di Francesca Gargallo
Traduzione di Federico Nino De Stavola e Alessandro Peregalli*
[Il 3 marzo è venuta a mancare Francesca Gargallo, femminista, scrittrice, filosofa, attivista, compagna, siciliana di origine e mesoamericana per decisione da ormai molti anni. La Verde morada, la sua casa comunitaria di Città del Messico, ha significato una base e una prima accoglienza per molti di noi italiani e italiane, ma non solo, che passavamo e cercavamo radicamento, o solo un contatto, nella capitale messicana. La sua opera di scrittrice, saggista e militante è ampiamente riconosciuta come un importante riferimento latinoamericano e non solo, ma anche di tutte e tutti coloro che lottano per costruire un mondo diverso, dal basso. Per raccontare la sua storia, ci affidiamo alle sue stesse parole, in questo testo, del 2010, apparso nel libro Más allá del umbral: autoras hispanoamericanas y el oficio de la escritura.** (FNDS e AP)]
Se rincontrassi ora con l’amica che non vedo dai tempi del liceo pubblico Alessandro Manzoni di Roma, se la riunione fosse molto emozionante – diciamo tra un mio volo in Bolivia e uno dei suoi da Haiti – e se lei mi chiedesse di raccontarle in una lettera cosa ne è stato della mia vita durante i quarant’anni che non ci siamo viste, probabilmente le scriverei quanto segue:
Come sai, non ho mai obbedito agli ordini. All’inizio era un atto involontario: ricordi come mi davano fastidio i vestiti che mi imponeva mia madre, quanto poco mi importava della mia uniforme scolastica, la paura dei miei genitori che mi paralizzava e, allo stesso tempo, mi spingeva a sfidarli, le prime sigarette all’uscita da scuola e i sorsi di vino che bevevamo assieme all’ombra di un pioppo vicino alla fermata dell’autobus, alle due del pomeriggio, dovendo farlo in fretta perché ci aspettavano a casa. Ci sentivamo ribelli, tu venivi dalla Calabria e io dalla Sicilia, avevamo dodici anni ed era il 1968.
Forse più che disobbedire, non potevo fare a meno di vedere e sentire ciò che gli altri facevano finta che non esistesse. Come quando ho detto ad alta voce durante un pasto all’amico molto ricco di mio zio di smettere di molestare mia cugina. Era più piccola di me e sentivo il dovere di proteggerla; il vecchio la faceva piangere quando la sera, dicendo di andare a “salutare i bambini”, le metteva la mano sotto il pigiama. Mia zia, l’idiota, faceva finta di non sentire, ma io cominciai a dormire nella stanza di mia cugina e ogni volta che il vecchiaccio entrava, facevo un tale casino che dopo un po’ smise di “visitare i bambini”.
Naturalmente per la cultura borghese della dissimulazione ero insopportabile, una donna incapace di mantenere la sua compostezza. Tuttavia, piacevo ai miei nonni materni, soprattutto a nonna Gilda. Era rimasta orfana di madre in tenera età e era stata cresciuta dagli uomini, quindi cercava in ogni donna qualcosa che le ricordasse chi era. Ed era simpatica, mia nonna Gilda. Diceva che qualsiasi cosa facessi andava bene, purché la facessi col sorriso. Per mia nonna, sorridere indicava due cose: la propria felicità, che era importante, ma ancora più importante era il piacere di fare qualcosa con o per altre persone. Diceva che chi sorride dimostra di avere a cuore gli altri esseri umani.
Anche se è difficile sorridere di fronte alle proprie avversità e alle ingiustizie e discriminazioni che la maggior parte delle persone soffrono nel mondo. Molto prima di vedere i militari salvadoregni puntare le armi alla porta di una chiesa dove il prete aveva dato rifugio a un’intera comunità rurale, molto prima di capire come le autorità messicane manipolavano i diritti dei lavoratori e trasformandoli in elemosine di partito, quando vivevo ancora in Italia, mi era difficile sorridere agli insegnanti che, scherzando, ma in classe e davanti ai miei compagni maschi, mi facevano capire che stavo studiando per niente, perché il mio destino era sposarmi e avere figli. Stringevo forte la mascella quando aggiungevano: “carina come sei, non sarà difficile…”. Prima di incontrare altre donne disobbedienti come me, non pensavo di poter dire loro che si sbagliavano, che la loro logica, la loro etica e la loro estetica erano definizioni pedanti di chi non ha aperto gli occhi sulla realtà.
