di Valerio Evangelisti (da La Stampa-Tuttolibri del 6 marzo 2021)
Giuseppe Catozzella, Italiana, Mondadori, 2021, pp. 324, € 19,00.
Che fra i briganti meridionali in lotta, nell’Italia postunitaria, contro le truppe del nuovo regno, vi fossero delle donne è noto. Meno noto è che una di esse assurgesse al rango di capobanda. Si tratta della calabrese Maria Oliveiro detta “Ciccilla”, ribelle tra le più pugnaci, dominatrice dei luoghi montuosi e dei boschi della sua regione.
Se ne possiedono i dati sintetici dei rapporti di polizia e degli atti giudiziari. Alle molte lacune rimedia ora Giuseppe Catozzella, autore di romanzi e articoli che hanno avuto solidi riconoscimenti in tutto il mondo. Lo fa integrando la scarna documentazione con un’autobiografia immaginaria della brigantessa (L’italiana, Mondadori, 2012), dall’infanzia colma di episodi infelici al giorno tragico della sua cattura. I fatti salienti sono reali, il resto della storia è invenzione pura e felice.
Da questo procedimento dumasiano avrebbe potuto uscirne un discutibile feuilleton. Catozzella schiva l’insidia rifacendosi, ne sia conscio o meno, a Verga, o a certo Zola; e immergendo i due nei panorami dei monti di Calabria, la cui bellezza risalta in pagine di efficace fulgore descrittivo, talora un po’ sovraccariche. Così il conflitto tra Ciccilla e la sorella maggiore, la crudele e ambiziosa Teresa, che più si prestava a facili svolte di intrigo e semplificazione, si riscatta nel contrasto tra una figlia della terra natale e un’innamorata della vita cittadina, nella triste belle époque finale del Regno delle Due Sicilie.
La storiografia sul tramonto di quel Regno agonizzante ha visto l’affrontarsi di due scuole: quella che giustificava – in chiave spesso critica – l’affermazione della monarchia piemontese come portato storico inevitabile, e quella detta “neoborbonica”, talora di matrice neofascista, che legge il dominio piemontese (e prima garibaldino) in chiave coloniale. Nonché la strage quale costante modo di imporsi della monarchia settentrionale..
Catozzella si pone a cavallo tra le due visioni. Il dominio dei Borbone lo descrive come feudale, oscurantista, poliziesco, di una barbarie male occultata dai successi economici del regno morente e dalle fortune commerciali dei latifondisti. Vittime di ciò le classi subalterne. La plebe bracciantile, in sostanza, non vi conta nulla, e le donne dei braccianti valgono, nel giudizio sociale, ancor meno. Cuore del racconto è come Ciccilla si emancipi da questa condizione in gioventù, ribellandosi alle soperchierie della famiglia, alle insidie feroci della perfida Teresa, alle violenze di un marito brutale che la ama ma vuole addestrarla a una propria dura disciplina. Per poi passare alle armi, quando nella Sila di Ciccilla giunge un nemico inaspettato, scambiato inizialmente per un liberatore.
Garibaldi travolge i borbonici a colpi di bugie, e soprattutto con la promessa di dividere i latifondi tra contadini e operai agricoli. Nel contempo invoca una pace sociale che i possidenti interpretano nel modo a loro più conveniente: si fanno liberali, assumono lentamente il comando di una rivoluzione che avrebbe dovuto rovesciarli. E nel nuovo imperio progressista, specularmente simile al precedente, troviamo ovviamente Teresa, la pessima, opportunista nemica mortale di Ciccilla.
Trascuro gli sviluppi, chiaramente intuibili, che porteranno Ciccilla, che si era da poco scoperta italiana, a farsi brigantessa, fino alla cattura e alla morte. Siamo chiaramente in presenza di un romanzo popolare, lontano dal Gattopardo, ma scritto con stile. È eccellente l’uso che Catozzella fa del dialetto, frequente ma mai fastidioso. Ogni scena è vivida, ogni ambiente credibile. Le personalità sono convincenti, ben delineate. E soprattutto emerge, con qualche ridondanza, la bellezza naturale della Sila, cui Ciccilla appartiene, aggiungendovi la bellezza d’anima sua propria.
Forse la vera Ciccilla non era così, ma quella ridisegnata da Catozzella è destinata a rimanere nel ricordo dei lettori, mi auguro numerosi.