di Franco Pezzini
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Anticristi, Re Scorpioni e Perturbanti
Gli anni Ottanta vedono, lo sappiamo, una sostanziale eclissi del gotico. Certo, le mummie reviviscenti non spariscono, tanto più in chiave di commedia o di tentata (e non raggiunta) originalità: Dawn of the mummy di Frank Agrama, 1981, vede in scena oltre all’amico bendato una banda di zombie affamati; sempre nel 1981 José Ramón Larraz presenta la commedia orrifica spagnola La momia nacional; l’anno dopo Time Walker (aka Being From Another Planet, Il viaggiatore nel tempo), USA 1982, infratta un alieno nella tomba di re Tut terrorizzando un campus; il brasiliano O segredo da múmia di Ivan Cardoso, 1982, si incentra sulla ricerca dell’elisir della vita; la modesta commedia fantastica Transylvania 6-5000 (Una notte in Transilvania), USA – Jugoslavia 1985, vede apparire anche una mummia; e a riprendere il tema sono un po’ di all monsters giovanilistici, da “Mummy Daddy” di William Dear su soggetto di Steven Spielberg, 1985, nella serie americana Amazing Stories, a The Monster Squad (Scuola di mostri) di Fred Dekker, 1987, all’assai meno candido Waxwork di Anthony Hickox, 1988 e in qualche carone animato di Scooby-Doo. Non manca una nuova, appannata trasposizione del Gioiello delle sette stelle stokeriano, il modesto The Tomb (La tomba) di Fred Olen Ray, USA 1986, dove Andoheb (ancora lui) è interpretato da John Carradine (ancora lui), ma il protagonista è tale dottor Howard Phillips (come Lovecraft!) cui offre volto Cameron Mitchell.
La ripresa del gotico negli anni Novanta vede però ripescare anche questo tema, anzitutto con la solita nebulosa di film minori: l’episodio “Lot 249” in Tales from the Darkside: The Movie/I delitti del gatto nero di John Harrison, 1990, ispirato al racconto di Conan Doyle; The Mummy Lives (Vendetta eterna) di Gerry O’Hara, 1993, vagamente ispirato a Poe, con Tony Curtis; la commedia musicale horror Monster Mash di Joel Cohen e Alec Sokolow, 1995; l’ennesimo all monsters The Creeps di Charles Band, 1997; il film tv per ragazzi Under Wraps di Greg Beeman, 1997; il non disprezzabile Trance (aka The Eternal) di Michael Almereyda con Christopher Walken, 1998, sul tema bog body, i cadaveri conservati nelle torbiere; un Bram Stoker’s Legend of the Mummy, aka Bram Stoker’s The Mummy, di Jeffrey Obrow, USA 1998, che riprende blandamente la trama di Stoker (Louis Gossett Jr. è Corbeck, Lloyd Bochner figura come Abel Trelawny e Amy Locane come Margaret, Aubrey Morris è il dottor Winchester e Rachel Naples la regina Tera) e avrà anche un modesto sequel di ambientazione messicana (nonostante il titolo Bram Stoker’s Legend Of The Mummy 2 aka Ancient Evil: Scream of the Mummy, USA 2000) diretto dal prolifico David DeCoteau.
