, uscì la “Trilogia dei Pirati” con “Tortuga”, “Veracruz” e “Cartagena”, in cui Valerio raccontava, in una ambientazione negli ultimi decenni del Seicento, l’avidità predatoria dei fratelli della costa e l’epopea degli arrembaggi e dei rapimenti dei filibustieri di stanza nel mare dei Caraibi.

Dal 2013 al 2016 fu la volta della “Trilogia del sol dell’avvenire” che, in tre corposi volumi, narrava la storia di due famiglie di braccianti romagnole, le vicende del movimento operaio e bracciantile dal 1875 al 1945, l’avvento del fascismo foraggiato dagli agrari e la divisione dei nuclei famigliari: tra chi divenne squadrista, tra chi suo malgrado fu assorbito dal mondo della clandestinità e degli esuli antifascisti, e invece chi decise di partecipare alla guerra di liberazione nella più anticonformista e “romagnola” formazione partigiana.

Di questa grande saga proletaria in cui ciò che era saggistica diventa narrazione, un lavoro unico nel panorama letterario italiano, Evangelisti ne ha parlato così: «Ho scritto di contadini e di braccianti, di povera gente che ha dato alla Romagna e all’Emilia la propria impronta. Senza curarsi troppo di chi, a livello politico, pretendeva di averne la guida. L’unico linguaggio per me adeguato era quello brusco, essenziale, a volte sarcastico o umoristico delle campagne».

In effetti, in quelle straordinarie migliaia di pagine la scrittura è pulita, senza ruffianerie, non ci sono trucchi per abbellire la storia e renderla più stuzzicante. E’ il racconto sincero e brutale che coinvolge, tracciando le scene di una condizione di vita da cui furono travolti tanti oppressi e sfruttati, tante piccole oscure persone che il sole dell’avvenire che avevano auspicato non videro mai sorgere.

La controstoria popolare di Valerio è proseguita fino a pochi mesi fa con due romanzi storici sull’esperienza della Repubblica romana. Con “1849. I guerrieri della libertà” del 2019 il nostro inarrestabile scrittore ha raccontato di quando, in ogni parte d’Italia, nell’autunno del 1848, tantissimi giovani lasciarono lavoro e famiglie e si misero in marcia, per difendere l’insurrezione popolare che da lì a pochi mesi avrebbe visto nascere la Repubblica Romana. In una cornice di attenta ricostruzione del contesto, tra fiumi di vino, fumi di sigaro e litri di sangue, Evangelisti, ancora una volta ha fatto recuperare al popolo la centralità che avrebbe dovuto avere.

Con “Gli anni del coltello” (2021) il racconto inizia a Roma, il 2 luglio 1849, subito dopo la caduta della Repubblica Romana, quando le truppe del Papa, aiutate dai soldati francesi, cominciarono a cannoneggiare i quartieri degli insorti, per poi dare il via a una spietata caccia all’uomo.

Tra quanti avevano combattuto fino all’ultimo minuto a difesa della Repubblica c’è un personaggio un po’ borderline, Giovanni Marioni, detto “Gabariol”, proveniente da Faenza, un grande idealista sempre fedele a se stesso che non accetta compromessi, seguendo i dettami dell’unico maestro che riconosce, Giuseppe Mazzini. Dal libro emerge una figura dell’ “eroe risorgimentale” ben diversa dalla storiografia che va per la maggiore: un visionario incapace di organizzare il suo movimento e che manda i suoi seguaci allo sbaraglio.

La narrazione di Valerio Evangelisti è sempre stata sostenuta da un poderoso impianto di fonti documentarie. Lui, anche nell’ambito delle storie fantastiche, ha inteso fornire al lettore dettagli solidi e circostanziati, ha voluto rendere i suoi racconti molto realistici. Ma incessantemente ha rifuggito dai predicozzi e rifiutato gli stereotipi dell’epica a sfondo sociale. Una cosa l’ha sempre sostenuta con chiarezza: «Un autore che abbia intenti pedagogici non può che produrre pessima narrativa».

