di Gioacchino Toni
«Quel Novecento che aveva visto il susseguirsi di guerre mondiali e totalitarismi, lo spreco incommensurabile di un’inutile corsa agli armamenti, il proliferare di autoritarismi e rivoluzioni fallite, con l’happy ending del “trionfo della democrazia”, aveva creato l’illusione che l’umanità e i governi che pretendono di rappresentarla potessero dimostrare, anche grazie agli straordinari progressi tecnologici e all’immensa ricchezza circolante, una maggiore capacità di costruire la pace, per non ripetere gli errori tragici del passato. E invece tutto ciò che la mia generazione è riuscita a fare è stato trasmettere ai propri figli soltanto una diversa civiltà della guerra» Fabio Armao
Nel recente volume di Fabio Armao, La società autoimmune. Diario di un politologo (Meltemi 2022), viene analizzata l’ingarbugliata trama del potere che contraddistingue la contemporaneità: un “totalitarismo neoliberale” che, al di là delle differenti sembianze che assume – mafie, gang, neofascismo, finanza underground, capitalismo clientelare, femminicidio, ecocidio e persino, come si vedrà, privatizzazione della guerra – ha, secondo l’autore, nella rinascita del clan la struttura di riferimento del sistema sociale.
Tale convincimento, attorno a cui ruota il volume, si inserisce all’interno di una più generale riflessione a cui Armao ha dedicato due suoi precedenti testi: L’età dell’oikocrazia (Meltemi, 2020) [su Carmilla] e Le reti del potere (Meltemi, 2020). Secondo lo studioso la struttura del clan, in grado com’è di interporsi tra individui e istituzioni e di mediare tra locale e globale, risulterebbe particolarmente adatta alla gestione della globalizzazione neoliberale nel suo imporre gli interessi economici privati sull’interesse politico pubblico. Si tratterebbe dunque di una “oikocrazia”1 assurta a modello universale capace di adattarsi sia alle esigenze dei regimi democratici che a quelle delle autocrazie.
Come argomentato dallo studioso nei lavori precedenti, nell’edificazione del modello del totalitarismo neoliberale clanico, un ruolo fondamentale spetta alla città, dopo che questa è stata a lungo marginalizzata dal punto di vista politico dal sistema stato-nazione, non a caso, sottolinea l’autore, le cronache contemporanee rimandano più spesso a New York, Parigi e Madrid, a Raqqa e Kobane, a Kabul e Kunduz, piuttosto che ai rispettivi stati in cui si trovano.
La società autoimmune si apre prendendo atto di come le società contemporanee sembrino «sempre più attratte da un insano desiderio di autodistruzione, al punto da trasformare le proprie patologie collettive in autentiche “malattie autoimmuni”, invece di sforzarsi di debellarle». E tale pulsione di morte, continua l’autore, «si rivela tanto più profonda, quanto più avanzate ci appaiono dal punto di vista economico e tecnologico» (p. 11).
Con la frattura storica del 1989, il trionfo della globalizzazione neoliberale e l’irruzione della rivoluzione digitale, si è assistito al rapido scardinamento delle vecchie categorie concettuali novecentesche mentre la politica, di fronte ai problemi, si è mostrata sempre più incapace di dare risposte coerenti e unitarie a livello globale. Ciò che dovrebbe maggiormente preoccupare, sottolinea Armao,
è l’ormai patologica autoreferenzialità raggiunta dai sistemi politici occidentali, che la pandemia ha reso soltanto più evidente e drammatica nelle sue conseguenze. E che ci spinge a non vedere gli altri, a ignorare il fatto che siamo tra i principali responsabili storici delle condizioni di sfruttamento in cui continuiamo imperterriti a tenere interi continenti: saccheggiando le loro risorse e schiavizzando le loro popolazioni. Nei confronti del resto del mondo e della natura stessa non siamo da meno delle autocrazie; semmai eccelliamo in ipocrisia, arrivando a pretendere di essere un modello per gli altri.
