di Andrea Bottalico
È uscito nelle sale Lievito, l’ultimo documentario di Cyop&Kaf. Presentato alla scorsa edizione del Torino Film Festival, il film concentra l’attenzione su alcune esperienze d’intervento educativo condotte a Napoli per mostrarci quel lento, difficile e accidentato percorso che ha a che fare con la sfera dell’apprendimento e della trasmissione del sapere. Un processo che sottende uno scambio reciproco nell’interazione tra adulti e adolescenti, come gli autori vogliono suggerirci sin dalle prime battute. Un rapporto delicato, quello che s’instaura tra chi insegna e chi impara, fatto di alti e bassi, di scontri e incontri, di pazienza, ostinazione e perseveranza. Di fallimenti. Tutte cose che abbiamo visto anche in altri lavori con i quali questo documentario in un certo senso dialoga (tra i primi che vengono in mente: Cadenza d’inganno e, per contrasto, A scuola di Leonardo Di Costanzo).
Nella dimensione al di fuori della scuola, lo sguardo degli autori si posa con un’empatia unica, che abbiamo già conosciuto e apprezzato nel precedente pluripremiato documentario Il Segreto, su un gruppo di ragazze e ragazzi adolescenti in una colonia estiva, e poi in un dojo di judo dove si impara tra le altre cose a insegnare e si insegna tra le altre cose a imparare, e ancora in un laboratorio teatrale, in cui gli adolescenti si mettono in gioco per elaborare uno spettacolo a partire da un allegorico e misterioso animale, capace d’incarnare la condizione esistenziale degli adolescenti all’indomani della rivoluzione digitale (emblematiche le scene dei ragazzi e delle ragazze nella colonia estiva dipendenti dai loro smartphone).
Come degli intermezzi lungo il film, osserviamo immagini d’archivio che ci riportano indietro nel tempo, mostrando esperienze e pratiche d’intervento educativo a Napoli negli anni Settanta attraverso le figure che le hanno animate, come il burattinaio Bruno Leone e l’animatore della mensa dei bambini proletari di Montesanto Peppe Carini. Ed è proprio attraverso questo rimando alle immagini del passato che si percepisce lo sforzo degli autori di osservare il presente nel suo divenire, il tentativo di ripercorrere una traiettoria che parte da lontano e che persiste, si riproduce e si tramanda di generazione in generazione, da educatore a educatore, da allievo a maestro e viceversa. Come se gli autori volessero rinsaldare gli anelli di una catena, seguire i passaggi di testimone e le tracce di una vicenda che è collettiva perché patrimonio di tutti, in una città che nel tempo ha elaborato pratiche intrecciando l’intervento sociale a quello politico (si veda a tal proposito il recente libro di Luca Rossomando Le fragili alleanze. Militanti politici e classi popolari a Napoli 1962-1976, pubblicato da Monitor edizioni. Occorrerà ritornarci su questo importante volume).
L’ultimo lavoro di Cyop&kaf è di estrema rilevanza, non solo perché restituisce in maniera fedele le complesse trame delle relazioni che s’instaurano tra adulti e gruppi di adolescenti, le sfide, le situazioni caotiche, gli ostacoli e le contraddizioni che devono affrontare insegnanti e allievi, educatori, maestri e adolescenti alle prese con la costruzione di senso di un sé accerchiato dalle macerie. Ma anche perché è un film che resterà, un documento che è il frutto della partecipazione attiva di chi sa stare dentro alle cose che accadono senza rinunciare alla riflessione critica, e che quindi è capace di restituire la realtà dei processi d’intervento con rispetto e onestà, evitando descrizioni didascaliche e indugi, rifiutando di compiacere lo spettatore avido di storie da consumare.
Nel documentario di Cyop&kaf assistiamo a una varietà di esperienze e pratiche che avvengono al di fuori delle mura della scuola, con il suo mandato istituzionale più o meno svuotato di senso, la sua funzione, la sua organizzazione burocratica e il suo scopo di costruire l’essere sociale, di imporgli modi di vedere, di sentire e di agire nella società tardo-capitalistica e nel tritacarne del mercato del lavoro. Qual è il senso ultimo dell’educazione in un’epoca priva di riferimenti? Gli autori sembrano voler rispondere a questa domanda, mostrandoci percorsi di apprendimento alternativi ma contigui, relazioni educative e forme parallele d’intervento sociale che avvengono al di là, a prescindere, e nonostante la scuola stessa. E poi sembra che vogliano fornire un’altra risposta possibile dialogando con il tempo, indicandoci una genesi di quelle esperienze, cercando di lasciare a chi verrà dopo di noi ciò che noi abbiamo ereditato da quelli che sono venuti prima.