di Serena Penni
Quando mi hai aperto la porta, ci hai messo qualche istante a riconoscermi. Non c’è da stupirsene, sono passati tanti anni. Mi hai guardata senza curiosità e mi hai chiesto se volevo entrare. Ho fatto segno di sì con la testa e ti ho seguita. L’appartamento non è cambiato, e mentre mi siedo sulla poltrona a fiori del salotto osservando il quadro di un macchiaiolo minore appeso alla parete di fronte a me, mentre aspetto che tu mi prepari un tè che non ti ho chiesto, penso che non mi sarebbe difficile immaginare di tornare indietro di vent’anni. Basterebbe un battere di ciglia per ripiombare in pieno in uno di quei pomeriggi di fine ottobre, con la luce forte che filtra prepotente dalle finestre, i mandarini nella fruttiera, le noci nella cesta e una scatola di gianduiotti semivuota in mezzo al tavolo.
Con un altro battere di ciglia torno nel presente, di fronte al tè bollente, al bricco del latte, alla fetta di limone. Quello che sono venuta a raccontarti devi averlo già saputo dai giornali o dalla polizia. E allora faccio prima: non te lo racconto. I tuoi occhi mi dicono che sono diventata brutta, ma in carcere chi non lo diventa. Sono la mancanza di cura e di sonno, il rimorso, la stanchezza, la noia a ridurci così. Non sai cosa dire. Ogni tanto mi guardi. Di sicuro ti stai chiedendo cosa sono venuta a fare. Sono qui per parlare, eppure le parole non escono, neppure adesso. Si formano nella testa ma restano scollegate, non si trasformano in frasi, in discorsi.
– Vuoi un cioccolatino?
Mi porgi una scatola di gianduiotti e io sorrido perché mi viene da pensare che sia quella di diciotto anni fa.
– Grazie.
Il passato oggi ritorna più violento del solito. Rivedo una mosca che ronza sul vetro poco pulito di casa mia, dove un’unica stanza fa da soggiorno, da cucina, da studio e da sala da pranzo, sento di nuovo i miei piedi bagnati sul pavimento ghiacciato, sento ancora il rubinetto della vasca che non smette di gocciolare. Il bambino è addormentato. Se ne sta disteso sul divano e la sua espressione è dolce, rilassata. Ha smesso di urlare, di chiedere, di dire di no. Ma questa pace non durerà che per poche ore. Fuori, il mondo affoga sotto il diluvio universale, i fulmini schiariscono a tratti una striscia di cielo viola, i tuoni la squassano.
Sono venuta con un pacchetto di Natale; non lo scarti neppure e fai bene, tanto dentro c’è il solito foulard. Sono venuta a dirti che quella notte con me c’eri tu, a bisbigliarmi all’orecchio che la disfatta era l’unica soluzione possibile.
Dimentica tutto. Tanto non ho ancora detto una parola. Sono venuta a dirti che ciò che hai letto sui giornali non è la verità. Mi guardo intorno e mi accorgo che hai tolto dalla libreria la mia fotografia nella cornice d’argento, quella del giorno della laurea, e anche le poche foto che avevi scattato al bambino quando era ancora piccolo, prima che iniziasse a urlare, prima della diagnosi e di tutto il resto.
No, sui giornali non hanno scritto la verità. Hanno detto che sono stata io a spingere il bambino dalla terrazza e io non ho fatto niente per smentirli. Ho lasciato, fin dall’inizio, che tutti credessero a una versione falsata. Ma quella notte pioveva a dirotto, avevo deciso di smettere di vivere quindi mi era indifferente. Hanno detto che l’ho lanciato dal quarto piano ma le cose sono andate diversamente. Te lo racconto a bassa voce. Sono io che volevo buttarmi, lasciare il bambino a te e a quelli come te. Ma il bambino aveva troppa paura di restare solo, o forse mi voleva semplicemente troppo bene. Fatto sta che ha cercato di trattenermi. Quando ha capito che non ci sarebbe riuscito, si è giocato l’ultima carta. Si è buttato al posto mio. Forse credeva di essere immortale. Forse non gli importava di morire, forse pensava di salvarmi. Alla polizia ho raccontato la storia più facile che mi è venuta in mente perché non speravo di averne una migliore.