Oggi a prevalere, anche all’interno delle nostre democrazie, è un pensiero unico e minimo. La politica ha ridotto il proprio spettro di azione, dimentica ormai delle grandi ideologie e dei valori emancipativi che queste ultime incarnavano e, di conseguenza, incapace di proporre visioni del mondo. Mentre il capitalismo, da parte sua, non riesce a concepire neppure più sé stesso, ormai affetto da una dipendenza tossica dalla speculazione finanziaria (p. 16).
Inoltre, nel crescente e ostentato disprezzo nei confronti proprio dell’agire politico, le élite al potere non solo spingono allo smantellamento dei meccanismi democratici su cui, almeno formalmente, esse stesse dovrebbero fondare il loro potere, ma contribuiscono, in assenza di proposte alternative, a distruggere il vivere comune.
Nel riferirsi alla contemporaneità lo studioso parla di “società autoimmune” elaborando il concetto di “società del rischio” proposto da Ulrich Beck. Secondo Armao
abbiamo ormai superato la fase della modernizzazione riflessiva che secondo Beck contraddistingueva l’età industriale, per entrare in una nuova epoca di modernizzazione regressiva (scusate l’ossimoro) che pur non risolvendo i conflitti sociali delle fasi precedenti (relativi alla distribuzione della ricchezza e dei rischi) trova una peculiare via d’uscita in una nuova alleanza tra politici e capitalisti.
I primi chiedono e sempre di più ottengono di riacquistare un ruolo da protagonisti, ma abdicando alla propria funzione di citoyens eletti rappresentanti in una qualsiasi delle arene destinate a emulare i riti della partecipazione, a tutto vantaggio della propria sfera privata di bourgeoises desiderosi di partecipare alla spartizione degli utili. Parafrasando Beck, se la vecchia società classista, caratterizzata dalla comunanza della penuria, si riassumeva nella frase “ho fame!” e la società del rischio, in cui prevaleva la comunanza indotta dai pericoli, in “ho paura!”, oggi la modernità regressiva arriva a generare due forme antitetiche di solidarietà sociale, che riassumiamo nelle frasi: “ho paura della fame!” e “ho fame di paura!”. Parole che, a scopo impressionistico, potremmo immaginare pronunciate, rispettivamente, dal migrante e dal sovranista (p. 19).
Nel passare in rassegna alcuni luoghi – dalla Sicilia all’Afghanistan, dagli Stati Uniti alla Cambogia, da Londra a Ciudad Juárez, a Delhi – in cui si manifestano con drammatica evidenza le forme assunte dal totalitarismo neoliberale, Armao dedica un capitolo alla “privatizzazione della guerra” a partire dal caso specifico di Mosul nel Nord dell’Iraq.
Città a maggioranza sunnita che ha potuto godere sin dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso dei vantaggi derivati dall’essere centro propulsore del partito Ba’ath di Saddam Hussein, Mosul è restata coinvolta negli anni Novanta nel conflitto con i kurdi e sottoposta a no fly zone da Stati Uniti e Gran Bretagna per poi subire le conseguenze della “guerra globale al terrore” scatenata dall’amministrazione Bush nel 2003. Occupata da truppe statunitensi e da conractors al soldo di società militare private, diviene bersaglio di attacchi terroristici e subisce le conseguenze del processo di de-ba’athizzazione imposto dall’autorità provvisoria statunitense in Iraq e, successivamente, dal capo del governo al-Maliki che, sottolinea Armao, a proposito di “esportazione della democrazia”, concentra su di sé le cariche di primo ministro, ministro della Difesa, ministro dell’Interno, ministro della Sicurezza nazionale e comandante in capo delle Forze armate. Poi per la città è stata la volta dell’ISIL e del califfato di al-Baghdadi e dell’offensiva kurda e sunnita: un contesto bellico estremamente variabile in cui si sono insinuate faide tra clan e famiglie rivali. Una città, insomma, in cui la guerra, in tutte le sue forme, sembra essere divenuta una condizione endemica con cui convivere2.
Le guerre possono essere viste come lo specchio di una società ove si riflettono i rapporti di classe e quelli di genere, i modelli politici statali e internazionali e quelli economici. Il fatto che la guerra sia un atto di cultura, e non di natura, consente, almeno, di pensare ad un suo possibile superamento.