Grazie a loro e alle regole della mia famiglia non mi sono mai sposata, ho viaggiato con qualsiasi pretesto, ho scritto quello che volevo, ho instaurato dialoghi con tutte le donne ribelli che ho incontrato nella vita e ho avuto una figlia. Sì, la nascita di mia figlia è legata alla storia di come mi sono liberata in Messico, di come dissi al padre di mia figlia che non volevo sposarmi, che volevo vivere con lui fino a quando fosse durata, e di come con le mie amiche abbiamo costruito un mondo – un micromondo forse, ma comunque un mondo – di molte famiglie possibili. Tutte queste cose sono successe dopo che lasciai l’Università di Roma con la mia laurea in filosofia con lode. Ho studiato tanto anche perché era un modo per disobbedire ai mandati culturali dei miei insegnanti.
Arrivai in Messico con un libro di racconti appena pubblicato sottobraccio, quando avevo appena compiuto 23 anni. La burocrazia italiana e quella messicana entrarono in cortocircuito e non potei iscrivermi subito a un master: mancava sempre qualche documento. Così iniziai a fare vari lavori, davo lezioni di lingua, traducevo documenti in italiano e francese, e mi iscrissi ad alcuni corsi all’università privata “Iberoamericana”, gestita da gesuiti. Io, che in Italia cambiavo di marciapiede per non passare vicino a una suora o a un prete, perché pensavo che portassero sfortuna, in Messico capii che c’erano persone coinvolte nella realtà a causa del loro credo religioso. E che erano molto disobbedienti ai comandi di Roma. Non mi hanno convertito, ma hanno aperto la mia visione del mondo. Per il resto, seguii buoni corsi di storia e arte mesoamericana, un corso di sociologia latinoamericana e le mie prime lezioni di economia politica.
Mentre arrivavano le scartoffie con la laurea in filosofia, la rivoluzione sandinista che aveva appena trionfato nel luglio 1979 riempiva tutte le mie ansie e fantasie. Così un giorno presi un camión – nel suo significato messicano, quindi un autobus e non una macchina da carico – e andai tremila chilometri più a sud.
In Nicaragua tutti sorridevano, anche i militari, che erano ragazzini e ragazzine dagli occhi neri, belli come il sole, frivoli come un giorno di vento e disposti a fare qualsiasi cosa per aiutare qualsiasi loro connazionale. I nicaraguensi avevano un modo speciale di mostrare a una donna che gli piaceva. Le spiattellavano, in coda all’autobus, in mezzo alla campagna, in ufficio o mentre ballavano stretti, la frase che più eccitava la mia ribellione contro il destino manifesto di tutte le donne: “Voglio avere un figlio con te”. Una sera, abbastanza presto per i miei orari italo-messicani – le feste andavano dalle 16 alle 23, poi tutti a dormire – durante i festeggiamenti per la fine di un raccolto collettivo di foglie di tabacco, ballavo stretta a un comandante bellissimo, eroico come Ares, almeno secondo lui e i suoi accoliti. Ero affascinata, naturalmente. Quando al bruto gli uscì la frase che voleva avere un figlio con me. A quel punto, improvvisamente liberata da tutte le paure che da anni mi impedivano di dire esplicitamente quello che volevo dire, cominciai a criticare la frase, argomentando che da quando esistevano i preservativi i rapporti sessuali non erano necessariamente legati alla riproduzione, che la donna aveva diritto al piacere libero dal rischio di rimanere incinta e, infine, che avrebbe fatto bene imparare a masturbarsi. In tutto questo, anche la musica si era interrotta e donne e uomini mi guardavano gli uni con panico e le altre con interesse. La mattina dopo fu organizzato il primo gruppo di autocoscienza femminista a Matagalpa.
Nel corso degli anni mi sono resa conto che la necessità di esplicitare le differenze da qualsiasi modello imposto è inscritta nel corpo delle donne, che è un corpo storico e un corpo materialmente simbolico. Noi donne possiamo contestare una norma incontestata su come donne e uomini dovrebbero essere (il che implica le relazioni economiche, gli accordi politici, l’organizzazione sociale del lavoro, il diritto all’affetto, e qualsiasi altra cosa), perché solo noi abbiamo vissuto in ogni situazione della nostra vita le conseguenze dell’essere escluse dall’autorità che avalla le norme. E queste conseguenze possono essere sia dannose che molto liberatrici, perché ci permettono di vedere l’autorità, il suo potere, dall’esterno. Insomma, in Nicaragua imparai a rispondere agli uomini che mi spiattellavano che tutti i maschi sono stati educati dalla madre, che quella madre non li aveva educati, ma aveva trasmesso loro, senza possibilità di cambiarli, i modelli di comportamento che il sistema le aveva imposto fin da bambina. L’educazione richiede libertà di ricerca e di espressione, si basa sulla creatività, ma sono queste azioni elementari che non sono permesse alle donne.
