di Luca Baiada
Amilcare è il gatto di casa, anzi il gatto della città dei libri, del professor Sylvestre Bonnard, accademico di Francia, uomo di immensa dottrina. E la città dei libri è la biblioteca del professore, il nido appartato di una virtù di carta che consola senza scaldare; il luogo dove Amilcare consuma di tanto in tanto il suo banchetto di topi. Amilcare è vero o finto? Questa domanda dimostrerebbe, oltre a una certa insolenza, scarsa dimestichezza col lavoro culturale. Il gatto Amilcare abita le pagine di un romanzo di Anatole France, scrittore vivace come pochi, difensore dei deboli e frequentatore di un nobile socialismo, di quelli che non impediscono le comodità.
Nel nome di questo curioso animale, anzi coi suoi occhi, chiediamoci che vita sia mai, quella delle lettere, del sapere, della memoria, e anche di cosa sappia la vita, in sé; la vita quella che chiamiamo, per brevità, vera. Naturalmente, avendo cura di considerare che Le crime de Sylvestre Bonnard, membre de l’Institut è il primo romanzo di France, e perciò che il nostro giudizio non deve eccedere in severità.
Per me, devo dar conto di come sono arrivato a questo volumetto tenero ma edificante. È complice una citazione di Marc Bloch nell’Apologia della storia, e si stenta a credere che il grande studioso ricordasse così bene la vicenda singolare del professor Bonnard, mentre durante la Seconda guerra mondiale metteva mano al suo saggio formidabile, che avrebbe visto la luce dopo l’assassinio dell’autore. Quando Bloch scriveva stava tramando con la Resistenza, braccato dai nazisti, e bisogna tener presente che proprio quelle condizioni gli ispiravano la migliore autocritica: chi è al massimo dell’intensità della vita, specialmente col rischio di perderla da un momento all’altro, si chiede cosa significhi rammemorare, organizzare le idee, trasmetterne la testimonianza.
Combattere: una condizione ben diversa, dallo zelo chiacchierino degli storici da spettacolo, da televisione, da convegno; come quelli italiani che hanno preso denaro dalla Germania, qualche anno fa, per raccontare le stragi naziste su cui le autorità tedesche non hanno mai permesso la giustizia, né penale né civile, e per confezionare un elenco catalogale di crimini. Gli storici che vogliono cambiare la storia non sono gli stessi che coltivano la memoria da posizioni di potere. Il gatto Amilcare, invece, custode della città dei libri, avrebbe apprezzato l’interesse di Bloch per il suo padrone e per il suo autore, e avrebbe parteggiato sicuramente per uno storico combattente come Bloch, il fondatore degli «Annales», contro i nazisti. Non fosse altro perché, si sa: non esistono gatti-poliziotto.
Diamo la parola all’anziano accademico, a Bonnard, perfettamente consapevole della sua erudizione, del suo talento contemplativo, della sua non vita:
«Che bella notte! Regna con nobile languore sugli uomini e sulle bestie che ha sciolto dal giogo quotidiano, e io gusto la sua benigna influenza benché, per un’abitudine di più di sessant’anni, sia sensibile alle cose solamente attraverso i segni che le rappresentano. Per me al mondo non ci sono che le parole, tanto sono filologo! Ognuno fa a suo modo il sogno della sua vita. Io ho fatto questo sogno nella mia biblioteca, e quando sarà venuta per me l’ora di lasciare il mondo, Dio voglia prendermi sulla mia scala, davanti agli scaffali carichi di libri!».
Non c’è forse tanta squisita eleganza da perdersi, in questa mise en abyme con promessa di salvezza? A parlare è Bonnard, ma in realtà è il giovane Anatole France, e a riconoscersi in queste debolezze sono tutti i gatti da poltrona, abituati a far le fusa ai libri inanellando le parole, terreno più confortevole dello scontro, della vita.
