di Paolo Lago
Come scrive Gianni Celati in Finzioni occidentali, «il romanzesco definisce uno stato d’incoscienza, l’essere fuori di sé come condizione di chi è fuori della famiglia»1. Come esempio, lo studioso riporta il caso di Robinson Crusoe che, nel romanzo di Defoe, per intraprendere la via dell’avventura, ha dovuto opporsi alla volontà del padre e della famiglia, è dovuto andare al di fuori e al di là di essa. D’altronde, già Lukács aveva osservato che il romanzo è la forma dell’avventura, dell’insicurezza di fronte all’ignoto in un mondo dominato dall’assenza di un dio ma pieno, invece, della presenza di demoni, perché «la psicologia dell’eroe da romanzo è il campo d’azione del demonico»2.
Anche Lucien de Rubempré, in Illusioni perdute (Illusions perdues, 1837-1843) di Honoré de Balzac, si reca al di fuori del suo mondo di provincia per immergersi in un’avventura ignota, al di là del proprio orizzonte, nella fagocitante Parigi della Restaurazione, rappresentata realisticamente dallo scrittore come un macrocosmo in continua evoluzione, in perenne movimento, dominato da dinamiche spettacolari. Nel romanzo vi è un’opposizione fondamentale fra l’universo della provincia – Angoulême, in cui il giovane aspirante scrittore può ancora illudersi di essere qualcuno, di poter entrare nelle grazie della nobiltà e nei favori di madame de Bargeton – e Parigi, città tentacolare, imprevedibile, dai mille demonici volti. Questa opposizione che marca nel profondo la struttura del libro di Balzac viene riproposta efficacemente dalla recente trasposizione cinematografica realizzata da Xavier Giannoli, che si concentra esclusivamente sulla parte iniziale e centrale del romanzo. Alle due ambientazioni, rispettivamente, della provincia e della città, sono associati due universi culturali che entrano anch’essi in opposizione: da una parte, l’aspirazione alla poesia, alla scrittura, un apprendistato lungo e segnato da sacrifici; dall’altra, invece, la rapida carriera nel giornalismo, caratterizzato da una scrittura veloce, confezionata su misura per il poliedrico tempo presente. Illusioni perdute di Giannoli rende in modo efficace anche l’opposizione fra questi due mondi.
Il film sembra insistere in modo particolare sull’oggetto libro o, comunque, sull’oggetto cartaceo, fatto per essere letto e sfogliato. Le prime inquadrature mostrano le pagine del libriccino di poesie di Lucien incorniciato dall’ambientazione agreste ed elegiaca della provincia: un fiume e degli alberi in aperta campagna. Lo stesso libriccino tornerà poi in un contesto estremamente diverso, quello parigino, dove il protagonista cercherà di farlo pubblicare da uno dei più famosi editori cittadini, Dauriat. Ma l’oggetto libro appare anche sotto la forma dei volumi che Lucien tiene con sé nella sua stanza: nel buio, è lo stesso personaggio ad avvicinare la candela ai libri e ad illuminarli. Essi rappresentano tutti i suoi ideali, le sue aspirazioni, il motivo per cui si è recato nella grande, fagocitante città: divenire poeta e scrittore. Quei libri che Lucien illumina e che la macchina da presa inquadra in primo piano sono dei romanzi: delle opere, perciò, come abbiamo visto, che rappresentano una fuga verso il ‘fuori’, un’avventura ignota dominata da forze ‘demoniche’ e probabilmente ostili. Essere scrittore di quelle storie avventurose, di quelle composizioni perfette, oltre che poeta dalle tonalità raffinate ed elegiache: è questa l’aspirazione di Lucien.
Il film tralascia un episodio del romanzo di Balzac (ma, come si sa, la trasposizione cinematografica di un’opera letteraria esige spesso dei tagli) che rappresenta il primo ambiente parigino frequentato da Lucien. È il cenacolo dei giovani e spiantati scrittori e intellettuali nel quale viene introdotto da Daniel d’Arthez, il suo primo vero amico. Un gruppo di idealisti che affrontano la miseria e le difficoltà della vita con coraggio e determinazione: «La loro fronte spiccava per ampiezza poetica. Gli occhi, vivi e brillanti, erano indice di una vita lontana dal fango. Le sofferenze della miseria, quando si facevano sentire, erano sopportate con tanta gaiezza, accettate da tutti con tale entusiasmo che non alteravano la serenità di quei volti di giovani ancora esenti da gravi difetti, che non si sono compromessi in nessuno dei vili accomodamenti cui spingono la miseria mal sopportata, la brama di riuscire quando ne mancano i mezzi, la facile bontà con la quale la gente di lettere accetta o perdona i tradimenti»3. Se la «gente di lettere», pronta ad affrontare con determinazione qualsiasi difficoltà pur di raggiungere il suo obiettivo di essere poeta, scrittore o filosofo, è il modello ideale cui aspira anche Lucien, quello dei giornalisti, invece, viene presentato come un mondo cinico e meschino.
