di Franco Pezzini

Ritorno a Hanging Rock, a cura di Emanuela Cocco, pp. 180, € 14,00, Arcoiris, Salerno 2021.

(Per i tipi Arcoiris è uscita da pochi giorni questa bella raccolta di racconti ad avvio di una nuova collana “di letteratura nera, raccapricciante, fantastica, inquietante, fantasmatica”, tReMa, progettata e diretta da Emanuela Cocco. Il testo che segue è la mia Prefazione.)

 

C’è un tempo e un luogo perché

qualsiasi cosa abbia principio e fine…

 

Rivisto oggi, rimasterizzato a recuperare luci e colori caldi che il tempo aveva appannato, Picnic ad Hanging Rock (Picnic at Hanging Rock) di Peter Weir, 1975, resta un film entusiasmante, anche se meno enigmatico di quanto apparisse all’uscita. Oggi sappiamo di un finale omesso (che è possibile vedere anche su You Tube) e di una parte determinante di storia già stralciata dal romanzo-fonte di Joan Lindsay, 1967; e decenni di critica hanno analizzato l’opera, dissodandola scena dopo scena alla luce di chiavi diverse. Proviamo a sintetizzare, con il necessario strabismo con cui dovremmo sempre leggere un film o un romanzo: un occhio all’autore e al suo pubblico originale, un occhio a noi oggi. E un primo passo può consistere nel cercare una chiave classificatoria.

Consultando Wikipedia in data odierna (6 ottobre 2021) troviamo che la versione italiana non ne offre un’etichetta di genere, mentre la pagina inglese parla senz’altro di mystery film, termine sufficientemente generico – tradurre “poliziesco” è già troppo – su un mistero (appunto) che richieda un tentativo di risoluzione, ma senza ulteriori specificazioni.

Visto che Picnic ad Hanging Rock offre la chiave ideale alla bella raccolta che avete in mano, non sembra inutile analizzarne rapidamente gli ingredienti. A partire da quelli cifrati nel titolo: il picnic evoca una situazione piacevole, un’occasione conviviale di gita nella Natura (un picnic suggella la svolta di un’altra storia di fanciulle vittoriane alle prese con l’Altrove, Carmilla di Le Fanu), mentre Hanging Rock (Rocciappesa, Rocciapendente) è una formazione geologica molto suggestiva, circonfusa da leggende di spiriti e memorie dell’antica presenza aborigena, nello stato di Victoria nell’Australia sudorientale.

La storia appunto dell’escursione in loco il giorno di San Valentino 1900 di un gruppo di ragazze da una scuola privata conduce com’è noto al mistero della scomparsa di due di loro e di un’insegnante (una terza allieva verrà trovata dopo giorni, priva di memoria sull’accaduto): ma quell’irruzione di ciò che epifanizza come caos nel mondo in apparenza ordinato dell’istituto vittoriano (caos vs. ordine), eruzione del “male delle donne” (isteria vs. salutismo della gita), contatto delle allieve con una natura indecifrabile (Natura vs. cultura), fiato di un passato arcaicissimo (passato vs. presente), fa esplodere dall’interno la realtà oppressiva dell’istituto. La data della festa di San Valentino suggerisce a tocchi lievi lo tsunami sentimentale, comunque emotivo e in un ultima istanza sessuale nell’ambiente un po’ represso della scuola: e a più riprese torna il tema del sogno, in Australia non esaurito in vaga fantasia ma cifra connotante di uno stato dell’esistenza. Si pensi al Tempo del Sogno della locale cultura aborigena, età mitica originaria richiamata ad alcune formazioni geologiche del territorio – come appunto certe montagne o rocce – e insieme dimensione raggiungibile sciamanicamente appunto attraverso il sonno. A rendere un successivo film di Weir, L’ultima onda (The Last Wave), 1977, una specie di ideale sequel dove la deflagrazione si fa escatologica, chiamando in causa direttamente la cultura aborigena, lo spazio onirico e raggiungendo il mondo della crisi climatica a noi contemporaneo.

