di Franco Pezzini
La mia pelle e la tua, intrecciate
Si sfregano
fino a sanguinare, insieme
così il nostro amore scende
più a fondo, fin nelle ossa
nelle ossa e oltre.
Aliya Whiteley, La muta, ed. orig. 2018, trad. di Olimpia Ellero, pp. 217, € 15,50, Carbonio, Milano 2021.
Tra gli aggettivi usati con più rozzezza nella comunicazione quotidiana, epidermico meriterebbe davvero un po’ più di attenzione: trattarlo come sinonimo di superficiale significa ignorare ciò che la nostra pelle veicola, trattiene ed evidenzia. Chiunque somatizzi a livello dermatologico sa che la pelle è una cartina al tornasole di stress e preoccupazioni. Ma la storia è più lunga: la più emblematica e terribile patologia citata nella Bibbia, quella tzaraath che isola dal contesto comunitario e solo per approssimazione – ma senza solidi fondamenti medici – viene tradotto come lebbra, deriva appunto dal verbo tzara, “avere una malattia della pelle”. Gli studi sulla cosiddetta stigmatizzazione o per contro taluni risvolti dermatologici in fenomeni di possessione (specialmente quando, su un versante o sull’altro, non si tratti di truffe – ma talora persino in quei casi) mostrano il peso di tutto un rapporto psicosomatico/“isterico” con la vita interiore, orizzonti del mistico compresi. La stessa narrativa fantastica vi ha giocato pagine indimenticabili, si pensi solo al quadro clinico di Roderick Usher. Se l’abito proverbialmente non fa il monaco ma può rivelare parecchie cose, tanto più l’abito del nostro corpo fisico può parlare: lasciando per esempio turbata la dermatologa sull’ampiezza dell’eczema esplosomi quando avevo perso il lavoro, e comunque rivelando periodi di fatica ed emozioni sepolte – dunque profonde, ben poco epidermiche nel senso corrente – di chi non è uso a esplicitarle in modo più eclatante, in soldoni a sfogarle.
Tali riflessioni mi emergono ripensando allo splendido romanzo in esame, La muta (nel senso del mutare pelle, come i serpenti) di Aliya Whiteley. Da un’autrice una cui cifra connotante è riconoscibile proprio nella visione straniante e provocatoria del corpo e dei corpi, che ammette di amare il rapporto tra corpo & orrore e che d’altra parte scrive anche poesia (e non solo i bei versi d’incipit qui sopra, tratti dal romanzo), a offrire al passo espressivo una peculiare eleganza, ecco una potentissima macchina per pensare: un romanzo – SF, fantastico tout court, thriller… le etichette hanno poca importanza – che in termini di grande visionarietà e profondità affronta di petto il mistero dell’amore e della sua evoluzione nel tempo, fino a una potenziale fine. Nonché una serie di altre suggestioni.
A partire da questa, esplicita nel titolo: l’umanità descritta come a noi contemporanea conosce nel romanzo periodicamente (in genere ogni sette anni) delle complete mute, cioè perde l’intera pelle del corpo. Ciò comporta – emerge – conseguenze diverse da un esemplare umano all’altro, ma in età adulta può condurre a un cambio radicale e magari traumatico di vita, lavoro e persino sentimenti. C’è chi cerca di bloccare o almeno rallentare la muta attraverso la via farmacologica. C’è chi invece, nonostante la muta, sceglie di restare nelle situazioni in cui viveva, almeno se cementate dal tipo di relazione duratura d’affetti chiamata il Legame, anche se qualcosa è cambiato: in ogni caso, toccando la pelle caduta come un involto sottile, sarebbe possibile avvertire gli amori in essa trattenuti, come un profumo o un’eco. Per la delicatezza della materia, le pelli vecchie sono in genere destinate allo smaltimento, ma c’è chi le conserva e chi addirittura le destina a un mercato clandestino e piuttosto torbido – eventualmente sforbiciandone pezzi.
Quando sarebbe iniziato, tutto questo, nella storia dell’umanità? Non ci viene spiegato, ma pare una caratteristica della specie, ucronica o se si preferisce fantascientifica, che sembra connotare l’umanità da sempre, anche se (curiosamente, o forse non tanto) continua a lasciare gli uomini perplessi. L’autrice ha ammesso che nello scrivere aveva il mente il dato scientifico del rinnovo ogni sette anni di tutte le cellule del corpo: e nella cifra della muta ha individuato un’idea tale da permettere di esplorare in forma narrativa intrigante il nostro relazionarci col passato e con le tante vite che via via iniziamo, percorriamo e chiudiamo.
La domanda sottesa, che occorrerebbe rivolgerle ma a cui con prudenza si può offrire una risposta ipotetica, è se anche qui – come in tanta narrativa di genere anglosassone (lei è inglese) – una fonte immaginale sia la Bibbia: fonte sotto testo, quasi sempre, a riconnettere magari a quel Giardino dove tante cose troverebbero inizio. Nel senso che l’umanità qui descritta è figlia della Donna ma anche del Serpente, la bestia per eccellenza capace di muta: il che ricollega in fondo alle arcaicissime mitologie dell’Eurasia, dove il rettile che striscia spesso non è quello velenoso associato alla Morte, ma il serpe nobile e bolso di labirinti e tumuli eroici, il compagno brandito da divinità e loro paredri (come Era, forse una dea-serpente neolitica e la Signora cretese della celebre statuetta, e l’Eracle originario, che i serpenti non li strozzava ma li ostentava fin dalla culla).
