di Fabio Ciabatti
Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Feltrinelli, Milano 2021, edizione Kindle, pp. 585, € 19,90; edizione cartacea p. 464, € 39,00.
I militanti dei partiti comunisti del secolo scorso erano convinti di marciare nel senso della storia e per questo di appartenere a un movimento che trascendeva il loro destino individuale. Convinzione che li aiutava a combattere anche nei momenti più tragici e a riprendere la lotta dopo ogni sconfitta. L’esperienza di questo tipo di soggettività, legata alla costellazione pratico-teorica del comunismo novecentesco, si è esaurita, sostiene Enzo Traverso nel suo ultimo libro Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia. I movimenti anticapitalisti emersi negli ultimi anni, infatti, non appartengono a nessuna delle tradizioni della sinistra del passato, fatte salve alcune affinità con l’anarchismo. Generalmente disinteressati ai grandi dibattiti strategici della tradizione rivoluzionaria e indifferenti ad una dimensione teleologica della storia, hanno inventato nuove forme di organizzazione e sperimentato nuove forme di vita basate sull’autogestione, sulla riappropriazione dello spazio pubblico, sulla partecipazione, sulla deliberazione collettiva, sull’inventario dei bisogni e sulla critica della mercificazione dei rapporti sociali. “In quanto orfani, devono inventare la propria identità. Questa è a un tempo la loro forza, perché non sono prigionieri di modelli ereditati dal passato, e la loro debolezza, perché mancano di memoria”.1 Per questo “se le rivoluzioni del nostro tempo devono inventare i propri modelli, non possono farlo su una tabula rasa, senza incarnare una memoria delle lotte passate, sia le conquiste, sia le assai più frequenti sconfitte”.2 Non si tratta di conservare feticisticamente un retaggio inviolato di prassi e teorie, ma di fare una duplice operazione attraverso l’elaborazione critica della storia: superare il passato e, al contempo, salvare il significato di quell’esperienza storica chiamata rivoluzione.
Per fare questo bisogna liberarsi dalle illusioni del passato. A partire dall’idea che la successione di sollevamenti e insurrezioni popolari che si sono succeduti nei secoli scorsi faccia parte di
una progressione irresistibile conforme a una necessità causale: tutte le rivoluzioni trascendono le loro cause e seguono dinamiche singolari che cambiano il corso “naturale” delle cose. Sono invenzioni umane che non possiedono un carattere ineluttabile; costruiscono una memoria collettiva che si districa dentro una costellazione di fatti significativi. Pensare che appartengano al tempo regolare e cumulativo di una storia lineare è stato uno dei maggiori fraintendimenti della cultura di sinistra del Novecento.3
Sarebbe però altrettanto sbagliato, come va oggi di moda, invertire la direzione delle vecchie “leggi della storia” e rappresentare la sconfitta delle rivoluzioni come un esito ineluttabile. Le rivoluzioni sono piuttosto processi oggettivamente condizionati “in cui gli esseri umani agiscono sulla base delle proprie scelte, obiettivi e passioni, ma all’interno di una data struttura, che non è immutabile ma neppure eludibile”.4 Si possono spiegare soltanto a partire dall’intreccio tra causalità e azione umana, tra determinismo strutturale e soggettività politica.
La storia della rivoluzione, sostiene Traverso, è per prima cosa la storia dell’irrompere violento delle masse che diventano protagoniste consapevoli della storia. La rivoluzione è un atto collettivo mediante il quale gli esseri umani si liberano da secoli di oppressione e dominio. È un evento in cui si dà l’improvvisa sincronizzazione tra i cambiamenti cumulativi che hanno luogo nel corso di decenni e il risvegliarsi della coscienza collettiva in un cataclisma che cambia il corso della storia. Per questo, nel realizzarle, gli esseri umani esprimono energie, passioni, affetti e sentimenti in misura ben maggiore rispetto agli standard emotivi della vita quotidiana. Eccesso, frenesia e fanatismo appartengono senza dubbio alla rivoluzione, ma come suoi prodotti e non come cause. La furia rivoluzionaria è l’esito finale di decenni o secoli di oppressione, sfruttamento, umiliazione e frustrazioni. Condannare gli eccessi e le derive criminali del Terrore rivoluzionario è certamente necessario, ma esorcizzare la violenza è inutile e non produce alcuna reale comprensione storica: la critica conservatrice della violenza rivoluzionaria è cieca di fronte al potenziale esplosivo che covava negli anni, quella libertaria non riesce a spiegare come le rivoluzioni possano evitare la coercizione senza farsi rovesciare.