In effetti è dopo un sonno e una sorta d’incubatio di fronte alla fenditura superiore dell’Hanging Rock che le tre ragazze spariscono come in trance, e l’insegnante di matematica si sperde (in déshabillé, dice qualcuno) nella confusione alla base del rilievo roccioso, dove almeno un paio di orologi si sono misteriosamente fermati all’ora panica del mezzogiorno; mentre la quarta ragazza che era salita, meno avventurosa e più repressa delle altre, alla loro sparizione nella cavità fugge in preda a un terrore isterico, con urla belluine. Sempre in seguito a un sogno-visione su quello spazio della montagna, il giovane Michael Fitzhubert condurrà il suo giovane aiutante a ritrovare presso la fessura una delle ragazze… e nel finale rimosso dal regista, la dispotica direttrice della scuola si assopirà a sua volta nello spazio incubatorio, finendo malissimo.

Dunque mystery, va bene: ma varie altre categorie potrebbero essere spese per tentare d’inquadrare il film. Alcune antiche, come quella del Sublime, “l’orrendo che affascina”: fotografa la sostanza della vicenda solo in parte, ma può dire qualcosa di certi brividi che sotto la rupe animano la festosa compagnia. Altre legate allo sviluppo cinematografico: non siamo qui distanti per esempio dal sottogenere folk horror che proprio in quegli anni conosce evocazioni fondamentali – si pensi a The Wicker Man di Robin Hardy, 1973 – e vede in scena scioccanti riemersioni di paganesimo in chiave visionaria e sovversiva dell’ordine noto. Tanto più se ipotizziamo a monte qualche retroterra di cultura classica, almeno da parte della narratrice Joan Lindsay: come tramanda Pausania, le Arrefore erano due vergini – come le ragazze che qui spariscono definitivamente nella rupe, ma in realtà più giovani, tra i 7 e gli 11 anni – abitanti per un anno in un luogo dell’Acropoli di Atene non lontano dal tempio di Atena Poliade. In occasione della festa estiva delle Arreforie, le due ricevevano dalla sacerdotessa di Atena una cesta di cui ignoravano il contenuto (un fallo, o forse un suo sostituto simbolico?), per portarlo entro un passaggio sotterraneo naturale nel recinto di Afrodite dei Giardini, sulle pendici dell’Acropoli, lasciarvelo e prenderne un altro, sempre coperto; poi venivano sostituite da altre due vergini. Si sono viste nel rituale dimensioni di iniziazione sessuale, la catabasi quale morte dello stato virginale e l’emersione dal cunicolo sotterraneo di Afrodite come sbocco alla maturità anche fisica. Per altri interpreti, l’iniziazione non sarebbe stata quella tribale “ordinaria” legata alla crescita d’età, ma una misterica (i misteri, del resto, hanno spesso attinto elementi rituali dai riti di passaggio tribali): e in ogni caso si è notata la somiglianza con il mito delle Cecropidi, che curiosando nella cesta affidata da Atena con l’ingiunzione a non guardarvi, trovavano un serpente avvolto attorno al bimbo Erittonio, venivano colpite da follia e si precipitavano dall’Acropoli. Mystery, insomma, non solo e non tanto come enigma poliziesco ma come mistero indicibile di un rito di passaggio, legato a un’età della vita (e in questo senso il film è stato opportunamente avvicinato a uno molto più tardo, Il giardino delle vergini suicide di Sofia Coppola, 1999, ambientato però all’incirca negli anni dell’uscita del film di Weir e che pure abbina inquietudini adolescenziali, greve repressione e fughe infere) o piuttosto all’accostamento a realtà ulteriori.

Il fatto è che presso Hanging Rock il tempo “ordinario” conosce strane perturbazioni (indicativo è l’inchiodarsi degli orologi), forse proprio per lo sghembo reagire con il Tempo del Sogno e insieme con la bolla di non-tempo dell’esperienza iniziatica. Per cui, al di là dell’idea originale dell’autrice del romanzo, che nel capitolo stralciato offriva uno sviluppo almeno in parte razionale, sembra non improprio considerare Picnic ad Hanging Rock come un film fantastico – di quel fantastico che, ricordiamo, è meno un contenuto che un modo di narrare in ossequio a ragioni visionarie, interiori, legate a un certo sguardo sulla realtà. E del resto L’ultima onda, che riprende tale tipo di linguaggio, sarà poi un film compiutamente fantastico. Ovvio, le classificazioni sono utili fino a un certo punto: ma possono offrire qualche suggestione per tentar d’entrare nella fenditura additata da Weir. E magari riceverne suggestioni ispirative.