Di questa cultura fanno parte anche quegli studi sulla guerra che mirano ad alimentarne la mitologia, o a legittimarla. Vi rientrano la storia, tutte le volte che si trasforma in esegesi delle battaglie e dei grandi condottieri; la sociologia e la psicologia, quando insinuano nel lettore il dubbio (fondato) che la conoscenza degli apparati militari serva, in realtà, a migliorarne le prestazioni e la professionalità nell’uccidere; la scienza politica, ogniqualvolta (e capita molto spesso) si accontenta di giustificarla in termini di rispetto dell’interesse nazionale e di sano realismo: presa d’atto del carattere inevitabilmente anarchico delle relazioni internazionali (pp. 142-143).
A ricordare quanto la guerra sia carneficina di corpi e distruzione possono venire in aiuto le immagini ma, secondo l’autore, sono soprattutto i romanzi e le lettere dei combattenti, più ancora che le memorie dei reduci che scivolano a volte nell’agiografia, a dare un’idea dell’esperienza della guerra che si rivela, forse al pari di quella dei campi di concentramento, pressoché irrappresentabile. L’innaturalità di ciò che si prova al fronte, che si riverbera spesso nell’incapacità di ritrovare un proprio ruolo all’interno di quella stessa società che ha chiamato alle armi, conferma quanto l’essere umano non sia “nato per uccidere” ma addestrato a farlo.
Lo stato moderno, in particolare, ha usato tutti gli strumenti a propria disposizione per farlo nel modo che si rivelasse più funzionale. Si è accontentato a lungo di mercenari, motivati soltanto dalla prospettiva del guadagno, finché non ha avuto bisogno di discutere con i sudditi della legittimità del potere sovrano […]. Quando la crescita delle burocrazie civili e militari lo ha reso possibile e lo sviluppo tecnologico degli armamenti necessario, lo stato è poi passato agli eserciti permanenti […] Al tempo stesso, furono istituite le prime accademie militari [che] rappresentano altrettante conferme della “civiltà della guerra”, come pure dell’intelligenza dei poteri sovrani che se ne servono, di fatto, per sperimentare nuove forme di melting pot sociale, rese sempre più improrogabili dallo sviluppo capitalistico e dal trionfo della borghesia. Sono, infatti, i luoghi in cui il vecchio mondo degli ufficiali di cavalleria è costretto a convivere, non senza tensioni e conflitti aperti, con le élite delle nuove armi che richiedono competenze tecniche più che abilità fisiche (p. 144).
La coscrizione universale rappresenta secondo l’autore un altro evidente esempio del carattere culturale della guerra e della razionalità politica che la governa. Se è la Rivoluzione francese a scoprire la “nazione in armi”, non mancheranno di farvi ricorso anche le potenze conservatrici, seppure a tempo determinato e soltanto in caso di necessità. Non è casuale che la coscrizione obbligatoria «venga rivalutata nel Novecento, con le guerre mondiali, quale corollario indispensabile delle rivoluzioni industriali, apoteosi della distruzione creatrice del capitalismo, estensione dell’organizzazione tayloristica del lavoro alla produzione del massacro, prima nella forma ancora rozza delle trincee e infine in quelle perfette macchine dello sterminio che sono i campi di concentramento» (p. 145).
Il trentennio comprendente le due guerre mondiali novecentesche (1914-1945), sostiene l’autore, si caratterizza tanto per l’impressionante progresso tecnologico nell’arte della distruzione, quanto per l’altrettanto incredibile evoluzione sotto il profilo della “costruzione sociale della guerra”.
Le masse di milioni di fanti che vengono reclutati, calzati e vestiti (più o meno), armati e letteralmente incanalati e ammassati in migliaia di chilometri di trincee scavate con le loro stesse mani, che vengono comandati a uscirne – solo per essere falcidiati dal fuoco delle mitragliatrici nemiche – da uno stato maggiore che, per la stragrande maggioranza, li disprezza e li considera né più né meno che manodopera schiava, rispondono a un principio di autorità che è ancora quello ottocentesco del sovrano assoluto, padre e padrone (pp. 145-146).