Attenzione, però, perché Bonnard non è un penitente né un asceta. Anzi, è nato ghiottone e tale è rimasto, e per le donne ha sempre avuto interesse. Ce lo dicono le parole in cui trasfigura Clémentine, la ragazza di cui è stato innamorato da giovane, quando la immerge in un ricordo soffuso di dolcezza:
«Il suo incarnato era leggermente rosato e la sua bocca socchiusa sorrideva con quel sorriso che fa pensare all’infinito, senza dubbio perché non tradisce alcun pensiero preciso e non esprime che la gioia di vivere e la felicità di esser bella. Il suo volto brillava sotto un cappellino rosa come un gioiello in uno scrigno aperto; portava una sciarpa di cachemire su un vestito di mussola bianca arricciato in vita e si intravedeva la punta di uno stivaletto mordoré».
Che delizia! La mussola, lo stivaletto – nella letteratura non c’è solo Il diario di una cameriera di Octave Mirbeau, trasfigurato da Bunuel grazie al musino corrucciato di Jeanne Moreau – e il cappellino rosa. Soprattutto scintilla, nei ricordi di un anziano vagheggino dalla testa gonfia di libri, quell’inconfessabile bisogno di sciogliersi che i malati di cultura conoscono troppo bene, al punto che talvolta cercano pace negli occhi di una giovinetta, che sia la Clémentine immaginata da France, o la Manon Lescaut. O persino la Lulu di Frank Wedekind, lei innamorata dell’amore restituito attraverso le lettere: «Si fece spiegare da me l’intreccio di Tristano e Isotta; e con quanta intelligenza l’ascoltava!». Così, ecco l’ammirazione per una leggerezza che vede tutto e non pensa niente, boccone goloso per chi invece ragiona troppo e ha consumato la vista.
Già, però – si chiede, secondo me, il gatto Amilcare – che cosa leggono i grandi mentre fanno cose grandi? Hanno anche loro, piccoli maestri da cui possiamo ancora imparare qualcosa? A me piace pensare Marc Bloch mentre assaggia qualche pagina di Anatole France, perché i pensieri leggeri non sono affatto quelli che scendono meno in profondità, anzi. Gli storici che vogliono mutare il corso della storia esistono, e anche Jean-Pierre Vernant partecipò alla Resistenza; proprio Vernant, in seguito, confidò al cognitivista Jerome Bruner: «Vivere nella clandestinità dava una chiara idea della fragilità di tutte le descrizioni degli eventi, fino a modificare il proprio senso di identità». Certo, Bruner, che durante il conflitto lavorava per gli Alleati alla Psychological Warfare Division e non viveva sotto occupazione tedesca, rischiava meno; questo ci conferma che la psicologia cognitiva non cerca gli imprevisti. Ma anche se è difficile, adesso, in piena società dello spettacolo, rimettere realtà e invenzione al loro posto, si può star certi che non esistono, in Europa, storici in grado di percepire così a fondo il loro senso di identità, come allora; a meno che, si capisce, diano all’identità esclusivamente il significato di appartenenza a una corporazione accademica.
Ma rientriamo fra le pagine del romanzo. Clémentine e la figlia sono morte, ormai. Però c’è la piccola nipote, e l’anziano Bonnard se ne prende cura con un amore commovente, tutto nobiltà e niente corpo, anche se potremmo immaginarlo mentre la sogna, la guarda, magari la spia addormentata. Bonnard incantato da Clémentine avrebbe lo sguardo di Salvo Randone in La parmigiana, quando vuol deporre un bacio sulla pelle di biscuit di Catherine Spaak, ma non sembrerebbe così avido.
Proprio l’amore per la nipote della sua amata di un tempo, fa conquistare a Bonnard la liberazione dalla dorata prigionia intellettuale. Eccolo, il professore, finalmente snebbiato, che pensa a un senso ultimo delle cose, del mondo, un senso che oggi gli storici accoccolati nella televisione, pasciuti ciambellani dell’ora digestiva, non vedono l’ora di cominciare a cercare; lui, Bonnard, riconsidera la sua vita di ricerche sugli scritti antichi:
«Che cosa speravo mai di trovarvi, allora? La data di una fondazione pia, il nome di qualche monaco miniatore o copista, il prezzo di un pane, di un bue, di un campo, una disposizione amministrativa o giudiziaria, questo e altro ancora, qualcosa di misterioso, di vago e di sublime che scaldasse il mio entusiasmo. Ma ho cercato sessant’anni senza trovare questo qualcosa. Anche quelli che valevano più di me, i maestri, i grandi, i Fauriel, i Thierry, a cui si devono tante scoperte, sono morti al lavoro senza aver trovato neanche loro quel qualcosa che, non avendo corpo, non ha nome, e senza il quale, tuttavia, nessun’opera dello spirito sarebbe intrapresa su questa terra. Adesso che non cerco se non quello che posso ragionevolmente trovare, non trovo più niente del tutto, ed è probabile che non terminerò mai la storia degli abati di Saint-Germain-des-Prés».