Letto nell’ambito degli anni Settanta di provocazioni, ribellioni e utopie lisergiche, Picnic ad Hanging Rock è di quelle eruzioni epocali una lettura brillante, equilibratissima, potremmo dire – se fosse un testo scritto – in punta di penna. Un film che assomma così tanti spunti affascinanti, intelligenti, piacioni da spingere un critico acuto come Giovanni Grazzini (Corriere della sera, 19 marzo 1977) a definire tra le lodi Weir – “questo regista galeotto [che] sa vendere la sua merce con la scaltrezza di chi allaccia il pubblico con corde impalpabili” – come “uno stregone di sublime ruffianeria”. L’esplosione estatica dell’oppressivo ordine vittoriano, la ribellione onirica delle ragazze evase nell’Oltre, lo spiazzamento delle categorie occidentali, razionali, istituzionali di controllo sul mondo vengono offerti dal film a un’epoca che sa ben apprezzarli. Laddove oggi a distanza di mezzo secolo, analizzati ormai da millanta punti di osservazione, soggetti a innumerevoli carotaggi, rinfrescati negli straordinari aspetti visivi con un congruo restauro, offrono insieme una festa di bellezza, il tributo malinconico a un’epoca ormai chiusa e il senso amaro di una tragedia che finisce persino col sopravanzare la carica politica dell’apologo.

L’elemento infatti più connotante della storia è in sé l’evento sparizione, tanto più conturbante per quanto attiene (non ce ne voglia la povera insegnante di matematica) le due ragazze. Sappiamo che il numero di sparizioni ogni anno è vertiginoso, sia per motivi privati – gente che, a titolo diverso e non necessariamente tragico, vuole sparire dalla circolazione – sia di dinamiche sociali o politiche (si pensi solo a quelle denunciate dalle Madri di Plaza de Mayo); ma a grandi numeri molte riguardano donne giovani o giovanissime, sul fronte conclamato della cronaca come nel caso nostrano tanto noto di Emanuela Orlandi, o invece per esempio nel silenzio delle infinite vittime di Ciudad Juárez. Sappiamo perfettamente quanta angoscia susciti la sparizione di qualcuno, tanto più di qualcuno che ci sia caro, e ricordiamo discorsi tante volte echeggiati – “Ci facciano almeno ritrovare il corpo”, “Ci fosse almeno una tomba su cui piangere”: dove il dolore illimitato del mancato ritorno, specialmente di chi è giovane, assume i connotati umanamente non sopportabili dell’inavvicinabilità a un resto concreto, fossero anche ossa o ceneri. La sparizione è già in radice metafora della morte; anzi, con un linguaggio che potrebbe piacere alla povera insegnante di matematica del film, è – potremmo dire – una morte al cubo, uno spazio vuoto e un buco nero capace di disarticolare la realtà intorno come l’ordine vittoriano dell’istituto descritto. A partire da dinamiche di tempo: qualcuno sparisce, prima c’era, poi non più e potrebbe riapparire (così accade alla terza delle ragazze) ma la speranza è erosa dall’incedere dei giorni… In questo senso e con il conforto della simbolica di Weir sul Tempo dei Sogni, insieme e più che in un luogo si sparisce in un tempo, da un tempo.

 

E a questo punto possiamo tornare alla raccolta in questione. Dove, nell’ambito di questa nuova intrigante collana di narrativa provocata da spunti cinematografici, sotto la sollecita e visionaria cura di Emanuela Cocco, gli autori si sono confrontati con gli input di Picnic ad Hanging Rock rileggendoli con grande libertà. Cerchiamo di accorparli per filoni.