Ma del 1998, decisamente più interessante di altri per quanto sempre film minore, è Tale of the Mummy (Talos – L’ombra del faraone) dell’australiano Russell Mulcahy (regista di Highlander – L’ultimo immortale, 1986, ma forse più noto per i suoi videoclip), 1998, dove il cameo di Lee nel preambolo nei panni dell’anziano egittologo Sir Richard Turkel avrà quasi il sapore di un affettuoso richiamo all’antico The Mummy con l’amico Cushing morto quattro anni prima. Di nuovo la cifra è vagamente anticristica, almeno quanto ai topoi di certo filone cinematografico. Dissigillata nel 1948 da un gruppo di archeologi inglesi della spedizione Turkel (che all’apertura prendono letteralmente a sbriciolarsi, Sir Richard morente riesce a far esplodere la grotta), la tomba maledetta di Talos viene riscoperta dalla missione del professor Marcus (Michael Lerner), mezzo secolo dopo, in cui figura una nipote dell’archeologo, la bellissima Sam Turkel (Louise Lombard), grazie al diario del nonno. Nell’operazione di riapertura, con dettagli concitati e poco chiari – ma tant’è… – perde tra l’altro la vita l’archeologo Burke (un Gerard Butler a inizio carriera). Mesi dopo a Londra, mentre un allineamento di pianeti fa speculare sul Giorno del giudizio, l’esposizione dei reperti della spedizione al British Museum vede – ovviamente – l’inizio della mattanza: a uccidere non è però una mummia in senso proprio, bensì un’entità pneumatica che epifanizza come convulso e mostruoso viluppo di bende. In qualche caso queste modellano un gigante incorporeo, e a un certo punto lo sparo con un fucile vi apre uno squarcio da cui passa la luce, a palese citazione dei vecchi manifesti de La mummia con Cushing & Lee.
Alle vittime (un custode del museo ma anche varie persone senza nesso tra loro, in giro per la città) vengono strappate parti anatomiche: gli occhi, i polmoni, la ghiandola pituitaria, il fegato… Intanto un membro della seconda spedizione, Bradley Cortese (Sean Pertwee), molesta la dottoressa Claire Mulrooney (Lysette Anthony), spiegando che il responsabile delle morti è Talos, che può reincarnarsi all’allineamento di certi pianeti, e porta con sé la fine del mondo: ovviamente proprio Cortese verrà sospettato dalla polizia, che cerca di arrestarlo, ma sfugge cercando aiuto nella sensitiva Edith Butrose (Shelley Duvall). Verrà arrestato mentre cerca di uccidere Sam, e racconterà la storia di Talos al detective Riley (Jason Scott Lee). Talos non era un egizio ma un greco in esilio per i suoi riti neri e venuto in Egitto, dove era riuscito a farsi amare da Nefriama, figlia del faraone, istituendo riti sanguionosi. Il faraone, anche a seguito di pressioni dall’estero, s’era infine risolto a far uccidere lo stregone responsabile di tali infinite nefandezze: ma la figlia, informata, ne aveva parlato a Talos. Arrivando a catturarlo, le guardie avevano trovato Nefriama che mangiava il cuore di Talos: lui aveva spinto i discepoli a ingerire i suoi organi. Anche lei dunque era stata giustiziata con gli altri seguaci del profeta nero: le vittime della mummia sono appunto le reincarnazioni dei mangiatori di organi originali (tutte assiepate in Londra, non è chiaro perché), lui ora semplicemente li recupera da loro. Per questo Bradley voleva uccidere Sam: lei è la reincarnazione di Nefriama…
I pianeti vanno verso l’allineamento. Talos penetra nella cella e uccide Bradley e un poliziotto. Sam, che nel frattempo ha avuto uno scambio passionale con Riley, viene attaccata poco dopo, e cerca invano di difendersi col fuoco. Viene rapita e appesa da qualche parte.
Allora Riley, dopo aver dato le dimissioni dalla polizia (la sua antipatica responsabile, il capitano Shea, è nientemeno che la carismatica Honor Blackman) partecipa a un rito della sensitiva Edith assieme alla riottosa Claire e al professor Marcus: sottratto il cadavere di Bradley, lo utilizzano per un rituale onde ritrovare Sam. Il cadavere levita, grida, si contorce e attraverso un graffito sul soffitto li indirizza dove Sam potrebbe essere prigioniera, un cantiere incompiuto.