Rimango zitta, a fissarti. Tu mi guardi e non dici nulla. Non sai dove mettere le mani, le sposti impacciata dalla tazza con dentro il tè che non hai bevuto, ormai freddo, alle vecchie riviste posate sul tavolo del soggiorno. Probabilmente non apri il mio pacchetto perché poi saresti costretta a dire “Grazie, che bel foulard”, e non ne hai voglia. Oppure te ne sei solo dimenticata.
Con la mano piena di anelli cacci via un insetto inesistente. Mi chiedo perché tu non abbia toccato il tuo tè. Mi chiedo a cosa stai pensando. La verità mi rimane incagliata tra i denti e la lingua. Eppure vorrei, sai, vorrei raccontarti di quella notte. Del cielo viola, del lampione bianco e dell’acqua che ci inondava senza pietà. Una cosa del genere non poteva succedere che sotto un nubifragio. Ricordo quella strana lotta sul balcone, il bambino magro, le sue ossa tra le mie mani. Mi grida “Mamma, no”. Si mette tra me e la ringhiera e continua a urlare. Ricordo il suo sguardo terrorizzato e fisso verso il vuoto. Ho appena il tempo di chiedermi quanto è lontano il suo orizzonte, fin dove arriva. All’inizio non capisco, e quando capisco è tardi: il bambino si è già lanciato nel nulla, sta già volando verso una forma diversa. Ricordo il rumore sordo del suo corpo contro l’asfalto. Non riesco nemmeno a dirgli addio, a chiedergli scusa, ad augurargli buon viaggio. Forse doveva essere lui ad augurare buon viaggio a me, perché il viaggio che iniziava per me quel giorno era duro, faticoso e non mi avrebbe portato da nessuna parte. La pioggia ci inondava e ci sovrastava. Il mio mondo finiva.
Ricordo l’ambulanza che arriva a sirene spiegate, gli inutili tentativi di rianimare il bambino, ancora sotto una pioggia scrosciante. Io penso: mio figlio è morto, e non provo né gioia né dolore, solo stupore. Poi per un attimo alzo la testa verso il cielo, e la pioggia mi cade negli occhi e in bocca. Mi guardo intorno e riconosco facce note. Sono usciti di casa i vicini, sono venuti a vedere lo spettacolo, e lo spettacolo non è bello perché dal corpo inerte e fradicio del bambino escono sangue e un liquido rosa.
Ti guardo, e a un tratto mi accorgo che non ci sei. Fissi le mie mani, poi la tua tazza di tè. Dopo, il tuo sguardo si perde nel riflesso che la lampada da tavolo proietta sul pavimento di legno. I tuoi occhi, che un tempo mi facevano tanta paura, all’improvviso mi fanno solo pena. Non vedono più nulla oltre le cose, non comprendono, non sanno. Forse hanno smesso persino di giudicare. Ne sono certa, il tuo orizzonte non va oltre il divano di pelle bianca, la poltrona, i cuscini morbidi e rassicuranti, il parquet, così come il mio un giorno si è fermato per sempre contro un cielo viola senza stelle né luna. E nessuno ha pianto per me.
Ora che ho trovato la forza di affrontarti per davvero, mi accorgo che non è più possibile. Poco dopo che mi hai aperto la porta, ho avuto la sensazione che tu mi avessi riconosciuta ma dev’essere stato solo per un attimo, una scintilla nel buio e nulla più. Non sai chi sono, mi hai dimenticata e il tè lo hai offerto a un’estranea.
Mi domando cosa ti abbia ridotta così. Forse non hai retto il peso di ciò che è successo. Forse invece è stata la solitudine. Forse è stata solo la vecchiaia, o una qualche malattia degenerativa. Rabbrividisco al pensiero che tu sia malata, che i tuoi, i nostri ricordi siano spariti dalla tua mente. Ho aspettato questo momento per diciassette anni, ho aspettato per diciassette anni di trovare il coraggio di venire a raccontarti tutto e, ora che finalmente il giorno è arrivato, tu mi colpisci ancora una volta alle spalle scivolando via, abbandonandomi a me stessa. Addio mamma, forse ho ucciso anche te. Mi alzo e mi dirigo verso la porta. Tu mi chiedi se voglio ancora del tè. Non avrebbe avuto senso parlare e mi sento una stupida per averci anche solo pensato. La mia storia la porterò con me, e magari un giorno avrò anch’io la fortuna di dimenticarla.