La tragedia delle rivoluzioni risiede nella metamorfosi fatidica che le conduce dalla liberazione alla lotta per la sopravvivenza e infine alla costruzione di un nuovo regime oppressivo; dalla violenza emancipatrice alla violenza coercitiva. La chiave per preservare stabilmente le loro potenzialità liberatrici non è ancora stata trovata, ma questo non è un buon motivo per condannare la liberazione stessa.5
Dal punto di vista di Traverso, lo stalinismo non può essere considerato come un semplice tradimento del processo rivoluzionario. Esso è parte integrante della dinamica storica nata con la Rivoluzione d’ottobre. Allo stesso tempo, però, non può essere interpretato come esito ineluttabile delle circostanze storiche della guerra, dell’arretratezza della Russia e del suo passato assolutista. Nella trasformazione di uno slancio democratico in una spietata dittatura ebbe un ruolo significativo l’ideologia bolscevica con la sua visione normativa della violenza come levatrice della storia e la sua indifferenza verso la costruzione giuridica di uno stato rivoluzionario. Siamo ancora sospesi tra i due corni del dilemma espresso da Victor Serge che, da una parte, tracciò una linea morale, filosofica e politica che separa radicalmente il socialismo autentico dallo stalinismo, dall’altra, riconobbe che l’alternativa più probabile alla spietata politica dei bolscevichi durante la guerra civile sarebbe stato la vittoria del terrore controrivoluzionario.
Il totalitarismo stalinista fu dunque l’esito di quella esplosione liberatrice rappresentata dalla rivoluzione. O meglio, uno dei suoi esiti possibili. Totalitarismo è però un concetto da maneggiare con cura perché è stato utilizzato dalla tradizione politico-storiografica che equipara fascismo e comunismo in quanto entrambi opposti al liberalismo. Le somiglianze indubbiamente ci sono, sostiene Traverso, ma rimangono superficiali: diametralmente opposte erano le rispettive basi sociali, le loro ideologie, i loro obiettivi. A differenza del fascismo, lo stalinismo non fu una controrivoluzione. Non riportò al comando la vecchia aristocrazia, ma plasmò una struttura socio-economica nuova creando una nuova élite economica, manageriale, scientifica e intellettuale reclutata in seno alle classi inferiori, inclusi i contadini. Questa è la chiave per comprendere il consenso di cui godette lo stalinismo, malgrado il terrore e le deportazioni di massa. Questa è anche la ragione che spiega l’autentico slancio che contraddistinse la resistenza russa contro l’invasione nazista durante la seconda guerra mondiale: operai e contadini difesero ciò che rimaneva della rivoluzione, un’economia senza capitalisti e proprietari terrieri. E lo fecero non a causa, ma nonostante il regime stalinista.
Inutile girarci attorno. La rivoluzione d’Ottobre è la matrice comune di tutte le forme del comunismo novecentesco. Questo non significa negare che quella del comunismo sia una storia con più ramificazioni, anche molto diverse tra di loro, ma affermare che tutte quante trovarono nella rivoluzione russa il loro punto di partenza. L’anticolonialismo novecentesco, per esempio, nasce con il congresso di Baku del 1920: lì per la prima volta la tradizione che nasce dai partiti operai europei riconosce i popoli colonizzati come soggetti politici capaci di autoemanciparsi senza aspettare la rivoluzione nei paesi occidentali, come ancora sostenevano i socialisti della seconda internazionale per giustificare il colonialismo dei rispettivi paesi.
