di Giovanni Iozzoli
Francesco Migliaccio, La Venere degli stracci. Miseria, rivolta e potere nella città post-industriale, Monitor Edizioni, Napoli 2021, pp. 155, € 15,00
“Sono convinto che il Balon sia un universo di mondi sparsi, ogni venditore è un mondo. Anche le merci sono sparse in disordine come mondi in un sistema senza gravità. Impossibile una ricerca quantitativa, sociologica: il Balon è l’immagine del disordine. Allora non ha nessun senso fare discorsi complessivi, o analizzare la situazione politica, ma possiamo solo smarrirci tra oggetti sparsi alla rinfusa sulle stuoie. Gli straccivendoli hanno il diritto di stare nel quartiere, la loro è una lotta di giustizia, ma noi non possiamo ricondurre questa lotta a nessuno schema, possiamo solo appoggiarla nel disorientamento pieno di stupore dove non stiamo capendo nulla”. (pag. 53)
La Venere degli stracci è un piccolo prezioso racconto sociologico, ispirato ai fatti reali accaduti intorno allo storico mercato del Balon di Torino. Prezioso perché riesce ad evocare una gran quantità di temi e suggestioni – la dialettica decoro/degrado, la gentrificazione incalzante, le nuove forme di governo dei territori urbani – solo attraverso la forza della testimonianza, della presenza solidale, della narrazione delle vite concrete senza le quali queste tematiche sarebbero materia amministrativa o statistica. In questo modo, la vicenda apparentemente marginale di un mercatino di straccivendoli, può suggerire elementi di una cartografia delle dinamiche, dei poteri e dei conflitti di una moderna città europea.
Migliaccio delinea bene – attraverso le trasformazioni del marcato del Balon, che raccoglieva l’eredità degli storici mercati torinesi degli straccivendoli –, interessi e ideologie che si celano dietro la retorica della riqualificazione e del “contrasto al degrado”. Nel perseguire questi obiettivi, si inventano sempre nuovi strumenti di governo dei territori e dei processi, all’insegna di una tendenza post-democratica e neo corporativa. Interessante è in particolare la creazione delle “agenzie di sviluppo” (l’autore cita The Gate, che gestirà la trasformazione dell’area tra Borgo Dora e Piazza della Repubblica) definite efficacemente:
organi intermedi , uno strumento di intervento agile e un collettore di ulteriori fondi nazionali ed europei. Il Consiglio direttivo di The Gate è controllato dai principali attori che governano il quartiere: la città di Torino, la Compagnia di San Paolo e la Camera di Commercio. Dal 2002 al 2006 Ilda Curti dirige The Gate e poi ne assume la presidenza per il decennio successivo. Nel medesimo periodo Curti è assessore alle politiche urbanistiche e di integrazione nelle due giunte progressiste. The Gate e la sua principale dirigente mi paiono emblemi d’una zona grigia di governo: là dove le ragioni private mischiano le acque con l’azione pubblica (pag. 16)
Quindi, la gestione dei piani di trasformazione dei quartieri strategici – in una grande città post-industriale – viene delegata ad organi burocratici spuri, in cui pubblico e privato si intrecciano pericolosamente, delineando una nuova governance tecnica, apparentemente asettica e inclusiva, centrata in realtà solo sugli attori economici forti e sui loro interessi.
L’area interessata, negli anni, subirà una torsione progressiva: il vecchio Balon cambia pelle, diventa “una fiera dell’antiquariato, ideale edulcorato di un mercato delle pulci”. La vicinanza, sia pure in aree separate, con il vecchio mercatino povero del riuso, si rivela sempre più critica, il “degrado” rappresentato da merci e venditori poveri, che sporcano le nuove velleità del quartiere, deve essere liquidato:
Per realizzare questo intento i commercianti di via Borgo Dora hanno richiesto l’allontanamento dei venditori poveri dal canale Molassi. Il desiderio d’esilio è razionale nel disegno di una mutazione: cambiano le merci (più costose e pretenziose), i supporti (escluse le stuoie ci sono solo banchi), i venditori, il pubblico (il passante che ama le atmosfere antiche sostituisce cittadini alla ricerca di oggetti utili, vagabondi, teppaglia urbana). Questa scommessa sembra coerente con gli sgomberi delle occupazioni nel quartiere, gli sfratti, l’apertura del Mercato Centrale e dell’ostello di lusso, il sogno di una Porta Palazzo amata dai turisti. Quando i pezzi di un mosaico sembrano aggregarsi in una figura unitaria, tuttavia, il compito dello sguardo critico è cogliere i vuoti, le incongruenze, gli anelli che non tengono. (pag. 22)
Quindi i mercatini, le fiere antiquarie diventano una sorta di rappresentazione spettacolare del “pittoresco”, dell’anima antica di una città e di un quartiere, un allestimento scenico ad uso del cittadino borghese e del turista. Il vecchio mercato delle pulci, autentico ponte tra un passato remoto e un futuro complicato, non rientra in questo schema.
Una delle variabili che intralciano i progetti, a Torino, è la resistenza degli ambulanti poveri del Balon. Se la “riqualificazione urbana” di cui si ciancia nei consigli comunali, consiste preliminarmente nell’espulsione dei poveri da aree urbane da valorizzare, l’opposizione a questa cancellazione, al non riconoscimento della propria esistenza, diventa una fonte importante di narrazione e di analisi. Qui l’autore è molto abile nell’intersecare, dentro la descrizione dei processi sociali, le traiettorie di vita di tanti protagonisti reali, che rappresentano il “controcanto” vivo e desiderante, delle algide ordinanze amministrative: soggettività nomadiche che non esprimono solo sofferenza sociale, ma anche creatività, gioia e vitalità. Uomini, donne, bambini, carne, sangue, storie – quasi tutte assai complicate – che reclamano un posto nella storia e non accettano di essere accantonate o considerate spazzatura urbana da rimuovere.
Il racconto della mobilitazione è avvincente: un pugno di straccivendoli e un po’ di solidali, che con la loro mera presenza ostacolano il ridisegno urbano di un area strategica del centro di Torino. Resistenza, solidarietà, tradimenti e nobiltà, vengono raccontati in prima persona dai protagonisti, che solo apparentemente sono “scarti metropolitani” – rappresentando più che altro figure incompatibili o riottose alla disciplina del lavoro salariato, a cui provano a sottrarsi mediante il modestissimo commercio del riuso.
La parte propriamente narrativa del libro merita di essere letta, quanto quella più analitica; l’empatia per le vite degli altri, porta l’autore e a penetrarle senza giudizio e a descriverle in modo accattivante. Questo intreccio di stili e finalità – l’incontro tra biografie personali e collettive – è diventato il marchio di fabbrica delle edizioni Monitor. Nata come rivista cartacea, osservatorio privilegiato della piazza sociale napoletana, Monitor è andata negli anni rinnovando il suo progetto, anche sul piano generazionale, diventando una piccola, agguerrita casa editrice, snodo di idee e dibattito, ormai di respiro sempre più nazionale.