di Francisco Soriano
Già nel 2013 nella monarchia saudita si cercavano, disperatamente, “soluzioni moderne” per la mancanza di tagliatori di teste: infatti una commissione ministeriale fu nominata al fine di valutare se, le esecuzioni a morte, potessero avvenire non più per decollazione con colpi di scimitarra bensì con una pubblica e meno cruenta fucilazione. In realtà, più che animati da spirito modernista i sauditi denunciavano carenza assoluta di boia disponibili all’uso di tecniche ormai antiquate quanto dispendiose. Non solo, dunque, la carenza di esecutori materiali delle condanne a morte, ma soprattutto la mancanza di puntualità dei boia che, pare, si presentassero molto spesso in colpevole ritardo all’appuntamento con le vittime da decapitare. Fu il giornale “AL Youm” ad occuparsi del caso, citando anche una laconica circolare del dipartimento di giustizia saudita: “La mancanza di persone in grado di utilizzare la spada e la loro indisponibilità in molte aree – scrisse il quotidiano – significa che il boia deve compiere lunghi viaggi per arrivare sul luogo dell’esecuzione, a volte non arrivando in tempo”. Bisognava capire, tuttavia, se l’ottimizzazione dell’uccisione con un plotone di esecuzione fosse compatibile con i dettami della sharia. Si fece in fretta. La prima vittima con il metodo della fucilazione, guarda caso, fu una donna nel nord-ovest del Paese, ad Ha’il.
Ne è passata di acqua sotto i ponti dal 2013, fino a quando, qualche mese fa il senatore semplice Matteo Renzi dopo aver aperto una crisi di governo si recava in Arabia Saudita per partecipare alla “Davos del Deserto”, un incontro annuale nella cornice di una serie di conferenze presiedute da leaders politici, CEO ed imprenditori, organizzata dal “Future Initiative Institute”. Fin qui nulla di straordinariamente rilevante se non la proiezione di un video in cui il principe ereditario Mohammed bin Salman e il più intrigante esponente della politica italiana, Matteo Renzi, argomentassero sul “nuovo Rinascimento” che caratterizzerebbe per modernità lo sviluppo di uno Stato portatore, ancor oggi, di valori ripugnanti, disgustosi e drammaticamente pericolosi. Le dichiarazioni di Renzi hanno destato in quell’occasione reazioni e sdegno da tutto il mondo che non hanno minimamente scalfito la sensibilità dell’ex primo ministro: probabilmente ha ritenuto più importanti gli sforzi economici della famiglia Saud nel pagamento delle sue conferenze e relazioni al rispetto di quei valori e diritti umanissimi che secoli di cultura, storia e lotte, anche sanguinose, hanno affermato e consolidato nel suo Paese. Non è colpa del senatore semplice di Rignano se il monarca-sultano-tiranno di Ryad applichi la più insensata sharia di questo mondo: su questi argomenti tuttavia sarebbe bene ricordargli che, in un solo giorno del mese di marzo dell’anno 2022, nel principato delle meraviglie e delle riforme sono state uccise 81 persone con una brutalità che non ri-conosce la storia e i diritti di una umanità alla deriva.
Tutto ciò è avvenuto a poche ore, pare, dall’arrivo del premier Boris Johnson, un altro di quegli esponenti che, in piena continuità con i suoi predecessori di destra e di sinistra inglesi, con ipocrisia e cinismo e, a più riprese, hanno intessuto e intrattengono floride e remunerative relazioni con stati che disprezzano i diritti umani degli individui. Fra le 81 persone anche sette yemeniti e un cittadino siriano, rei di crimini fra i più disparati: dall’omicidio a reati legati al terrorismo di matrice, ci verrebbe da dire, non saudita. Eppure il principino del rinascimento in salsa saudita aveva promesso con tanto di clamore mediatico che era intenzionato a riformare il sistema giudiziale del proprio Paese: sarà stata una delle tante amnesie e falsità, visto che di crimini efferati se ne continuano a perpetrare. Non sappiamo se le 81 persone siano state decapitate, resta un dubbio che cambia poco le dinamiche saudite connotate da disumanità e orrore. Questo eccidio è la più grande esecuzione di massa dopo quella avvenuta nel 1980, effettuata per punire a morte i 63 militanti condannati per aver occupato con le armi il tempio sacro della Grande Moschea, soltanto un anno prima. Da sottolineare però, che di questi ultimi almeno 40 condannati erano di fede sciita e originari di Qatif e Al-Ihsa, religione giudicata eretica in Arabia e, i seguaci, vittime di persecuzioni cruente da parte dei wahabiti sauditi ancor oggi. Le notizie da questa florida isola d’arte e apollinea armonia non sono di solito rese pubbliche: infatti le famiglie e le associazioni che difendono i diritti umani ci fanno sapere che le confessioni dei detenuti sono chiaramente estorte, nel migliore dei casi, con botte e torture indicibili. Le autorità saudite negano e rilanciano, dicendo che i processi si svolgono regolarmente con la supervisione, addirittura, di 13 giudici e 3 gradi di giudizio.