Ciò non significa che i rapporti tra comunismo e lotte di liberazione nazionale furono privi di contraddizioni. La rivoluzione russa diventò un paradigma universale, capace di parlare anche ai popoli colonizzati, ma autentiche forme di marxismo nel Sud del mondo non potevano nascere dall’ortodossia del Comintern. A tale proposito Traverso porta l’esempio Mariàtegui, il più importante pensatore marxista peruviano della prima metà del Novecento, per il quale il socialismo non poteva semplicemente essere importato dall’Occidente, ma doveva fondersi con la tradizione ancestrale del comunismo incaico risolvendo in primo luogo il problema della terra, all’origine dell’oppressione del popolo indigeno. Rimane il fatto che l’intera storia della decolonizzazione è inscindibile dai rapporti di forza internazionali che si crearono con la guerra fredda. E come tale rimase anche profondamente segnata dalle due dimensioni che contraddistinsero le vicende russe: emancipazione e autoritarismo, rivoluzione e dittatura. “La gioia dell’Avana insorta il primo gennaio 1959 e il terrore dei campi della morte cambogiani sono i poli dialettici del comunismo come anticolonialismo”.6
Non è affatto casuale che, con la scomparsa dell’URSS, in molte regioni del globo il fondamentalismo islamico abbia sostituito l’anticolonialismo. Così come non è in alcun modo accidentale che il crollo del regime sovietico abbia segnato la fine di quello che l’autore definisce il comunismo-socialdemocrazia che nel Partito Comunista Italiano trova uno degli esempi più significativi. Il PCI fu infatti contraddistinto da una pratica politica sostanzialmente riformistica pur rimanendo formalmente legato all’ortodossia sovietica. Sta di fatto che, crollata l’URSS, il PCI non si è trasformato in un autentico partito socialdemocratico, ma ha virato decisamente verso il liberalismo. La sua triste parabola conferma quanto sosteneva Rosa Luxemburg: nessuna reale riforma nell’ambito del sistema capitalistico è raggiungibile senza una effettiva spinta rivoluzionaria. Il sistema da solo non è in grado di autoriformarsi.
Dopo il 1989, dunque, finisce l’epoca della decolonizzazione e dello stato sociale. Ma c’è di più. Il collasso del comunismo-regime ha trascinato con sé anche il comunismo-rivoluzione. Il naufragio del socialismo reale ha inghiottito anche l’utopia comunista. Lo stalinismo, combinando il culto della modernità tecnica con una forma radicale e autoritaria di illuminismo, ha trasformato il socialismo in una sorta di “utopia fredda” che difficilmente può scaldare gli animi di chi cerca ancora oggi di ribellarsi allo stato di cose presenti.
Si potrebbe obiettare a Traverso che un modello ancora oggi esiste ed è quello della Cina governata dal Partito comunista. Obiezione che però sembra debole poiché l’economia socialista di mercato in salsa cinese appare come un’idea ancor più fredda dell’utopia di origine sovietica. Questa affermazione si deve fare senza nulla concedere a chi cerca di fomentare una nuova guerra fredda per superare le contraddizioni interne di uno sviluppo capitalistico inceppato, senza negare gli aspetti socialmente progressivi, ancorché contraddittori, dei successi economici cinesi e senza nascondere le positive incrinature che può aprire nell’ordine mondiale capitalistico la presenza di uno stato in grado di contrastare l’imperialismo occidentale. Ciò detto, quando si pensa alla Cina come il nuovo faro del socialismo si rischia di ricadere nel vecchio cliché rappresentato dalla visione del “Partito comunista come forza demiurgica della storia”.7 Il Partito comunista cinese, infatti, dovrebbe essere capace di nutrire nel suo seno la bestia capitalistica per poi piegarla ai suoi voleri, mantenendo un difficilissimo equilibrio tra controllo statale dell’economia e accumulazione capitalistica in assenza di processi orientati allo sviluppo di istituzioni economico-politiche che prevedano il progressivo rafforzamento dell’autogoverno dei produttori.
