di Luca Cangianti
Federico Greco, Star Wars. La poetica di George Lucas, La nave di Teseo, 2021, pp. 672, € 20,00.
Un giovane agricoltore di un pianeta lontano riceve un messaggio da due robot: una principessa, prigioniera di un cyborg malvagio, è venuta in possesso della planimetria di una base spaziale dell’Impero dove è custodita un’arma capace di distruggere interi pianeti. Un vecchio saggio sprona il ragazzo a consegnare questa planimetria ai ribelli che si oppongono alla tirannide. Il giovane prima resiste, poi, di fronte all’assassinio dei propri zii, rompe gli indugi e s’imbarca per un’impresa disperata, ma grazie agli insegnamenti del saggio e all’aiuto di alcuni alleati, libera la principessa e distrugge l’avamposto nemico. Tutto qui.
Sembra incredibile, ma il successo di Guerre stellari – una saga di nove episodi che totalizza su Google circa 806 milioni di risultati a fronte dei 169 di “Jesus Christ” e, ahimè, dei 19 di “Karl Marx” – si basa su questa semplice trama.
Federico Greco in Star Wars. La poetica di George Lucas spiega questo fenomeno epocale in un’opera avvincente e documentatissima in cui s’intrecciano narratologia, storia del cinema e psicanalisi. La tesi dell’autore – che conosciamo come regista di opere quali Stanley and us, Il mistero di Lovercraft e PIIGS – è che Guerre stellari sia “la prima, più straordinaria ed efficace trasposizione contemporanea del Monomito di Campbell”, cioè il viaggio dell’eroe: la struttura profonda che innerva tutte le narrazioni umane provenendo dall’inconscio collettivo umano di cui parla Jung. Si tratta di uno schema Separazione-Iniziazione-Ritorno comune anche allo sviluppo individuale che vede il bambino allontanarsi dall’indifferenziato mondo materno. Nella trilogia classica, alla prima pellicola del 1977 seguono quindi il momento del conflitto in L’Impero colpisce ancora e quello del ritorno nel Ritorno dello Jedi, per l’appunto.
Guerre stellari, a detta di Greco, sarebbe l’equivalente contemporaneo dell’epica omerica e della Bibbia; e ciò, nonostante Lucas fosse inconsapevole dell’operazione che stava compiendo. Il suo legame con il famoso storico delle religioni Joseph Campbell è infatti una costruzione ex post predisposta con finalità di marketing. Piuttosto, il regista americano, sostiene l’autore, si è trovato per formazione ed età anagrafica a essere al posto giusto nel momento giusto per incorporare “l’intelligenza collettiva” dello Zeitgeist.
Questa teoria è argomentata nell’arco dei cinque “atti” in cui si suddivide il libro. Come Thomas Kuhn analizzava la professionalizzazione delle discipline scientifiche attraverso lo studio dei manuali che ne sistematizzavano i precetti, similmente nel primo capitolo si analizzano nel corso di tutto il novecento i canoni hollywoodiani per scrivere una “buona storia”. Ne emerge un confronto continuo fatto di citazioni e tradimenti della Poetica aristotelica che si sedimentano nella “struttura conservatrice in tre atti”. Come si afferma in uno di questi manuali, “il primo atto, della durata di trenta pagine, ‘introduce i problemi’; il secondo, di sessanta pagine, si concentra sul ‘Conflitto tra il protagonista e l’antagonista per arrivare al problema apparentemente irrisolvibile’; nel terzo atto, di trenta pagine, ‘l’Azione offre la soluzione al problema’”.
Nel secondo capitolo si offrono al lettore vari esempi che spaziano dall’analisi di classici quali Via col vento, Casablanca e Il mago di Oz; poi nel terzo si affronta la rottura operata, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, dalle opere catalogate sotto l’etichetta di New Hollywood. Mentre l’eroe classico “riconosce il proprio conflitto e agisce per superarlo”, cioè junghianamente “combatte il drago”, l’obiettivo dell’eroe di questa nuova corrente cinematografica è “nominare il drago”, come nei finali aperti del Laureato e di Easy Rider. Ebbene se “George Lucas fu indubbiamente uno degli esponenti di punta della New Hollywood” con pellicole quali L’uomo che fuggi dal futuro e American Graffiti, “fu anche uno di coloro che contribuirono a decretare, della New Hollywood, la fine.” Da questo punto di vista Guerre stellari è un’opera cerniera che sancisce, insieme allo Squalo di Steven Spielberg, il ritorno alla narrativa classica triturando e assemblando postmodernamente generi (western, war movie, film d’avventura, melodramma, favola per bambini, space opera, fantasy, cappa e spada) e riferimenti, di cui si da conto nel quarto capitolo, prima di tirare le somme narratologiche del lavoro nel quinto.
“Nessuno spettatore o nessun lettore di romanzi va al cinema o legge un libro per ascoltare una storia”, afferma Greco nell’ultima pagina del suo saggio. “Si ascolta sempre la propria storia: il successo di una narrazione dipende da quanto essa sappia parlare a chi la ascolta.” La chiave mitopoietica di Guerre stellari sta qui e ci può aiutare a trovare qualche risposta alla raffica di domande, drammatiche e affascinanti, con le quali si chiude il libro: “Quale nuovo eroe popolare nascerà dalle ceneri del virus? Sarà un eroe individualista o collettivo? Servirà a distrarci o a ispirarci? A farci sentire assolti o ad accendere la miccia della rabbia?”
[Il volume sarà presentato giovedì 2 dicembre, ore 18.30, alla Casa del Cinema di Roma. Dialogherà con l’autore Alberto Crespi, critico cinematografico e conduttore di Hollywood Party. Vedi qui.]