Non si fa nessuna forzatura e non si rischia la piaggeria nel dire che Valerio ha messo al servizio della ricerca storica il suo talento narrativo e letterario. Il suo è stato sicuramente un tentativo riuscito di riportare la plebe sul palcoscenico della storia. Lui, del resto, è sempre stato convinto che le aspirazioni di chi lotta non siano irrealizzabili se si possiedono gli strumenti materiali e intellettuali adeguati. Quante volte gli abbiamo sentito dire ironicamente: «Nei miei romanzi posso dare l’impressione di vedere tutto nero… forse è per via di quella frase che Gramsci rese celebre: “Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”».

Valerio Evangelisti ha costantemente parlato degli altri, soprattutto dei più deboli, il suo è stato un continuo peregrinare tra povertà e disgrazie, angherie e sfruttamenti, scintille sociali e repressioni, solo una volta in vita sua, in suo testo, ha parlato di se stesso. Lo ha fatto nel 2013, con il libro “Day Hospital”.

Lo presentò in questo modo: «Non credo che l’esperienza del cancro vada nascosta. Non penso nemmeno che si presti a diventare un sottogenere letterario. (…) Non si troveranno, dunque, riflessioni particolarmente profonde, né consigli per chi dovesse affrontare la stessa esperienza. Dipende dal carattere di ciascuno».

In quel testo, tanto diverso da tutti gli altri suoi lavori, raccontò quando, nel maggio 2009, iniziò un calvario di esami e, dopo i risultati, di sedute di chemioterapia. Poi, con la dovizia di particolari di chi alla narrazione era abituato, descrisse le giornate e le persone del reparto di oncologia dell’ospedale, gli effetti dei farmaci, le ricerche su internet, la “birroterapia”, gli amici veri e quelli troppo invadenti o troppo assenti e soprattutto la funzione terapeutica della scrittura notturna. Era il racconto di un’esperienza di vita, il semplice racconto di una storia non semplice.

La sobrietà, la gentilezza e la generosità

Pur se ha avuto un meritato successo, non si è mai montato la testa e non se l’è tirata mai. Il suo stile di vita è rimasto all’insegna della sobrietà: «E’ bene precisare che conduco una vita molto semplice e ritirata, senza spese eccessive. La macchina l’ho venduta anni fa, sono proprietario del mio appartamento. Spendo in birra, fumo di tabacco, libri e dvd».

Poi c’era la sua gentilezza, quasi timorosa, nel rapportarsi con gli altri. Straordinaria è sempre stata anche la sua disponibilità all’ascolto delle persone.

Ma di Valerio Evangelisti bisogna dire ancora qualcosa di più: è stato sempre un compagno di grande generosità, che non si è mai sottratto ad aiutare gli altri, dai singoli alle realtà collettive più deboli. Ha firmato appelli a favore di militanti e attivisti colpiti dalla repressione, si è battuto “con le sue armi” contro i tanti sgomberi che hanno caratterizzato le amministrazioni comunali che si sono succedute al governo della città. Ha sostenuto organizzazioni politiche e sociali considerate marginali dalla “narrazione ufficiale”. Ha aiutato progetti culturali ed editoriali poveri di risorse economiche ma ricchi di contenuti. Ha promosso festival e rassegne di case editrici e riviste indipendenti, prima fra tutte “Una montagna di libri contro il Tav”.

Presentò l’edizione che si tenne a Bologna nel 2015 a Vag 61 con queste parole: «La resistenza della Valle di Susa va piegata costi quel che costi, perché potrebbe rappresentare un pessimo esempio e incrinare la tenuta del sistema. Ed ecco una repressione feroce, con pene smisurate per punire reati di portata modesta, ammesso che siano tali. Ciò in un paese in cui i crimini commessi da chi appartiene alle cerchie del potere restano il più delle volte impuniti, o sanzionati in maniera ridicola, o lasciati prescrivere con mille pretesti. Con gli autori dei delitti spesso onorati con cariche elargite da governi che nessuno ha eletto. Il delitto più grave – cementificare, distruggere, trasformare il bello in brutto – non va nemmeno nominato. I colpevoli hanno ragione per definizione, gli oppositori vanno trattati da criminali incalliti…

Sarebbe ora il caso di parlare dei complici di questo stato di cose. Mi limiterò a raccontare un aneddoto, riferito al 1884. A Ravenna nascevano le cooperative che sono alle origini di quella Coop impegnata a violentare le terre altrui. Il municipio ravennate indisse un appalto per l’abbattimento di una pineta che circondava la città. Era un’occasione ghiotta per l’Associazione Operai Braccianti, che radunava i lavoratori più poveri di tutti, miserabili, disoccupati. Fu indetta un’assemblea con migliaia di partecipanti. Ebbene, i braccianti decisero compatti di rifiutare quell’appalto. Meglio la fame che rendersi complici dello sconcio del territorio.