Senza far torto a nessuno degli autori, due racconti soprattutto si sono avvicinati allo spirito del film – in termini, va sottolineato – di grande originalità. Ipotesi V di Fabio Massimo Franceschelli presenta non solo la storia di una scomparsa “impossibile” nella Roma 1970, ma la devastazione di chi cerca di darvi risposta. Senza derivazioni apparenti, la mente corre ai misteri di un romanzo di ambientazione in gran parte romana, Il fauno di marmo di Nathaniel Hawthorne, dove la gestione del mistero – sparizioni comprese – è evocata con tanta forza onirica da far pensare i lettori a soluzioni sovrannaturalistiche, e l’autore stesso dovrà intervenire a spiegare che no, la sua soluzione non era quella. In effetti quando nel 1977 la Rai ne offrirà una versione sceneggiata, lo renderà una storia di mistero, reincarnazioni e fantasmi alla Segno del comando. E torniamo alla cifra di un  fantastico-imbarazzo (alla Todorov, se vogliamo) che lascia nello spiazzamento e fa ipotizzare il preternaturale senza poter però esser certi di nulla.

Sempre in stretta connessione con lo spirito del film è Memory Hotel di Sergio Gilles Lacavalla, con l’immaginario incontro a distanza d’anni tra due delle ex-giovanissime attrici, e il tragico sviluppo del rapporto un tempo nato tra loro. Qui l’autore ha probabilmente lavorato di fantasia su un dato storico, il clima un po’ malsano sul set che aveva visto le giovanissime esordienti coalizzarsi contro la povera attrice gallese Rachel Roberts, nei panni dell’antipatica direttrice del collegio Mrs. Appleyard, confondendo interprete e personaggio (e spingendola a recitare parte delle scene davanti a una parete bianca, onde evitare le occhiatacce delle ragazze). Ovviamente lo sviluppo del racconto e il tragico finale sono di fantasia.

Altri racconti giocano sul rapporto tra sparizione e crisi identitaria – intesa non nel senso psicologico più comune, ma di quella perturbazione profonda che spesso connota il fantastico. È il caso del suggestivo C’è uno squarcio sulla recinzione lungo la via che taglia il frutteto di Christian Di Furia, sul set di una casa abbandonata che sembra uscire da Vampyros Lesbos di Jess Franco, 1971 (c’è anche una ragazza su un grande divano rosso che si nasconde sotto una coperta e fa pensare alla contessa Nadine di Soledad Miranda – e qui il nesso col film, una storia di donne e manichini che termina proprio con una sparizione e rifrazione identitaria); ma è il caso anche del raggelante Charlotte sulla scogliera di Domenico Caringella, e qui se dovessimo pensare al clima di un film (ma non occorre, il legame non è così stretto) si potrebbe citare L’isola delle demoniache di Jean Rollin, 1974. Sparizione e crisi identitaria, dicevo: nel senso che la persona sparita può essere in realtà la stessa che ne denuncia la scomparsa (per schizofrenia, scissione della personalità, frantumazione della medesima in un effetto-Legione o mille altre fattispecie tra lo psichico e il paranormale) o l’identità terrena che lascia all’abbraccio della desolata madre una proiezione spettrale, un’inquietante presenza.

Tra possessione e deflagrazione psichica si sviluppa un altro racconto molto bello e inquietante, La naturale legge del vuoto di Lucrezia Pei e Ornella Soncini. Qui più che a un film – che dovrebbe battere dalle parti delle pellicole esorcistiche di ambientazione africana – in grazia della citazione dal Fisiologo, si potrebbe pensare a un quadro, La iena di Leonora Carrington, oggetto anche del suo celebre racconto del 1937 La debuttante. Ma in realtà il grido belluino della quarta ragazza in fuga dall’Hanging Rock, e il riferimento del romanzo alla “hyena call of hysteria”, sono spunti sufficienti alla sconvolgente vicenda descritta, dove “nel buio [del cinema, Alice] fu riempita e svuotata”: un’espressione terribile e cruda che può implicare significati diversi, ma reca di fatto avvio a una scomparsa dall’umanità. Avvicinandosi in ciò a un racconto del tutto diverso e struggente, Sparire di Vins Gallico, dove le sparizioni parallele di un padre e di un figlio parlano il linguaggio di una ritrazione dalla vita per il primo, dal dolore e dalla fatica per il secondo.