Qualche mese dopo, il caldo del Nicaragua mi sconfisse. Era umido e durava tutto l’anno. Non potei sopportarlo. Non sapevo che i “contras”, cioè le truppe controrivoluzionarie finanziate dal governo di Reagan, secondo un programma del suo capo della CIA, George Bush senior, stavano per entrare in azione, seminando morte dove prima crescevano tabacco e caffè. I comandanti dei contras, così come Bin Laden per le sue azioni terroristiche contro i sovietici in Afghanistan, Reagan li chiamava “combattenti per la libertà”.
Tornai in Messico. Scrissi il mio primo romanzo. Trovai un editore. Mi unii alla solidarietà con la lotta di liberazione del popolo salvadoregno. Mi avvicinai, sempre da una prospettiva molto indipendente, alle femministe messicane e mi unii a un gruppo di autocoscienza femminista con rifugiate politiche cilene, argentine, uruguaiane e guatemalteche. Tutte insieme fondammo un gruppo di sostegno per le donne centroamericane. Mi innamorai anche di una poetessa uruguaiana, ma era troppo intimista nelle sue espressioni e aveva una ragazza. Avevo bisogno della logorrea della narrazione, ero in un momento rivoluzionario e, ai miei occhi, il Messico in quegli anni sembrava una festa.
Naturalmente mi sbagliavo di grosso. Il Messico copriva la repressione dei popoli indigeni e dei contadini, dei movimenti popolari, dei sindacati indipendenti, delle lesbiche, dei gay e delle donne sole con una retorica fenomenale e con la sua storica solidarietà con i rifugiati del mondo. Ma avevo 25 anni ed ero appena entrata all’Universidad Nacional Autónoma de México dove studiavo quello che volevo e dove tutte noi studentesse avevamo il diritto di intervenire, di proporre letture, di intraprendere analisi. Non avevo mai studiato così bene, né con tanta passione. Un maestro, Jorge Ruedas de la Serna, mi disse che ero destinata a scrivere in spagnolo e decise di insegnarmi a farlo: per un anno, ogni settimana mi diede un classico della letteratura latinoamericana, da María di Jorge Isaac a Estaba la pájara pinta sentada en el verde limón di Albalucía Ángel. Ogni settimana dovevo portargli la mia scheda di lettura su tre fogli di carta affinché lo correggesse. Non lo ringraziai mai per quello che fece per me. Solo Marta Lamas, la femminista messicana con cui più ho discusso, perché abbiamo alcune posizioni molto contrastanti, fece qualcosa di simile con me: un pomeriggio mi spiegò quando “aún” è accentato e quando non lo è. E il mio amico Coquena, cioè Rosario Galo Moya, e l’appassionato traduttore e poeta argentino Eduardo Molina y Vedia: con loro e con il fumettista e cronista Luis de la Torre leggevamo ad alta voce i testi narrativi che producevamo. Era una attività entusiasmante, al quale si unì un gran numero di giovani donne e uomini nel seminterrato di un club di scacchi, El Alfil Negro. Un ciclo di riunioni settimanali durate un lustro.
In questo modo così collettivo, lo spagnolo divenne la mia lingua. La lingua con cui mi faccio capire, scrivo, cullo mia figlia per addormentarla, mi unisco a reti di donne scrittrici, dico ai miei amanti quanto mi piacciono.
Finì il master, pubblicai un secondo e un terzo romanzo, mi iscrissi al dottorato. Sempre in Studi Latinoamericani, l’antesignano della disciplina che negli Stati Uniti acquisí il nome di Cultural Studies, cioè studi veramente interdisciplinari, dove la filosofia ha la possibilità di pensare a partire da altri strumenti concettuali di approccio alla realtà per stabilire un dialogo trasformatore. Ebbi due grandi maestri e una maestra: Don Leopoldo Zea, con la sua sorprendente filosofia della storia nazionalista-antiimperialista-latinoamericanista e un po’ esistenzialista; Horacio Cerutti, che continua ad essere il mio riferimento intellettuale più ammirato; e la femminista Graciela Hierro, una filosofa dell’etica utilitaria che sosteneva il superamento della discriminazione delle donne a beneficio di tutta l’umanità, la cui morte ancora mi offende. La verità è che tutti e tre erano molto sorridenti; forse è questa la ragione della loro forza.