L’unica soddisfazione concessa a questa carne da macello è la commemorazione che accomuna tutti gli stati coinvolti, vincitori e vinti: il rito dell’omaggio ai caduti attraverso il monumento al milite ignoto: «la “democratizzazione della memoria” concessa nel tentativo di esorcizzare quei milioni di morti che non è più possibile occultare» (p. 146). Poi si apre l’era in cui trionfa la propaganda come professione capace di ricorrere ad ogni media necessario «per convincere i sudditi appena promossi cittadini […] che sono loro, in realtà, a volere la guerra, ad aspirare al sacrificio personale in difesa della patria» (p. 146).
Le due, per quanto diverse, guerre mondiali novecentesche dimostrano che a contare
è l’efficacia del comando, ossia la costruzione sociale dell’obbedienza all’autorità, ottenuta coinvolgendo se necessario tutte le istituzioni, ancora una volta, culturali. Nel Novecento, le chiese di ogni fede, le scuole, le università e i mezzi di informazione concorrono attivamente al sostegno dei governi, rivelandosi determinanti nella costruzione del consenso delle masse. E quando arriva il momento di combattere, è l’addestramento che deve inculcare nel soldato il dovere di eseguire gli ordini, senza discuterli, perché altrimenti metterebbe a rischio la sopravvivenza sua e dei commilitoni: i tempi della guerra non si conciliano con le procedure assembleari (pp. 146-147).
Lo stato moderno, sostiene Armao, è riuscito a rivendicare con successo il monopolio della forza fisica legittima e a costruire il mito di tale legittimità propagandola poi attraverso le istituzioni culturali e imponendone il rispetto grazie agli apparati militari addestrati all’obbedienza oltre che al mantenimento dell’ordine interno e alla difesa dei confini esterni grazie alla loro professionalità nel ricorso alla violenza. Tale impresa, però, sottolinea lo studioso, lo stato ha potuto compierla soltanto grazie all’attiva collaborazione del capitalismo, che dalla guerra ha sempre saputo trarre profitti.
I due grandi protagonisti della modernità, stato e capitalismo, con la loro divisione di ruoli e compiti, manifestano una sostanziale comunità d’intenti. Le monarchie assolute hanno fatto ampio ricorso ai mercenari – sostanzialmente gruppi privati gestiti da piccoli imprenditori – anche quando già reclutavano eserciti permanenti e istituivano accademie militari.
Colonialismo e imperialismo non sono […] che le due le due fasi successive – nella prima prevalgono gli interessi economici, nella seconda entra in gioco la geopolitica – di una stessa tragica e intensiva modalità di saccheggio dei territori e delle risorse altrui, simbioticamente perseguita da stato e capitalismo: modalità che ha negli schiavi (manodopera d’importazione) e nei coloni (i vagabondi e i criminali che è meglio espellere) le due speculari forme di esclusione sociale, di non-simili […]. E che trova nel soldato di professione, abilitato all’uso indiscriminato della violenza e dello stupro, il proprio “volonteroso carnefice”, indispensabile per portare a termine la propria “missione civilizzatrice” (p. 150).
Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, con la raggiunta identità di nazione, lo stato dismette la pratica di esternalizzazione dei conflitti a privati preferendo assumere la gestione totale degli apparati militari arrivando a ricorrere alla coscrizione universale e a rinunciare alla produzione di armamenti che viene ceduta al mercato. La divisione tra stato e capitalismo prevede dunque per il primo il primato politico della guerra assegnando al secondo il settore delle innovazioni tecnologiche. Si concede così al capitalismo la possibilità
di applicare alla produzione le economie di scala necessarie ad abbattere i costi e, di conseguenza, di incrementare oltremisura i mercati di sbocco, se necessario vendendo armi e brevetti persino ai paesi nemici; per di più, gli consente di ricorrere a strategie fatte di fusioni e accordi collusivi tali da dar vita a quello che, di lì a poco, verrà definito il “complesso militare-industriale” […] Lo stato, storicamente, sembra aver dimostrato il coraggio di farsi davvero imprenditore, di investire in ricerca e innovazione senza porsi limiti di budget, soltanto quando si è trattato di uccidere gli uomini, non di salvarli. Per poi accettare di buon grado di farsi vampirizzare dal settore privato (pp. 151-152).