Non meno belli, gli altri testi sviluppano la provocazione da maggiori distanze, forse sull’onda della convinzione che il modo migliore di rifarsi a uno spunto sia di tradirlo, almeno superficialmente. L’eclissi di Silvia Tebaldi, ambientato a Ferrara, si concentra con grande eleganza formale sulla declinazione cronologica ed esistenziale del tema, tra orologi che si fermano, sparizioni e riapparizioni negli anni, e poi assieme dietro una certa porta;  L’ultimo orco di Matteo Macchia riprende il tema delle sparizione nelle fiabe – alle quali in fondo la storia di Weir si apparenta – tra orchi, cavalieri e bambini perduti; La sparizione di Alessio Mosca di Pierluca D’Antuono evoca con un congruo, obliquo linguaggio un viluppo onirico tra riviste letterarie, indagini di polizia e metamorfosi; Conservazione della specie, di Lucia Ghirotti, narra delle sparizioni parallele di un poveretto e di un pallone in una No Man’s Land attorno a Roma, in un tripudio di tutta una natura sarcofaga. Troviamo qui in scena delle cornacchie, mentre altre e un corvo narratore permettono di richiamare il binomio sparizione/follia, tra frantumi di lettere a Milena e muri sbrecciati, in Una volta io sono scomparso [NOF4 was here] di Sara Mazzini. In un altro racconto con abbondanti concessioni all’onirico e al surreale, Il Decapitato II. Il ritorno dello scrittore senza testa dell’argentino Ariel Luppino, la sparizione è invece parziale – nel senso letterale –, riguardando la sola testa del protagonista.

Con un occhio al cinema su inquietudini boschive, dove l’apparire di un cervo non richiama san Giuliano l’ospitaliere ma presenze ben più stranianti e sinistre, Scivolare di Claudio Kulesko evoca una sensazione di sparire tra incubi di suicidio e disturbanti alterità naturali: sullo sfondo, la riflessione pessimistica del filosofo e scrittore norvegese Peter Wessel Zapffe, non a caso tra gli ispiratori di Ligotti.

Insomma, si fa in fretta a dire sparire: come la materialità della scomparsa nel Picnic di Weir conduceva a una estrema varietà di ripercussioni, così un intero ventaglio di accezioni del termine – materiali o metaforiche – dirama verso un’infinita ricaduta di situazioni estreme, spiazzanti o liminari. Si sparisce perché si muore e qualche volta perché si vuole vivere, ma sempre si tratta di un’esperienza radicale, che impone domande vertiginose e può costringere al confronto col tremendum.

 

Il che ci indirizza a dire qualcosa sul titolo della collana avviata da questo volume. La vita quotidiana ci pone talora davanti a inquietudini grevi, ma è relativamente raro che la paura irrompa in forma pura, con ricadute fisiche sul nostro corpo: il rizzarsi dei capelli descritto dai primi gotici, il tremito neurale incontrollabile, la deflagrazione psicosomatica del terrore presuppongono uno shock a più livelli che di norma – fortunatamente, diciamo pure – ci è precluso.

Il titolo tReMa può ricordarci questo, a partire dal panico assoluto della ragazza fiondata giù da Hanging Rock urlando con voce d’isteria-iena; e richiama in fondo a un’etichetta – letteratura del Terrore – che nel suo sviluppo storico flirtava con lo shock rivoluzionario, ma in seguito sempre meno è stata utilizzata, sostituita più diffusamente dalla dicitura dell’orrore e dal più sintetico termine horror, latino o inglese che sia. D’altra parte, l’indicativo o imperativo tReMa richiama anche il brivido di ciò che può essere soltanto evocato e mai nominato: un’esperienza psicosomatica da antichi misteri, un tremendum che accede a una dimensione esistenziale profonda e trasformatrice. A questa è possibile giungere solo attraverso una crisi delle categorie note, come consumata nell’incubatio delle vergini sotto la fenditura-vulva (hystera in greco è l’utero) che apre alla trance del Tempo dei Sogni. Indicativo o imperativo che sia, prendiamolo come un invito a lasciarci turbare nella mente e fin nelle pieghe del corpo, per cogliere le risonanze che da quell’Hanging Rock emergono: perché la letteratura fantastica non è escapismo e ci permette di sentire, a volte vedere, dimensioni della realtà (individuale o collettiva) altrimenti precluse. Mettiamo il tremito in conto, e lasciamoci iniziare.