Il Messico mi sembrava una festa anche perché in quegli anni cominciai a scrivere per Excélsior e a preparare una tesi sulle trasformazioni del comportamento delle donne causate dalla loro partecipazione alla guerra in El Salvador. Andando e venendo dall’America Centrale, dove un assassino come il guatemalteco Ríos Montt poté compiere un genocidio di più di 200.000 persone in otto mesi, e dove i governi e i militari uccidevano civili e militanti come se piovesse, arrivare in Belize o tornare in Messico era come raggiungere un’oasi dopo aver attraversato il deserto. Ricordo la fame, la paura, la rabbia, la volontà delle persone che intervistai in quegli anni. Le insegnanti salvadoregne mi parlavano dei loro studenti e della loro volontà di trasformare la società; le contadine lenca in Honduras mi raccontavano la storia della repressione militare nel loro paese, dove le organizzazioni non potevano nemmeno alzare la testa perché appena appariva un leader veniva assassinato; le madri e le giovani ragazze cachiquel e quiché in Guatemala mi colpivano perché potevano raccontare storie di brutali massacri di cui erano state testimoni o vittime con lo sguardo perso di chi non può più piangere. Da allora cominciai a rivendicare la mia identità mesoamericana, a sentire mio il territorio della tortilla, a preferire il dibattito con le lavoratrici della mia terra a qualsiasi discorso accademico.
Quando durante gli anni ’90 i guerriglieri centroamericani firmarono trattati di pace con i governi dei loro paesi, la mia vita divenne molto più messicana, urbana e rilassata; cominciai a vagare tra gallerie e studi di pittori e pittrici. Io che non sono capace di disegnare nemmeno una casetta, posso perdermi nel tratto di un braccio che si muove su una tela o nel gocciolare dei pigmenti su un pavimento. Orizzonti tracciati con una sola linea, nelle sintesi pittoriche di Carlos Gutiérrez Angulo; l’opacità curva di un corpo ricaricato nel suo gesto, come lo plasma nei suoi murales Patricia Quijano; il movimento che diventa una danza sulla carta imbevuta di inchiostro nei disegni di Guillermo Scully; la cottura del colore e delle sabbie per esprimere un proposito ecologico nelle pesanti tele di Gabriela Arévalo: non c’è pittrice o pittore il cui dipingere non mi abbia fatto innamorare. Ne tentativo di dialogo tra pittura e letteratura che io non abbia sperimentato. Dall’inventare racconti per bambine e bambini per accompagnarli con disegni significativi, all’esplorare biografie della vita plastica di creatori tellurici come Carlos Gutiérrez Angulo. Rinuncio a tutta la musica del mondo per un buon tratto, divento sorda per poter continuare a vedere come il senso del mondo si esprime in una macchia. Ho sempre concepito un buon quadro come una poesia: una sintesi nel cui equilibrio niente ha il diritto a essere di troppo.
Da lì a che il padre di mia figlia fosse un pittore il passo fu breve. E la maternità, messa in discussione e rifiutata durante la gravidanza, divenne un canto di gioia una volta che partorii. Poi fu il momento dei viaggi con mia figlia, il mio desiderio che conoscesse il mondo e i suoi brutali contrasti, accompagnata da me e da altre donne, amiche miei, zie sue: la famiglia, quando non è una convenzione, è una rete di affetti. Per nove anni condividemmo la casa con la poetessa honduregna Melissa Cardoza, che raccontava a Helena storie sempre nuove che la bambina disegnava sulla lavagna regalatale da sua zia Montse, ovvero l’editrice del Belize Montserrat Casademunt, un’altra delle tenere figure della sua infanzia.
Le donne che usano la maternità come scusa per non realizzarsi fanno un grande danno alle altre donne, poiché le spingono a rifiutare un’esperienza totalmente femminile, tellurica, vitale, generosa, anche se non necessaria o necessariamente desiderata da tutte, e a trasformare la realizzazione personale in uno spazio di mascolinizzazione. Lo so perché odiai essere incinta per la paura che mi provocava la figura della madre senza possibilità di trascendenza. Fin dalla mia infanzia, avevo affermato che non volevo essere madre, che non lo sarei mai stata. Poi fu difficile spiegare a me stessa perché rimasi incinta, perché non abortii e perché scelsi un parto naturale e di allattare mia figlia per un anno e mezzo. Senza dubbio l’allattamento al seno fu la scelta più facile: provoca il piacere fisico più intenso e orgasmico che abbia mai provato in vita mia.