Quella era dignità, quella era nobiltà. Dove stanno ora? Non nelle stesse mani, purtroppo. Stanno in quelle dei valsusini che contrastano la più ignobile delle prepotenze. Ed è una lotta che ci riguarda tutti. Se vincono loro, perde l’oligarchia. Se fossero sconfitti, sarebbe il crollo di un bastione contro l’autoritarismo. Difendiamolo, quel bastione. Sono in gioco la libertà, l’onore, la civiltà».

Valerio è stato un compagno dal grande cuore e uno scrittore che ci ha regalato sogni e riflessioni, con la sua produzione sempre pronta a vagare tra le storie dei movimenti sociali del passato e i legami con i movimenti del presente, con la voglia di mantenere vive relazioni con intellettuali e studiosi contemporanei, e soprattutto militanti e attiviste che non hanno ripiegato le bandiere della rivoluzione e della necessità del cambiamento.

Sosteneva che molti dei personaggi dei suoi romanzi appartenevano a una tipologia “schizoide” caratterizzata dall’asocialità più radicale: «Non è un caso: vi appartenevo anch’io, e scrivere è stata una specie di autoterapia per uscirne».

Ma da quella che poteva sembrare una scelta di autoisolamento, così come lo era stata per gran parte della sua vita quella del grande poeta e intellettuale Roberto Roversi, Valerio Evangelisti, con la sua immaginifica produzione editoriale, ha dimostrato di essere dentro e “parte in causa” nei conflitti sociali contemporanei. La sua figura di “scrittore compagno” è stata un incomparabile punto di incontro tra generazioni diverse di lettori e lettrici, di attiviste e militanti. La sua sensibilità, la sua ricerca, la sua creatività, la sua immaginazione non sottomessa, il suo uso del linguaggio sono stati aria pura per chi, come si scriveva un tempo sui muri, “cospirare vuol dire respirare assieme”.

Diceva un vecchio volantino del ’77: “Chi in questo paese non ha desiderato l’insurrezione, è un’anima morta che nulla ha vissuto delle passioni della storia”. Non sappiamo se il compagno So Long in quel volantino ci mise le mani, ma siamo certi che Valerio Evangelisti di quel volantino si sentiva complice.