Sam riesce a liberarsi, e trova una sorta di gigantesca crisalide o utero di bendaggi putridi con attorno i cadaveri delle vittime di Talos: ma mentre guarda, quel grembo si squarcia e con il liquido amniotico contenuto cade al suolo una creatura orrenda non completamente formata – le manca ancora il cuore. Lo shock è tale che Sam scivola all’indietro e perde i sensi. Li riprende trovandosi davanti la creatura, semiumana ma con zoccoli caprini (simbolicamente comprensibili in chiave anticristica): lei lo chiama infedele e lui le strappa un disgustoso bacio. I pianeti si stanno allineando…
Nel frattempo arrivano i nostri, per modo di dire: Marcus viene spinto psichicamente da Talos a strozzare la sensitiva col suo stesso amuleto, e poco dopo Claire (plausibilmente dominata a sua volta) lo uccide con un bisturi. Riley finalmente trova Sam, legata su una croce: compare Talos, ma i proiettili dell’ex-poliziotto lo lasciano indifferente. Lei allora chiede a Riley di spararle, ovviamente al cuore per renderlo inutilizzabile, però – sorpresa – la reincarnazione di Nefriama non è lei (che muore impiombata) bensì lo stesso Riley: Sam è stata utile ad attirarlo nel posto giusto al momento giusto. Claire appare, succube, e estrae il cuore di Riley che Talos infila nel proprio petto mentre i pianeti si allineano. Talos prende forma compiutamente umana e, mentre Claire si sacrifica assumendo il ruolo di assassina e viene portata via dalla polizia, scopriamo che si è mutato in Riley. Ruggisce verso gli spettatori e si allontana verso il Big Ben…
Tale of the Mummy ottiene comunque un successo modesto, tanto più rispetto al vero evento, cioè quel The Mummy (La mummia) di Stephen Sommers, 1999, che inizia una nuova saga Universal con Brendan Fraser e (nei primi due film) Rachel Weisz. Seguiranno infatti l’anche più divertente The Mummy Returns (La mummia – Il ritorno) dello stesso Sommers, 2001, e l’assai più deludente The Mummy: Tomb of the Dragon Emperor (La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone) diretto stavolta da Rob Cohen, 2008. Se The Awakening era una trascrizione in chiave mitologica delle crisi del modello famiglia, la saga di Sommers ne celebra invece in modo fantasioso, visionario e divertito, ma anche un po’ iperglicemico e trionfalistico, i fasti e le gioie. In un sabba di effetti speciali, vediamo come la famiglia perfetta nasca dall’innamoramento dei due protagonisti (The Mummy, ambientato mel 1923), si sviluppi con l’arrivo di un figlio (The Mummy Returns, nel 1933) e conosca fasi ulteriori alla sua crescita (The Mummy: Tomb of the Dragon Emperor, nel 1946). I topoi classici ci sono tutti: troviamo un cattivo dai grandi poteri (Arnold Vosloo), chiamato Imhotep come nel film del 1932 – anche se il paragone con l’immenso Karloff è impossibile – e l’amante causa della sua rovina, qui chiamata Anck-su-Namun (Patricia Velásquez); c’è la setta cattiva dei suoi seguaci e la “setta” buona, i Medjay eredi delle antiche guardie del corpo del faraone Seti I; ci sono effetti speciali piuttosto impressionanti e trovate di indubbio divertimento.
Certo, laddove per molto tempo il cinema di mummie reviviscenti aveva offerto la possibilità di una messinscena mitizzata di idee, metafore e simboliche del controllo, l’adeguamento della formula all’avventura per famiglie con profluvio di effetti speciali (sulla scia, va detto, di una saga ben più significativa in tema di fantasie archeologiche, quella di Indiana Jones), attraverso vicende sparigliate negli anni e la contrapposizione con vilain più o meno irrigiditi, propone anche in termini di trama un affresco stavolta sereno. A differenza del Banning di Cushing rigido quanto la Mummia/Lee, questi scatenati epigoni non appaiono bloccati né sul piano delle ipoteche generazionali né sull’altro connesso delle dinamiche affettive tra coniugi: le patologie del controllo, insomma, non riguardano loro ma i vilain, a proporre agli spettatori personaggi privi di ambiguità e simpaticamente, vitalmente positivi – il che ovviamente fa un po’ perdere l’aspetto critico dell’apologo per puntare sul “modello” da proporre.