Il 2 marzo di quest’anno è stata ripristinata la pena di morte per i minorenni. Il caso riguarda Abdullah al-Huwaiti che, nel 2017 fu arrestato a 14 anni e condannato a morte quando ne aveva 17, per aver eseguito un omicidio durante una rapina a mano armata. La sua condanna era stata annullata circa un anno fa. L’efficiente giustizia saudita prima ha commutato la condanna, per aggiornarla con una condanna pochi giorni fa. Infatti al-Huwaiti è stato nuovamente processato da un tribunale di Tabuk perché era necessario attuare la “qisas”, una forma e un istituto di giustizia retributiva che consiste nella possibilità di consentire alla famiglia della vittima di chiedere una compensazione in denaro, concedere la grazia o pretendere la condanna a morte definitiva. Ma la questione non risiede soltanto in questa forma barbara di giudicare, bensì di capire se le prove utilizzate contro di lui siano credibili: dopo l’arresto del quattordicenne vi erano state torture e isolamenti continui per mesi, gli era stato proibito di farsi assistere da un avvocato e, dopo l’ennesima tortura, Huwaiti non poteva neanche più camminare per le frustate ricevute con un cavo elettrico che gli hanno atrofizzato le gambe. In definitiva al-Huwaiti è stato condannato due volte per un reato commesso a 14 anni, con una sola verità estorta con metodi assurdi e condannato a morte senza appello.
Finalmente una buona notizia: dopo ben 10 anni di carcere è stato liberato il famoso blogger saudita Raif Badawi, arrestato, incarcerato e come di consuetudine torturato quando aveva 28 anni. Le accuse, fra le più gravi, quella di aver insultato l’islam, con una condanna accessoria di 1000 frustrate oltre quelle propinate a “porte chiuse” in carcere quotidianamente. Le frustrate, stabiliva il tribunale, potevano essere spalmate e inflitte entro 20 settimane. Si ricorda che la prima fustigazione in pubblica piazza a Jeddah destò proteste in tutto il mondo per la sua brutalità “non solo simbolica”. le Nazioni Unite la descrissero e protestarono ufficialmente. L’accusa inoltre investiva la sua attività come gestore del sito “Sauditi liberi”, che esternava parole di libertà e pace e chiedeva la possibilità di esprimersi con una certa libertà. Gli accenni ai diritti umani poi, scatenarono nei principi rinascimentali un’ira senza pari ordinando l’arresto del giovane blogger. Liberato, il povero Raif non potrà lasciare il Paese e andare in Canada, dove l’attendono la moglie e i suoi tre figli. Il divieto dei tribunali sauditi ha vietato l’uscita per dieci anni. La sorella Samar e l’attivista Nassima al Sadah subiscono lo stesso trattamento, non potendo lasciare il Paese.
Il 15 febbraio di quest’anno è stato giustiziato un cittadino giordano per un omicidio compiuto a Jazan, nel sud-ovest del Paese. Il nome del giustiziato per decollazione è Hussein Jaber Salem al-Maliki, reo di aver strangolato durante una rissa un cittadino saudita. Il 2 febbraio di quest’anno è stato liberato Dawoud al-Marhoon, condannato a morte perché protagonista delle proteste antigovernative del 2012, quando aveva 17 anni. Insieme ad altri due minori, Ali al-Nimr e Abdullah al-Zaher furono condannati a morte per lo stesso motivo di al-Mahroon, pene commutate a 10 anni di prigione per la decisione di re Salman: a nulla è valso l’impegno dei tribunali nonostante la loro efficienza e indipendenza! Al-Nimr liberato ad ottobre 2021 è il nipote dell’importante religioso sciita Nimr Al-Nimr, giustiziato a sua volta dalle autorità saudite nel 2016. Al-Zaher è stato rilasciato nel novembre 2021.
Le 81 uccisioni in Arabia Saudita, le 7 condanne a morte in Egitto e la fucilazione eseguita in Bielorussia di Victor Pavlov sono un segno molto preoccupante: forse la “distrazione” della guerra in Ucraina consente di continuare ancora più brutalmente nella repressione nei propri Paesi? L’agenzia di stampa statale saudita ha precisato che questa esecuzione di massa deve essere percepita nel quadro della lotta al terrorismo e ai crimini gravi come l’omicidio di uomini, donne e bambini innocenti. L’Arabia saudita afferma di lottare contro l’Isis, Al Qaeda e i ribelli Houti dello Yemen, di assumere, inoltre, “una posizione rigorosa e incrollabile contro il terrorismo e le ideologie estremiste che minacciano la stabilità del mondo intero”. Certo è che oggi l’Arabia saudita non gode dell’appoggio completo degli USA, come era accaduto in era Trump con i suoi interessi economici privati in quel Paese e, l’Italia, ha bloccato le autorizzazioni per l’esportazione di missili e bombe. I sauditi vorrebbero intensificare i rapporti con la Cina, vendendo petrolio, naturalmente. Ai petroldollari, Ryad starebbe pensando di accettare lo yuan, non per motivi mirabolanti, ma perché il principe ritiene uno sgarbo senza precedenti l’irrigidimento delle relazioni con l’America di Biden. Si teme soprattutto la ripresa del dialogo con Teheran sul nucleare, il vero nemico storico dei sauditi, molto di più di Israele con una storia di odio e di inimicizie ben più profonda di quello che si possa immaginare. Insomma vale sempre il vecchio detto con una lieve modifica: “Pecunia non olet” ma il petrolio ancor meno.
Queste le ultime news dalla monarchia rinascimentale di Mohammad bin Salman.