Sull’idea del Partito come dominus del processo storico, ci ricorda Traverso, finirono per convergere sia il comunismo ufficiale novecentesco sia l’anticomunismo della Guerra fredda perché in entrambi mancava l’idea di rivoluzione come atto collettivo agito dal basso. Non a caso, possiamo aggiungere, chi pensa che la principale faglia del conflitto si esprima oggi nel contrasto tra l’occidente imperialista e la Cina socialista è chi è abituato a pensare la storia dall’alto, dal punto di vista degli stati che si scontrano tra di loro o dei partiti che aspirano a farsi stato, e non dal basso, dal punto di vista delle masse che si ribellano e inopinatamente possono diventare protagoniste della storia, anche nella “società armoniosa” cinese. Quelle masse che hanno certamente bisogno di scelte tattiche e strategiche elaborate con freddezza, ma anche del calore di un immaginario collettivo in grado di accendere i desideri, dare corpo alle fantasie, esprimere bisogni profondi. Il pane e le rose.
Tornando al testo di Traverso, dobbiamo rilevare che oggi ci troviamo di fronte “Una nuova generazione … cresciuta in un mondo in cui il capitalismo è diventato una forma di vita ‘naturale'”.8 Un nuovo immaginario sovversivo difficilmente potrà prendere come riferimento il “paradigma militare della rivoluzione”, fortemente legato all’intrecciarsi della sollevazione russa con le vicende della Grande Guerra, che rappresenta i militanti comunisti inquadrati nelle schiere di un esercito guidato dalla disciplina di Partito. “Oggi abbiamo bisogno di federare e far dialogare diverse esperienze, senza gerarchie, in modo ‘intersezionale’, invece di circoscriverle su basi ideologiche”.9 rifacendoci, dal punto di vista organizzativo, al federalismo della prima Internazionale più che al centralismo gerarchico dei bolscevichi.
Dopo il 1989 ci aggiriamo ancora tra le rovine del socialismo reale e per questo abbiamo bisogno di un impegno teorico e soprattutto di nuove battaglie per “Estrarre il nucleo emancipatore del comunismo da questo campo di macerie”. Lo sforzo teorico-pratico cui ci richiama Traverso va ben al di là del tentativo di distinguere tra un’ispirazione ideale e la sua cattiva applicazione pratica. Sia perché, alla luce di una sconfitta di portata storica, non possiamo esimerci da un vaglio critico delle idee che hanno ispirato la tradizione comunista, sia perché le concrete vicende storiche seguono sempre percorsi differenti da quelli inizialmente immaginati dai suoi protagonisti. Se vogliamo ricostruire una memoria storica che sia di una qualche utilità per le battaglie del presente dobbiamo farci carico degli orrori del passato perché questo è l’unico modo per provare a non ripeterli.
Inutile nasconderci che Traverso si muove su un terreno scivoloso. Il suo testo ci invita ad abbandonare un certo numero di vecchie certezze senza permetterci di guadagnarne molte di nuove. Si corre il rischio di sentirsi disarmati e per questo di essere trascinati verso un sentimento di amara rassegnazione o, peggio ancora, di cinico disincanto. Probabilmente si tratta di un rischio oggi inevitabile se non vogliamo continuare a predicare nel deserto l’antico testamento della vecchia classe operaia. L’arma migliore che abbiamo a disposizione per non arrenderci consiste nella capacità di conservare un legame ideale con la potenza liberatrice delle lotte passate e, allo stesso tempo, di rimanere connessi praticamente con i conflitti del proletariato contemporaneo. Un proletariato che, per alcuni aspetti significativi, ha una composizione materiale e un immaginario diversi da quelli novecenteschi. Il lavoro da fare, insomma, è di grande portata e di fronte alla sua complessità si potrebbe pensare che la soluzioni migliore stia nell’affidarsi a un novello demiurgo. Nulla di più velleitario. “Le rivoluzioni non possono essere programmate; quando arrivano sono sempre inattese”.10