Mentre resta il gioco con l’archeologia: nel film del 1932 gli echi della scoperta nel 1922 della tomba di Tutankhamon, di cui lo sceneggiatore Balderston aveva seguito l’apertura della tomba per il New York World (lì e poi ancora nel 1999 l’amata di Imhotep, a sua volta personaggio virtualmente storico, si chiama Ankhesenamon, come la moglie di Tutankhamon); in The Mummy Returns la scoperta recente (1988) che nell’Egitto predinastico intorno al 3200 a.C. aveva regnato Hedj Hor o Re Scorpione I (ce ne sarà anche un secondo). Godibili effetti speciali renderanno un punto di forza del film proprio il tema dello scorpione – si pensi al duello visionario tra Brendan Fraser / Rick O’Connell e il Re Scorpione Mathayus di Akkad, in forma ibrida metà-scorpione, metà-umana (l’interprete è lo statuario wrestler Dwayne Douglas Johnson in arte the Rock) – e, in grazia del patto faustiano da lui stipulato con il dio a testa di canide, l’immagine dell’Armata di Anubi, un imbattibile esercito di guerrieri con la testa di sciacallo. Il Re Scorpione apparirà anche autonomamente in vari seguiti in costume (The Scorpion King di Chuck Russell, 2002; The Scorpion King 2: Rise of a Warrior di Russell Mulcahy, 2008; The Scorpion King 3: Battle for Redemption di Roel Reine, 2012; The Scorpion King 4: Quest for Power di Mike Elliott, 2015; Scorpion King: Book of Souls di Don Michael Paul, 2018), fantasy più o meno stiracchiati.
Altro punto di forza dei primi due film è offerto dalla presenza ironica e scintillante di Rachel Weisz come Evelyn Carnahan in O’Connell, archeologa delicatamente pasticciona nel primo film e madre/combattente nel secondo: saggiamente l’attrice, pur tornando in Egitto per il biografico Ágora (Agora) di Alejandro Amenábar, 2009, sulla vita romanzata della filosofa e scienziata greca-alessandrina Ipazia, si guarderà bene dal figurare nel fumettone iperveloce e poco divertente La mummia – La tomba dell’Imperatore Dragone del 2008, e verrà sostituita nella parte da Maria Bello (che però non ha il suo maliconico e distratto carisma). Lì cambia il set, che si sposta in Cina con la resurrezione del primo sovrano Qin Shi Huang e del suo esercito di mummie identificate (l’idea in sé è brillante) nel celebre esercito di terracotta…
Nel frattempo sul tema sono usciti altri film, ma l’unico davvero degno di nota per originalità, intelligenza e ironia surreale (con un po’ di malinconia aggiunta) è Bubba Ho-Tep (Bubba Ho-Tep – Il re è qui) di Don Coscarelli dall’omonimo romanzo (scusate se è poco) di Joe R. Lansdale, 2002: all’ospizio, un ormai cadente Elvis Presley che tutti scambiano per un semplice impersonatore (Bruce Campbell, bravissimo) fa lega con un vecchietto di colore che si crede JFK (Ossie Davis) per fronteggiare una Mummia reviviscente (lo stuntman Bob Ivy).
Non manca però una quantità di film – soprattutto ai nostri fini – di limitato interesse: la garbata commedia The All New Adventures of Laurel & Hardy in ‘For Love or Mummy’ di John R. Cherry III e Larry Harmon, 1999, basata sui corti di Laurel & Hardy (interpretati da Bronson Pinchot e Gailard Sartain), alle prese qui con l’ira di una mummia; Evil unleashed di Joe Castro, 2003; The Mummy’s Kiss di David F. Glut, 2003; Attack of the virgin mummies di Daryl Carstensen e Andrew Schrom, 2004; Legion of the dead di Paul Bales, 2005; l’ironico The kung fu mummy di Randy Morgan, 2005; Legion of the Dead di Paul Bales, 2005; Ancient Evil 2: Guardian of the Underworld di D.W. Kann, 2005 (sequel del già minimo Bram Stoker’s Legend Of The Mummy 2, di David DeCoteau); The Curse of King Tut’s Tomb di Russell Mulcahy, 2006; la trilogia avviata nel 2007 da Mil Mascaras vs. the Aztec Mummy di Andrew Quint (Jeff Burr) e Chip Gubera con il wrestler messicano Mil Máscaras (continua con Academy of Doom, 2008, e Aztec Revenge, 2015); Petrified di Charles Band, 2006; Blood Scarab di David F. Glut, 2008; il pur gradevole Les Aventures extraordinaires d’Adèle Blanc-Sec di Luc Besson, 2010; Monster Brawl, commedia all monsters di Jesse T. Cook, 2011; la commedia The Cabin in the Woods di Drew Goddard, 2012; il visionario Prisoners of the Sun di Roger Christian, 2013; The Pyramid di Grégory Levasseur, 2014; Day of the Mummy di Johnny Tabor, 2014; The Mummy Resurrected di Patrick McManus, 2014; la commedia Monster Family (aka Happy Family) di Holger Tappe 2017; e tutto questo senza citare le apparizioni della mummia Murray della saga a cartoni animati Hotel Transylvania (al momento tre film usciti, 2012-2018 e uno in arrivo per il 2022).