È Étienne Lousteau a rappresentare un vero e proprio alfiere di questo mondo, colui che vi introdurrà un angelico e indifeso Lucien. Nel film, infatti, la prima conoscenza parigina del protagonista è proprio Lousteau, dal quale un disincantato Lucien imparerà un altro modo di usare la penna. Non più per scrivere poesie o romanzi ma per scrivere articoli di giornale, soprattutto recensioni di spettacoli teatrali. Il film ci presenta allora l’ingresso del protagonista in una vera e propria – se così si può dire, utilizzando anacronisticamente il titolo del saggio di Guy Debord – ‘società dello spettacolo’. Si tratta infatti di una società in cui la stessa realtà spettacolarizzata viene percepita in forma indiretta e mediata. Le rappresentazioni teatrali che costellano ogni angolo della capitale francese vengono esteticamente filtrate dall’informazione giornalistica: basta una recensione buona per portarle alle stelle, una cattiva per affossarle definitivamente. A dominare questo tipo di società spettacolare è il denaro: gli impresari e le compagnie teatrali fanno a gara a pagare a peso d’oro i giornalisti per avere le recensioni più belle. Poco importa, allora, che nei palchi più alti di quei teatri della Parigi della Restaurazione ci siano conti, baroni e marchesi, i reggitori delle trame politiche, quegli stessi che avevano allontanato il popolano Lucien; quella che conta è la platea, dove si trova la borghesia, dove si trovano i giornalisti e le claque prezzolate. Lucien, rinnegando tutti i suoi ideali precedenti, diverrà una delle penne più temute del mondo del giornalismo, un mondo che, però, saprà tendergli la trappola al momento opportuno. Perché la società dello spettacolo, pure se ante litteram, non ha nessuna pietà per nessuno, nessun ideale da portare avanti, nessun rispetto o considerazione: in essa c’è già, in nuce, la dinamica capitalistica del profitto spietato.
All’oggetto libro, allora, il film contrappone un altro oggetto cartaceo, il giornale, il quale, grazie all’invenzione delle rotative di stampa, può avere una diffusione ampia e rapidissima. La macchina da presa indugia sulle rotative che producono Le Corsaire Satan, il giornale liberale presso il quale verrà introdotto Lucien, mostrandole in continuo movimento, in evidente contrapposizione con le pose statiche nelle quali venivano inquadrati i libri, siano essi i volumi nella stanza del protagonista, sia il suo libretto di poesie. I giornali – caratterizzati, nelle inquadrature del film, da velocità, rapidità, movimento – fanno parte di quel mondo spettacolare ibrido e fluido, probabile antenato della contemporanea società digitalizzata, emblema di un’informazione prezzolata e pronta a distorcere la realtà. L’unico libro inquadrato all’interno del circuito spettacolare dell’informazione corrotta sarà quello di Raoul Nathan, l’autore rivale da stroncare. L’oggetto libro, allora, è nelle mani del recensore, pronto ad essere stritolato dalla macina di una società in cui domina lo spettacolo fine a se stesso.
Di questa ‘società dello spettacolo’ parigina, però, il film ci mostra soltanto gli aspetti più edulcorati dal punto di vista estetico: i teatri, i salotti, le redazioni dei giornali. Il mondo affrescato da Balzac, invece, è a doppia faccia: quella Parigi degli anni Venti dell’Ottocento, fagocitata dal marchingegno spettacolare, viene rappresentata dallo scrittore anche nei suoi aspetti più sordidi, più bui, più sinistri. Ad esempio, le «Galeries de Bois» vengono rappresentate dal film come una specie di mondo incantato, caratterizzato da eleganti giardini dove, accanto alle botteghe dei librai e degli editori (fra i quali vi è anche quella del famoso Dauriat, editore tanto importante quanto corrotto, interpretato da Gérard Depardieu), si trovano ammiccanti prostitute. Le «Galeries de Bois» affrescate nel romanzo possiedono anche un’altra faccia, quella più sordida e truce, che nel film si perde:
Quel sinistro ammasso di fanghiglia, di vetri lordati dalla pioggia e dalla polvere, quei capannoni piatti e coperti all’esterno di cenci, la sporcizia dei muri, quell’insieme di cose che sembrava un accampamento di zingari, un insieme di baracconi da fiera, le costruzioni provvisorie con le quali, a Parigi, si circondano i monumenti che non vengono mai costruiti, quell’agghiacciante fisionomia si adattava mirabilmente ai diversi commerci che brulicavano sotto quella tettoia impudica, sfrontata, piena di voci e di folle gaiezza, nella quale, dalla rivoluzione del 1789 fino alla rivoluzione del 1830, si sono fatti enormi affari4.
L’altra faccia della dimensione spettacolare di un’epoca, dominata dal denaro e da un roboante Ancien Régime, nevrotico e malato, è soltanto un’«agghiacciante fisionomia», uno spettro che passa nelle mani di diversi poteri. In questa dimensione, in questo universo cinicamente funambolico Lucien perde le sue illusioni, schiacciato e accerchiato da una società più forte di lui. Come nota Georges Poulet, in Balzac, di solito compare la dinamica sociale dell’accerchiamento, che prevede che una coalizione sia più potente di un individuo isolato. Ma a volte, però – osserva lo studioso – la società non prevale tanto facilmente sull’individuo: il romanziere può conferire ad esso le giuste potenzialità per passare al contrattacco5. E Lucien, anche se riuscirà a difendersi in qualche modo dai suoi nemici, non riuscirà mai a liberarsi da questo universo contemporaneamente sordido e spettacolare, e dovrà abbandonare le sue illusioni, ormai perdute, impantanate nel fango di un vicolo. Il mondo che di lì a poco emergerà, quello del profitto e del capitale, lascia davvero poco spazio a qualsiasi illusione.
G. Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Einaudi, Torino, 1986, p. 31. ↩
G. Lukács, Teoria del romanzo, trad. it. Garzanti, Milano, 1974, p. 131. ↩
H. de Balzac, Illusioni perdute, trad. it. Editori Riuniti, Roma, 1965, p. 194. ↩
Ivi, p. 232. ↩
Cfr. G. Poulet, Le metamorfosi del cerchio, trad. it. Rizzoli, Milano, 1971, pp. 214-215. ↩