Vuol terminare la storia di Saint-Germain-des-Prés, povero Bonnard. L’illuso non sa che i percorsi sono sghembi. Fa venire in mente quel narratore che si riproponeva di sfiorare il segreto dei campanili di Martinville e si trovò fra le mani la Recherche, sino a che le ultime pagine gli scottarono le dita mentre si guardava nello specchio. Questi mnemonauti si avventurano senza bussola, e non sanno mai dove vanno a finire. Oppure la bussola ce l’hanno benissimo, ma la nascondono per fare i finti tonti, per civetteria.
A meditare su quel qualcosa che non ha corpo è Bonnard, ma a scrivere è sempre Anatole France, che non si sta ancora battendo per Dreyfus, anche se presto la Belle Époque consumerà la sua lenta agonia e fra una generazione si prepareranno i bagni di sangue del Novecento. France, in fondo, farà qualcosa per mettere mano alla storia, come alle storie, e per cercare di contribuire al nuovo corso dell’umanità. Sapere i fatti o cambiarli? Cioè cambiare quelli futuri, o metter mano a quelli trascorsi, col gusto dell’antiquario che accarezza una statua? Chi si illudesse di far tornare i conti della storia avrebbe meno senno di un membro dell’Accademia innamorato di una ragazzina, ma uno storico che accetta i fatti così come sono, costui vale meno del suo gatto.
La giustizia non è compresa nei programmi dei professori di storia. Ma perché – si chiede il gatto Amilcare – l’accademia ignora il seguito dei fatti, quelli stessi che studia con zelo instancabile? Nel 2021 un tribunale della Corea del Sud ha condannato il Giappone a risarcire i danni alle schiave sessuali delle forze armate nipponiche, e in Brasile si è deciso che si può condannare la Germania per l’affondamento di navigli civili da parte dei sommergibili tedeschi. Comfort women in Asia, marinai inermi silurati dai nazisti nelle acque brasiliane: cose che succedevano mentre Bloch, nei ritagli di tempo del maquis, ricordava un gatto di carta, una biblioteca sulle rive della Senna, un vecchio professore che si strugge d’amore. Gli scherzi della memoria sanno spesso di agrodolce e di gioco di specchi.
Chi studia e basta, consacra il suo tempo alla vita degli altri, porge un dono che non sarà ricambiato. Chissà, se con tanto sforzo ha il dovere di consegnare solo la verità – la verità, nient’altro che la verità, come chi può diventare imputato di falsa testimonianza – , o invece gli spetta il diritto di prendersi una libertà inventiva, che volentieri può travestire da scienza. Bell’inganno, se lo storico fosse, sotto sotto, un letterato crocifisso alla manipolazione delle fonti, e per questo più manigoldo, più dispettoso di un cameriere che intorbida il piatto prima di servire la pietanza.
La questione di fondo – decentrata, appartata come la biblioteca, sorniona come il gatto Amilcare – si coglie nel conflitto fra Bonnard e il giovane Gélis (il fidanzato della sua pupilla, quasi un genero), e riguarda proprio la storia: è scienza o arte? Bonnard: «La storia, che era un’arte e che comprendeva tutte le fantasie dell’immaginazione, è diventata ai nostri tempi una scienza in cui bisogna procedere con metodo rigoroso». Gélis obietta: «In realtà lo storico non dà la sua fiducia a questo o a quel testimone che per delle ragioni sentimentali. La storia non è una scienza, è un’arte e non vi si arriva se non con l’immaginazione». Fa riflettere, che Bloch abbia pensato a questo libro mentre era ricercato dalla Gestapo: la posizione di intellettuale combattente, di uomo che nella storia mette le mani, di sapiente a mano armata, dà alla sua riflessione tutto un altro pregio.