Ora, accettando in via ipotetica tale retroterra simbolico (ovviamente nell’ambito di un linguaggio del tutto laicizzato), in un simile Eden alternativo quale sarebbe il peccato originale? Probabilmente il non accettare il passaggio del tempo, il rifiutare le conseguenze della muta altrui: rifiutare il libero sviluppo dell’altro, in nome di un possesso della sua persona. Ovviamente qualcosa che porta molto lontano dal contesto del Genesi, ma stiamo qui lavorando su strutture dell’immaginario. Per riflettere su cosa di noi possa resistere allo scorrere del tempo, e cosa in fondo ci definisca attraverso le trasformazioni/evoluzioni della nostra vita.
Torniamo alla storia. L’ex-militare Rose Allington soffre di SME (Sindrome della Muta Estrema), una malattia rara che rende più frequente la muta e ne esaspera le conseguenze, spingendola a cambiare tutto – relazioni, lavoro, città… – con la comparsa della nuova pelle. Anni prima è stata assunta come bodyguard e insostituibile collaboratrice da un celebre attore, Max Black – strafatto di farmaci come il losco Suscutin per ritardare la muta –, e vivono un’intensissima storia d’amore. Quando all’improvviso Rose conosce una nuova muta tutto crolla, è spinta ad abbandonarlo e cambiare vita. Ma lui, che al passato è ossessivamente legato (al punto da conservare l’intero guardaroba delle proprie pelli cadute) e vorrebbe recuperare quel legame tanto importante, a distanza d’anni va a cercarla per affidarle un’indagine…
Qual è la colpa per cui Gwen Taylor, la successiva bodyguard di Max, condannata a morte dalle patologie indotte dal Suscutin, intende rintracciare Rose e scusarsi con lei prima di chiudere gli occhi? Ma soprattutto (visto che quell’orribile violenza la scopriamo in effetti alla fine della prima sezione del romanzo, cioè le parti I e II narrate da Rose) cosa manca al quadro generale di un’epoca in cui la manutenzione dell’amore è diventata tanto difficile? Seguiremo perciò un secondo narrante, Mik (all’anagrafe Mikhael Gusin, poi divenuto Mikhael Stuck), il più giovane dei favolosi Stuck Six che avevano scelto di vivere una relazione a sei compiutamente condivisa, e coinvolto in un film su di loro diretto da Max (prima che questi si spegnesse a sua volta, per overdose di farmaci anti-muta).
L’anti-Eden a monte di tale storia umana alternativa, con i suoi Adami e le sue Eve che si accoppiano tra loro e col Serpente, e virtualmente ricreato nella casa comune degli Stuck Six metafora di un’utopia, gronda sessualità: quelle pelli distaccate restano un memoriale sensibile di sentimenti e di relazioni, da trattare con pudore. In effetti il romanzo non parla solo di amore e sesso ma anche dei tentativi di controllo dei medesimi e della relativa mercificazione nel mondo in cui viviamo; parla di controlli farmacologici sui corpi che diventano controlli sul profilo psicologico, e delle reazioni popolari contro società farmaceutiche che sperimentano fin troppo disinvoltamente; parla delle violenze – veri e propri stupri psicologici – che, in nome di meccanismi in sé umanissimi ma ovviamente inaccettabili, si può arrivare a perpetrare.
Dove la storia finisce col provocarci: quanto l’amore di cui siamo capaci – come singoli, e in fondo anche come modelli sociali – resta un fenomeno transitorio tra una svolta e l’altra della nostra vita, e quanto invece ha radici profonde in noi? È qualcosa destinato a perdersi con un po’ di profumo sulla nostra epidermide, può essere recuperato dopo fasi di allontanamento? E, in un’epoca come la nostra di amori malati e stalking (in realtà non un fenomeno nuovo, ma in passato impedito dalle catene caricate sulla donna), quanto siamo in grado di non forzare un attaccamento di chi si sente ormai autonomo da noi? In scena nel romanzo è un’intera panoramica di declinazioni dell’amore, da quelle più velleitarie alle più ossessive e tormentate – tutte comprensibili, alcune insane e moralmente ripugnanti –, da quelle destinate a spegnersi ad altre capaci di sopravvivere. La risposta non può che essere individuale, legata a un profilo e a una ricerca personalissimi – anche se inevitabilmente porta a ricadute sociali. Finché i modelli educativi condivisi non comprenderanno anche l’apprendimento del rispetto delle scelte altrui – non solo nel risvolto-limite di evitare di perseguitare e uccidere il partner che ha scelto diversamente, ma parecchi passi prima – staremo ancora confrontandoci con il peccato originale di quell’Eden alternativo.
Poi certo, individuale è il nostro modo di vivere i simbolici sette anni di ogni fase di vita. Le attività, le emozioni da esperire e magari conservare per il futuro (metabolizzate nel nostro profondo o invece tesaurizzate in modo un tantino più ossessivo come quelle pelli), il rapporto con il corpo che invecchia, i rapporti con le persone e – ovviamente – l’amore, gli amori. Che si tratti del Legame cui giustamente possiamo puntare o invece di rapporti con chi (SME o meno) avrà appunto necessità di archiviarci, e dovremo rispettare. Potremo essere accantonati per anni o anche per tutta la vita: fa male ma succede. E riflettervi, per contro, anche attraverso un romanzo bello e appassionante come questo, non può che farci bene.