Zic, Zero in condotta

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ADDIO CARO VALERIO, TUOI PER LA RIVOLUZIONE
Oggi saluteremo Valerio Evangelisti.
Lo faremo a Castel D’Aiano, sui monti dell’Appennino Bolognese, là dove sono sepolti i suoi genitori. Valerio rivendicava le sue radici in questi luoghi piccoli, lontani dal ritmo e dalla vita della grande città, e dai quali pure potevano nascere storie e lotte di valore universale. Così una volta mi raccontò che una parte della sua famiglia proveniva da quel ravennate di braccianti dove nascono e si sviluppano nel tempo le storie di quello che per me è il suo capolavoro letterario e politico, la trilogia de “Il Sole dell’Avvenire”. Libri che consiglio di leggere come elemento fondamentale di formazione ad ogni persona, giovane in particolare, che voglia sapere della, o meglio ancora impegnarsi nella, lotta per il socialismo.
La sua opera era contemporaneamente grande letteratura e grande formazione politica. Come Germinale di Zola, come Il Tallone di Ferro di Jack London, che divoravamo da ragazzi noi settantenni di oggi. Su Jack London e sulla rivoluzione avevamo proprio discusso con Valerio durante la pandemia. E lui aveva voluto ricordare in una diretta on line l’impegno rivoluzionario dello scrittore socialista americano, anche con le parole di una sua opera, in cui una lettera si concludeva con “ tuo per la Rivoluzione”.
Valerio possedeva la genialità di costruire e animare storie e vite di persone di fantasia e nello stesso tempo di farci riflettere sulla realtà. Questo era il suo dono, che esercitava con metodo e fatica. Già anche fatica perché scrivere era per lui anche un lavoro operaio meticoloso, fatto di ricerche e documentazioni vastissime, di cui poi solo una parte finiva nel racconto. Come la punta dell’iceberg rispetto alla enorme massa che la sostiene.
Una volta dissi a Valerio che la sua capacità di scrivere e viaggiare tra tempi, paesi, persone, mondi così diversi mi ricordava Emilio Salgari, che considero uno dei più grandi ed universali scrittori italiani. Valerio mi rispose che preferiva essere come Salgari piuttosto che come Manzoni. Gli chiesi allora perché i protagonisti di tante sue storie fossero quelli che normalmente chiamiamo “ i cattivi” a volte persino gli infami. Ed egli mi rispose che dal punto di vista dei cattivi il mondo diventava più interessante e si capiva meglio. Come Marx, che non ha scritto “Il Lavoro” ma “Il Capitale”, aggiunsi e lui scoppiò a ridere.
Ho conosciuto Valerio Evangelisti molto prima come divoratore dei suoi romanzi, quelli di Eymerich e tanti altri, e solo poi come compagno e amico. Certo ci eravamo incrociati tante volte in manifestazioni ed iniziative, ma mai davvero conosciuti.
Questo avvenne in una sera d’autunno del 2010, quando Valerio presentò a Bologna un mio libretto sulla Fiat, o meglio sull’attacco di Marchionne ai contratti e ai diritti dei lavoratori che si scatenava proprio allora, con il consenso della maggioranza dei sindacati e di tutto il sistema politico parlamentare.
Valerio subito colse il senso di passaggio epocale di quel momento, il trionfo del liberismo sfruttatore estremo sul compromesso sociale, il nuovo feroce dominio del capitale sul lavoro. E condivise e sostenne la necessità di una alteritá assoluta, sul piano morale e culturale prima ancora che su quello sindacale e politico, rispetto al sistema di cui Marchionne era esaltato e riverito propugnatore. Ecco, quella sera nacque la nostra amicizia e la nostra fraternità di compagni, che è durata fermissima fino ai suoi ultimi giorni. Nei quali, dopo la guerra di classe costante del capitale contro il lavoro, dopo le ingiustizie ed i disastri sanitari, sociali e civili della pandemia, abbiamo dovuto misurarci con la guerra vera e propria, con la sua ferocia sul campo e le sue infamie nella politica e nella società.
Ai primi di marzo Valerio ha partecipato con me ad una diretta on line di Contropiano e ancora una volta ha espresso tutta la sua capacità di indignazione morale, assieme alla sua lucidità intellettuale di rivoluzionario.
Questa sporca guerra non ha nulla a che vedere con la seconda guerra mondiale e la lotta contro il nazifascismo, ma ci rimanda alle trincee e agli orrori della prima, alla barbarie del nazionalismo e della politica di potenza, dove tutti i governanti hanno torto e nessuno, a parte i popoli che soffrono, ha davvero ragione. Valerio si è scagliato contro il misero neodannunzianesimo dei piccoli uomini che oggi rispolverano l’arditismo, il militarismo, la retorica patriottarda. Valerio ha avuto parole durissime per i governanti della NATO come per Putin.
Oggi il delitto è il pacifismo, ha detto, ma questo delitto va rivendicato, riproponendo un’antica e attualissima parola d’ordine rivoluzionaria: guerra alla guerra. E non bisogna mollare di un millimetro, ha concluso.
Valerio non era uno scrittore rivoluzionario, ma un rivoluzionario scrittore, un militante per la rivoluzione e così ha motivato la sua decisione di partecipare con passione a Potere al Popolo, mentre la malattia gli rendeva faticosissimo ogni impegno, ogni passo.
Solo questo noi oggi possiamo fare per onorarlo, non mollare di un millimetro e salutarlo come il suo Jack London: tuoi per la rivoluzione. Addio caro Valerio.
Giorgio Cremaschi
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Un altro mondo è possibile. Anzi, infiniti universi sono possibili!