Già, cambiare la storia. Non si fa a colpi di carte bollate, ma le vittime di stragi e deportazioni – erano armi di oppressione di massa, erano le armi che contrastavano quella battaglia epocale in cui combattevano Bloch e Italo Calvino, Antoine de Saint-Exupéry e Franco Fortini – chiedono giustizia da oltre mezzo secolo, e da qualche tempo riescono almeno a intervenire all’inaugurazione dell’anno giudiziario, trovando un ascolto che gli storici non offrono.
Eppure non ha avuto frutto, per ora, la ricerca di verità sull’attivazione dell’Avvocatura dello Stato italiana, nei processi sui crimini di guerra, contro le vittime e in difesa della Germania. Ci sono soglie che il sapere non deve attraversare, neppure il silenzio di una biblioteca basta a nascondere segreti inconfessabili. Il potere preferisce angiporti oscuri, cunicoli, anfratti ombrosi come la cattiva coscienza della narrazione accomodata e della falsa giustizia. Sono i luoghi dove al gatto Amilcare piace appartarsi, ottima riserva di caccia. Naturalmente chi tramava contro i nazisti, con le armi ma anche scrivendo di storia e frequentando buona letteratura, non poteva prevedere che l’Italia postfascista avrebbe nascosto i crimini nazisti; non poteva immaginare che l’Armadio della vergogna sarebbe rimasto a Palazzo Cesi, a Roma, taciuto per mezzo secolo.
Ancora Bloch, nell’Apologia della storia, non ricorda solo Bonnard e la sua città dei libri. Se la prende con la Compagnia di Gesù, che non consente di consultare le sue carte, «in mancanza delle quali tanti problemi della storia moderna resteranno sempre, e senza speranza, insoluti»; e anche con la Banca di Francia che si comporta allo stesso modo, «tanto la mentalità dell’iniziato è insita in tutte le corporazioni».
E il misfatto di Bonnard? È scegliere la vita, donarsi e donarla agli altri. Il dotto vende la biblioteca per far la dote alla fanciulla che ama e permettere che sposi un altro. C’è da dubitare che gli storici italiani, specialmente quelli che hanno partecipato all’operazione riparazionista, abbiano la vocazione del dono, e ancor più che siano pronti al gesto di Bonnard, questa specie di san Nicola che dà all’amore un corpo non suo per sottrarre una ragazza a un misero destino.
Qui devo fermarmi, perché i ricordi di Bonnard comprendono una poltrona appartenuta a un bisnonno. Il professore, parlando col suo medico, si paragona a quella. Come ha ragione! Man mano che la poltrona invecchiava, che negli anni si deformava e si disfaceva, veniva sempre più lodata, al punto che quando venne fatta a pezzi per la legnaia si dissero su di lei grandi cose. Bloch, invece, scrive: «Abbiamo tutti notato che i piccoli piaceri delle anticaglie costituiscono l’origine di orientamenti di studi, divenuti poi, a poco a poco, sempre più seri». Mi piace pensare che la scuola degli «Annales» abbia un debito con Anatole France, e persino coi rivenduglioli, col bric-à-brac. È possibile che l’autore dell’Apologia della storia, mentre stendeva queste righe, abbia ricordato l’ombra della poltrona immaginaria di casa Bonnard, che potrebbe essere il riflesso della poltrona di un bisavolo di Anatole France, oppure del suo bastone da passeggio o chissà, del suo tirabaffi. E visto che io siedo sul divano di nonno Pietro, il mio bisnonno, il mio stesso coinvolgimento in questo tessuto di pensieri parla meglio di me. Non posso, non voglio risolvere questo enigma. Davvero, nessuno terminerà mai la storia degli abati di Saint-Germain-des-Prés.
Meglio lasciarla aperta, la storia. Oppure, meglio ricordare Resurrezione di Tolstoj, un romanzo che era fra le letture formative dei partigiani, intessuto di urgenza di giustizia, di orrore per il potere e l’ipocrisia, e anche di assurdità del vivere e insieme di certezza nella possibilità di un riscatto, nel segno della fede e del coraggio. Il principe Nehljudov, sconvolto ma riscattato dalla verità e dall’amore, anche quello per la povera ragazza che lui stesso ha precipitato nella prostituzione e nella rovina: «Sono pazzo io, che vedo ciò che gli altri non vedono, o sono pazzi quelli che fanno quel che io vedo?».