A oggi l’ultima parola in tema di narrazioni mummiesche è il The Mummy di Alex Kurtzman, 2017, che netta un po’ il tema dagli eccessi glicemici e dai toni familistici della saga di Sommers con un reboot marca Universal. Per capire il senso dell’operazione, l’idea era di avviare il nuovo media franchise e universo cinematografico Dark Universe della Universal, dopo il penoso risultato di Dracula Untold di Gary Shore, 2014 (un film nel complesso inutile, con un clamoroso miscasting fin dalla scelta di Luke Evans nei panni di Vlad Dracula). Ma l’insuccesso anche de La mummia ha condotto alla cancellazione del progetto Dark Universe.
In quest’ottica si capisce comunque la stramberia grottesca di inserire nella storia della mummia reviviscente anche Russell Crowe come Henry Jekyll / Edward Hyde, e in più fantasmi ciarlieri e una società segreta dedita alla lotta contro il male: se questi particolari – che nella vicenda hanno un certo peso – fossero stati evitati, il film ne avrebbe senz’altro guadagnato. Emblematico comunque che il sepolcro dell’antieroina Ahmanet (Sofia Boutella), la simil-Tera che vende la propria anima a Seth e finisce mummificata viva, venga collocato in Mesopotamia: i nuovi incubi affondano le proprie radici mitiche in Iraq e zone circostanti, assai più che in Egitto. In realtà la carica insieme erotica e cadavericamente repulsiva del trucco caricato addosso (i grafemi sulla pelle, le labbra livide, le stesse catene) alla bella Sofia Boutella, il suo arcaico potere elementale e la furia che in lei sedimenta sono i maggiori punti di forza del film (dove il protagonista Tom Cruise incassa il ruolo di peggior attore). Tra possessioni da parte di Seth, tempeste di sabbia in piena Londra, reviviscenza di cavalieri crociati, la sensazione è però di una giostra dove vince chi la spara più grossa: pessimo punto di partenza per il progetto Dark Universe, che un minimo di serietà doveva averlo. D’altra parte, congedarci dalle mummie revivescenti attraverso il profilo suggestivo di Ahmanet salva la dignità del tema.
Va però detto che, anche senza mummie, culti egizi o a essi simbolicamente assimilabili emergono con il loro potere suggestivo in una pletora di film, dall’archetipo splatter Blood Feast di Hershell Gordon Lewis (1963), allo psichedelico Ombre roventi di Mario Caiano (1970) con tormentatissime e anzi tragiche vicende fuori dal set, dal geniale Dr. Phibes Rises Again (Frustrazione) di Robert Fuest, 1972 con Vincent Price a Young Sherlock Holmes (Piramide di paura) di Barry Levinson, 1985, e in fondo fino al recente Gods of Egypt di Alex Proyas, 2016 (con Gerald Butler nel ruolo di Seth). Per contro la funzione perturbante del corpo strettamente fasciato e immobile dell’antica principessa già evocata da Stoker riemerge con potenza in un’icona solo apparentemente distante in una sorta di mix con l’Ophelia shakespeariana, la fatale Laura Palmer interpretata da Sheryl Lee nel Twin Peaks di Mark Frost e David Lynch (1990-1991, 2017): lo scavo lì riguarda i misteri di una piccola comunità, e il Perturbante di un corpo attorno al quale fermentano ossessioni e possessioni, incesti e perversioni, fin nel grembo di famiglie che credono di conoscersi da sempre.