Dopo i due conflitti mondiali novecenteschi, per diversi decenni stato e capitalismo hanno continuato ad andare a braccetto sostanzialmente allo stesso modo: la politica creava cause e contesti in cui «soldati “pubblici” (in tutto o in parte di leva) potessero ritenere ancora che valesse la pena di combattere e morire, mentre il mercato “privato” si impegnava a fornire tutti i mezzi di distruzione di massa necessari a compiere l’impresa» (p. 153). Poi qualcosa è cambiato. Dopo le batoste vietnamite e afgane per le due superpotenze il sistema è sembrato non essere più adeguato ai nuovi tempi.
Da allora, sembra di assistere anche in campo bellico a quella “ritirata dello stato” cui Susan Strange attribuisce la perdita di controllo dell’economia mondiale: “lì dove gli stati erano una volta i padroni del mercato, ora sono i mercati i padroni dei governi degli stati”. A ben vedere, non si tratta di una vera e propria abdicazione al proprio ruolo in guerra da parte degli stati, quanto piuttosto di una consapevole e intenzionalmente perseguita delega della sua gestione alle corporation private; in perfetta sintonia con il trionfo del neoliberalismo […] e la sua logica di esternalizzazione ai privati, ad esempio, del welfare state, dalla sanità all’istruzione. In termini ancora più espliciti: anche le “nuove guerre” mantengono in tutto e per tutto fede al principio clausewitziano della loro natura di autentici strumenti politici, il fatto è che, semplicemente, la loro conduzione viene esternalizzata a gruppi privati come conseguenza della privatizzazione della politica (p. 153-154).
Attraverso partecipazioni azionarie più o meno trasparenti una corporation può detenere un potere militare tale da permettergli di gestire autonomamente una guerra in ogni sua fase mettendosi al servizio di chi può pagare i sui servizi incurante delle opinioni pubbliche e rispondendo della propria condotta, eventualmente, esclusivamente agli azionisti interessanti soltanto ai dividendi.
La privatizzazione negli Stati Uniti ha da tempo toccato i diversi settori della gestione del conflitto in ogni sua fase, dall’addestramento dei militari all’opera di ricostruzione post-bellica. Soprattutto durante l’amministrazione di George W. Bush, che ha visto raddoppiare la spesa per i contratti, si è assistito ad un’assegnazione delle commesse del tutto deregolamentata: basti pensare agli enormi appalti federali concessi alla Halliburton, ex azienda di Dick Cheney, all’epoca vicepresidente degli Stati Uniti, con contratti flessibili che le hanno consentito di addebitare al governo oltre un miliardo di dollari di spese non documentate.
Volendo riassumere, potremmo dire che proprio oggi che la democrazia sembra essersi affermata come il regime politico più diffuso al mondo, ben più che nella secentesca epoca delle monarchie assolute e del trionfo del mercenariato, la violenza organizzata è diventata comune moneta di scambio e alimenta un’intera filiera economica. Il soldato, nella sua accezione più ampia, è manodopera salariata che produce la morte come bene diretto, ma ricchezza e potere come beni strumentali. Le armi producono profitti attraverso la vendita al dettaglio, ma non bisogna nemmeno dimenticare che la loro produzione genera reddito anche per operai civili i quali, come i loro colleghi delle industrie altamente inquinanti, si trovano soggetti al ricatto: stare zitti per salvaguardare il proprio posto di lavoro o “fare obiezione” nel tentativo di salvare vite umane. L’intero comparto militare, per di più, partecipa al casinò dell’alta finanza, ben sapendo che le sue quotazioni in borsa sono destinate a crescere quanto più gli speculatori ritengono siano fondate le prospettive di nuovi conflitti. Infine, c’è il mercato clandestino e criminale che immancabilmente fiorisce nei territori sconvolti dalla guerra, imponendo alle popolazioni ferite e affamate l’ulteriore balzello dell’aumento indiscriminato dei prezzi dei beni di prima necessità (p. 155).