Quando Helena aveva un anno e mezzo percorremmo l’arco della Gran Chichimeca per poter scrivere La decisión del capitán, il mio romanzo su Miguel Caldera, un personaggio maschile nel quale mi identificai per i suoi fallimenti: visse cercando la pace e facendo la guerra, combattuto tra l’essere figlio di un soldato castigliano o della madre chichimeca, un meticcio incapace di scegliere un capostipite, ma in dialogo con le sue sorelle, amici e fratelli. A un anno e mezzo, Helena cavalcava mule e asini senza mai stancarsi, e se non c’era un animale a disposizione, la portavo io sulle spalle per percorrere le colline, i burroni e le zone desertiche del Tunal Grande. Da allora amiamo viaggiare insieme e quello che io non noto, lei me lo fa notare.
Poi venne Marcha seca, un romanzo ambientato nello stesso territorio 450 anni dopo, quello che ho scritto con più angoscia; e le storie di Verano con lluvia. Poi un grande vuoto letterario, una desolazione della parola, la morte delle idee. ….
Melissa cercò di consolarmi; due care amiche, Eli Bartra in Messico e Edda Gabiola in Guatemala, mi chiesero di redigere lunghi articoli sulla storia delle idee femministe per spingermi a scrivere di nuovo; con la straziante poesia del kosovaro Xhevdet Bajraj sentii nuovamente l’emozione della lettura; ma, tutto sommato, non tornai a sentirmi di nuovo felice. Nemmeno quando finii un libro che considero molto importante, Ideas feministas latinoamericanas, che ha avuto due edizioni in cinque paesi. Nessun saggio, per quanto intelligente, può provocare il piacere esaltante della buona narrativa. La narrativa dice più della filosofia.
Forse per non sentirmi sconfitta, tornai a un vecchio amore: l’insegnamento. Partecipai alla fondazione dell’Universitad Autónoma de Ciudad de México perché il suo rettore predicava l’istruzione universitaria per tutte e tutti, senza esami che escludessero coloro che non avevano un livello di conoscenza superiore a quello richiesto dallo Stato nel concedere la licenza superiore. Un’università che rappresentava una sfida per le sue insegnanti, quella di una qualità che non si basasse sulla competizione, un’università popolare e non gerarchica. Durante l’organizzazione del piano di studi di Filosofia e Storia delle Idee, mi battei per l’esistenza di una materia indispensabile: Filosofia Femminista. Ancora di più: filosofia femminista con un profilo latinoamericano. Quando i miei colleghi misero in questione l’esistenza di una materia che “escludeva il sapere degli uomini”, non resistei e gli sbattei in faccia: “La vostra, amici miei, è una filosofia del cazzo. In francese si chiamerà pure falologocentrismo, ma in Messico si chiama filosofia del cazzo”.
Ora, dopo nove anni di insegnamento all’UACM (Universidad Autónoma de la Ciudad de México), e con Helena che è diventata una giovane donna, la voglia di scrivere mi sta tornando, a poco a poco, come la salute torna a una convalescente. Cerco spazi, tempi vuoti in cui le fantasie possano popolare una scena…
Ovviamente non sono disposta a rinunciare al dialogo con altre donne, soprattutto con quelle che vivono quotidianamente il razzismo dell’egemonia del pensiero e delle leggi di un Occidente che si formò cinquecento anni fa con l’invasione delle terre di vari popoli da parte di alcuni paesi europei. La terra, la Madre Terra della maggior parte delle nazioni americane, la portatrice e dispensatrice di vita, inoltre, mi sembra così brutalmente minacciata dalla cultura egemonica, che la narrazione – l’atto di narrare, cioè di far conoscere – mi sembra ogni giorno più urgente in termini di contenuto ecologico e agricolo. Non so dove pubblicherò i miei prossimi romanzi, non so nemmeno dove li scriverò, ma le loro storie sono già in me e sono fatte di molte storie che ho sentito.
_________________________________________________________
*Articolo originale da Desinformémonos
**AA.VV. Ed. Renacimiento, Colección Iluminaciones n. 61, Sevilla