Il che ci conduce alla fine di questa carrellata con qualche inevitabile domanda. Emerso sulla scia delle grandi scoperte archeologiche in Egitto e del sedimentare nell’immaginario popolare (soprattutto americano) di una serie di suggestioni nutrite di esotismo e di Bibbia, il filone cinematografico sulla Mummia è ancora in grado di interpellare gli spettatori? Siamo ancora in grado di cogliere l’impatto di un certo tessuto simbolico sottostante? E il profilo di questo mostro “classico” – uno degli “orribili quattro”, come li chiama Fabio Giovannini in un bel saggio di qualche anno fa (Mostri. Protagonisti dell’immaginario del Novecento da Frankenstein a Godzilla, da Dracula ai cyborg, Roma, Castelvecchi, 1999) – veicola ancora dimensioni simboliche capaci di provocare quanto (in misura diversa) i suoi tre colleghi Dracula, creatura di Frankenstein e Uomo Lupo?
Potremmo dire sì e no, perché il problema è quello delle forme del mostruoso, che sono fortemente condizionate da tutta un’evoluzione dell’immaginario nel tempo. Come scriveva Seneca in Fedra, “Perché arrestare la generazione dei mostri?”: la produzione non è mai cessata dall’alba dell’umanità, e ogni epoca arricchisce e rinnova il parco-mostri. Per quanto riguarda il suo specifico profilo, è ovvio che la Mummia ha perso punti: non perché il suo sembiante non possa impressionare a tutt’oggi, ma perché l’ipotesi che possa andarsene a zonzo va a pescare in un bacino di suggestioni che ci paiono ormai un po’ logore – tanto più avendo perso, a livello collettivo, la percezione di tutta una serie di implicazioni simboliche (il nesso Egitto-Bibbia, per esempio). Nei fatti una serie di suggestioni veicolate dalla sua figura sono traghettate con impatto più forte sulla nostra sensibilità contemporanea grazie ad altri profili: per esempio lo zombie, come la Mummia un ex-essere umano un po’ rigido, e in fondo meglio collocabile nei supermercati delle paure di una società massificata. Mentre le suggestioni di orrori dal profondo della storia e magari dell’archeologia trovano incarnazione oggi più soddisfacente in altre saghe di religioni e sette, magari in riferimento al fronte paracristiano di antiche profezie ed emersioni anticristiche o demoniache. In questo senso la Mummia reviviscente appartiene più alla storia dell’horror che a una sensibilità odierna, ed è indicativa la tenerezza che piuttosto ci suscitano certe sue comparsate. Più che la mummia minacciosamente muscolare ci inquieta semmai quella di un corpo sensuale, perturbante e dotato di disturbanti attrattive, come nella Tera stokeriana. Mentre per la letteratura degli ultimi decenni è interessante vedere quale tipo di operazione conduca per esempio Gianfranco Manfredi appunto a proposito della Mummia in quel vero e proprio trattato virtuale di teratologia che è la sua saga di Aline e Valcour (in particolare nell’avventura Tecniche di resurrezione, Gargoyle Books, 2010).
Eppure non dovremmo archiviare troppo facilmente questo archetipo. La maschera irrigidita, goffa e letale insieme, di un passato che non passa quando dovrebbe essere morto e sepolto, un passato la cui riemersione è possibile per lo sciagurato e improvvido ricorso a magie di controllo, è in fondo estremamente calzante per descrivere dinamiche sociali, politiche, a volte istituzionali che tutti conosciamo. Qualcosa insieme di miserevole e distruttivo, crudele e tragico, paludato di fasti più o meno smaccati e ipocriti, e supportato magari da un sottobosco di manipolatori: una forza di metafora che la dice lunga sulla potenza del linguaggio horror e sulla sua scomodità nei confronti di ogni agenzia di potere.