Valerio, nel corso della sua vita terrena, ha avuto molte vite, quasi quanti sono i personaggi dei suoi romanzi. Storico accademico e precario, scrittore di successo, appassionato di film horror nonché regista egli stesso, militante di organizzazioni politiche, hacker, intellettuale animatore di riviste come “Progetto memoria, rivista di storia dell’antagonismo sociale” e di siti come www.carmillaonline.com, partecipante al movimento del 77, animatore di solidarietà internazionalista col Nicaragua. Tutto questo, e tanto altro, è stato Valerio. Per ciò che ci riguarda più da vicino, è stato tra i fondatori dell’Archivio “Marco Pezzi”, nonché suo presidente. Quando, all’inizio degli anni novanta, costituimmo l’archivio “Marco Pezzi”, Valerio fu tra il gruppetto di persone che ne fece parte fin dall’inizio. Anzi, nell’atto costitutivo fu indicato come presidente. Era sembrata una scelta ovvia e naturale. Era quello che più aveva a che fare con la storia, per i suoi trascorsi accademici ed in quanto direttore di “Progetto memoria”, che non a caso aveva come sottotitolo “rivista di storia dell’antagonismo sociale”. Anzi, da quel momento “Progetto memoria” divenne l’organo dell’Archivio. L’Archivio “Marco Pezzi” ha sempre avuto un’esistenza poco incline alle formalità burocratiche. Non abbiamo mai avuto tesseramento e quote associative. Ha sempre fatto parte dell’Archivio chi in qualche modo ha partecipato alle nostre attività. Le cariche sociali le abbiamo avute per quel poco che era necessario per la gestione amministrativa. E così, Valerio è stato il nostro primo e unico presidente. Prima di conoscerlo personalmente, ero diventato un lettore di “Progetto memoria”, che compravo alla libreria Feltrinelli, quando vendeva anche riviste. Molti articoli mi avevano colpito. Per un semplice motivo: mi disvelavano cosa succedeva nel mondo. Nell’economia internazionale, nei rapporti tra stati, tra classi sociali, perché ci sono i serial killer negli Stati uniti o mi permettevano di capire meglio eventi a cui pure avevo partecipato, come il movimento della “Pantera”. Molti di quegli articoli li aveva scritti Valerio. Dopo averli letti d’un fiato, e poi riletti, pensavo “Ah però, questo Valerio Evangelisti, com’è lucido, com’è chiaro, apre la mente!”. E poi, l’ho conosciuto e frequentato con una certa assiduità per alcuni anni, più di rado negli ultimi anni. Le frequentazioni erano originate dalla comune partecipazione all’Archivio. Ma spesso si risolvevano in incontri di un gruppetto di persone, o a volte anche solo noi due, per delle chiacchiere in libertà davanti a una birra. Anzi, davanti a molte birre, per quel che riguarda Valerio. Erano belle le riunioni che facevamo con Valerio in qualche osteria. Erano belle perché, sia quando si parlava di questioni seriose o facete, Valerio riusciva sempre ad avere la capacità di andare al fondo delle cose, che già avevo conosciuto leggendo i suoi articoli. Questa capacità di analisi, di una logica acuta come una lama, l’ho sempre ammirata. L’ha avuta non solo sulle questioni sociali e politiche, ma anche capacità di autoanalisi sulle questioni personali: con Day Hospital è riuscito a mettere a nudo sé stesso davanti alla malattia. Credo che Valerio abbia avuto la grande capacità di raccontare storie. Non mi riferisco solo ai suoi romanzi. Un romanzo era per lui un saggio scritto in altra forma. Non c’era, credo, differenza sostanziale tra narrativa e saggistica, tra letteratura di evasione e impegnata. Con entrambe, riusciva a colpire il lettore. La capacità di raccontare storie è una delle grandi qualità degli esseri umani. Nel bene e nel male. Dipende da chi le racconta e per quali motivi, e quali sono le conseguenze sulle persone che leggono e ascoltano quelle storie. L’obiettivo di Valerio era chiaro. Un mondo diverso. Per questo aveva creato i suoi mondi immaginari. Ciao Valerio.

Fabrizio Billi

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