I protagonisti di questo mercato globale della guerra vanno dai contractors e warlords al servizio di multinazionali occidentali in attività in tanti conflitti africani per il controllo delle risorse naturali, ai terroristi utili ad alimentare il redditizio indotto del mercato della sicurezza, alle mafie impegnate nella riproduzione dell’accumulazione originaria delle risorse nei quartieri delle città impegnati nel mercato globale delle droghe, degli schiavi, delle armi e dei rifiuti tossici, oltre che nel riciclaggio di denaro, di cui si nutre l’economia capitalistica. «Vale la pena di rimarcare che, in tutti questi casi, gli attori non statali della violenza si dimostrano in grado di conseguire quegli stessi obiettivi che lo stato ha impiegato secoli a ottenere dalle proprie forze armate, ma in tempi molto più ridotti e con un ben più limitato dispendio di risorse» (p. 157).
Subappaltando l’esercizio della violenza gli stati rinunciano al proprio monopolio della forza e delegano capacità di comando, cioè una caratteristica consustanziale del potere: ottenere obbedienza. Lo stato sta nei fatti cedendo ai privati quote significative della propria stessa legittimità e quanto tale processo sia reversibile è tutto da verificare.
Tra i diversi vantaggi che il mercato globale della violenza affidato agli attori non statali della violenza può contare c’è, sottolinea Armao, la possibilità che ciascuno dei «brand privati della violenza organizzata» possa intervenire tanto sull’offerta, quanto sulla domanda: tutti questi attori (mafiosi, mercenari, terroristi…) forniscono servizi di protezione e tutti, al tempo stesso, contribuiscono a creare quell’insicurezza che è all’origine della domanda di protezione.
Tutti insieme questi attori concorrono a definire il contesto di quella che Armao definisce guerra civile globale permanente peculiare del nuovo disordine mondiale contemporaneo: civile per il suo tendenziale svolgersi all’interno dei territori statali, coinvolgendo sempre più vittime ignare e combattenti non statali della violenza intenzionati a gestire in maniera totalitaria il proprio specifico territorio generando business; globale in quanto tutti i conflitti civili hanno ricadute politiche, economiche e sociali internazionali; permanente per il suo divenire una condizione ordinaria e quotidiana per milioni di esseri umani. Tale stato di guerra civile globale permanente rende sempre più labile il confine fra tempo di pace e tempo di guerra. Questa nuova forma di guerra, pur non escludendo sue forme più tradizionali, diventa una condizione endemica di amministrazione delle relazioni sociali domestiche3.
“Oikocrazia”: dall’unione di kratos (potere) e oikos (casa, famiglia, clan, oltre che radice del termine economia, “amministrazione della casa”). ↩
Chi tra gli abitanti di Mosul è riuscito a salvarsi da tale inferno, dopo un lungo periodo di permanenza nei campi profughi, si è trovato a fare i conti con il rientro in città. A tal proposito Armao racconta di un particolare progetto architettonico, elaborato nell’ambito del Politecnico di Torino per il concorso internazionale d’architettura “Mosul Postwar Camp”, volto a fornire chi rientrava in città una sistemazione provvisoria a ridosso dei quartieri in ricostruzione alla cui realizzazione avrebbe poi partecipato direttamente. Un’idea di ricostruzione comunitaria dal basso non solo alternativa al “classico” invio di manodopera da parte delle multinazionali statunitensi intenzionate ad arricchirsi con gli appalti post-bellici, ma capace, nel suo piccolo, di fornire una possibilità partecipativa alla costruzione del proprio presente e del proprio futuro in contrasto al consueto dover sottostare a forme di socialità urbana decise da vecchi e nuovi potentati. ↩
Cfr. Fabio Armao, L’età dell’oikocrazia, Milano, Meltemi, 2020. [su Carmilla]. ↩