di Franco Pezzini
(qui la prima parte del testo)
La Seconda Parte del “Velo dissolto” (il racconto si presenta come un dittico) inizia con il fidanzamento di Alfred e Bertha. Latimer vi assiste diviso tra l’attrazione per la bella fata acquatica e il ricordo terribile della visione di un futuro tristissimo al fianco di lei.
L’auto-commiserazione aveva toccato in me quella vetta di intensità che trasforma le nostre emozioni in un dramma imposto alla contemplazione, e versiamo lacrime non su un dolore autentico, ma su una certa idea del dolore. Provavo una sorta di pietà angosciata per il pathos della mia persona, una persona così bene organizzata per soffrire, ma in cui quasi nessuna fibra sapeva reagire al piacere: l’idea di una disgrazia futura mi privava della gioia presente, e l’idea di un bene futuro non placava l’ansia dell’incertezza presente. Percorrevo in uno stato di intontimento quella fase delle sofferenze di un poeta, durante la quale egli avverte la spasimante necessità di esprimersi e trasforma in immagini le proprie pene.
Tutto ciò mentre Alfred, con “accondiscendente cordialità” osserva quale peccato sia che il fratello non si goda “una bella galoppata con i cani di quando in quando! Non c’è cura migliore per un morale depresso!”. A Latimer non rimane che masticare amaro sul “temperamento rozzo e limitato” di Alfred, esponente di quel tipo di persone su cui “si riversano i doni del mondo. Tonteria aggressiva, sano egoismo, giovialità presuntuosa – queste sono le chiavi della felicità”: anche se in un angolo di sé resta il sospetto che il proprio egoismo sia peggiore, solo “lagnoso anziché soddisfatto”. E poco dopo, passeggiando con la futura cognata, gli viene impetuosamente da chiederle come possa amare il fratello. Sentendosi rispondere con una domanda – perché suppone che l’ami? – e un chiarimento che prefigurerebbe certe battute di Oscar Wilde se non gocciasse qualcosa di molto più tossico delle staffilate da commedia presenti nei suoi scambi paradossali.
Mio caro, la tua saggezza ti fa credere che io debba amare l’uomo che mi preparo a sposare? Sarebbe estremamente sgradevole. Litigherei con lui, ne sarei gelosa, il nostro ménage verrebbe organizzato all’insegna delle cattive maniere. Un po’ di tranquillo disprezzo contribuisce in misura notevole a rendere elegante la vita.
Al che, in un momento trasognato, al Nostro scappa da chiederle se lo amerà – lui, Latimer – quando si saranno appena sposati: sopporterebbe qualunque cosa se lei lo amasse almeno un po’… ma poi si rende conto della propria uscita infelice, borbotta che non sapeva cosa stesse dicendo e lei pare accettare l’episodio come un “altro attacco di follia” del futuro cognato. Salvo scoprire, rientrando a casa, che Alfred è morto per una caduta da cavallo (visto che Latimer è stato l’ultimo a vederlo, qualche critico ha spiegato le sue strane percezioni in modo un tantino più raggelante).
Il padre, che aveva affrontato piuttosto tiepidamente la vedovanza, stavolta è annichilito e Latimer scopre un nuovo affetto per lui; mentre il vecchio inizia proprio malgrado a dedicargli, in quanto unico erede, un’attenzione nuova. “Credo che qualsiasi ragazzo trascurato, cui la morte assegni un posto di primo piano rimasto vacante, capirà quanto voglio dire”. E dopo una fase di iniziale imbarazzo, Bertha gli lascia credere di amarlo – o almeno così lui vuol vedere.
Si sposano diciotto mesi dopo la morte di Alfred, con la benedizione del padre convinto che il matrimonio renderà Latimer abbastanza pratico e mondano da poter “assumere il proprio posto nella società dei suoi simili”: in realtà l’unione sigilla semplicemente un legame di alienazione fisica e mentale. Per qualche tempo i due malassortiti coniugi procedono a colpi di cene ed eventi tali da impressionare il vicinato, anche se il narrante vi fa “ben grama figura sia come erede sia come sposo. La stanchezza nervosa di quella esistenza, le insincerità e le meschinerie che dovevo subire due volte – grazie ai miei sensi e alle mie percezioni” – sono rese tollerabili solo dall’ingannevole ebbrezza che permette di non cogliere l’animo segreto di Bertha. Il cui atteggiamento pure sta mutando, alternando una freddezza altera a segnali di rifiuto meno evidenti. E finalmente, verso la fine della malattia del padre colpito da paralisi, la situazione si fa crudamente chiara, e l’attrazione di Latimer per Bertha viene paralizzata da un altro tipo di sentimento.
Alla vigilia della morte del padre, che lui ha vegliato nelle ultime reazioni coscienti, raggiunge infine Bertha nel suo salottino.
Sedeva abbandonata su un divano, le spalle rivolte alla porta: le ricche volute dei pallidi capelli biondi sovrastavano il collo sottile e emergevano dalla spalliera del divano. Rammento che, mentre chiudevo la porta dietro di me, fui colto da un freddo brivido e ebbi la vaga sensazione di essere odiato e solo – una sensazione vaga ma intensa, quasi un presentimento. So come apparisse il mio viso in quel momento perché vidi me stesso nella mente di Bertha mentre fissava su di me i suoi taglienti occhi grigi: un miserabile sognatore, circondato da fantasmi anche nella piena luce del giorno, tremante al minimo alito di una brezza che non muove nemmeno le foglie, senza interesse per i comuni oggetti dell’umano desiderio ma pronto a inseguire i raggi di luna. Eravamo di fronte, l’uno giudice dell’altro. Il terribile momento della totale illuminazione era giunto, e vidi che l’oscurità non mi aveva celato paesaggi di sorta, ma solo una nuda e prosaica parete.
E da quel giorno il suo sguardo può penetrare anche in quell’anima, trovandovi soltanto pochezza, egoismo e un’antipatia che trascolora in odio. Tanto più che lei stessa è delusa, avendo creduto che la folle passione del marito l’avrebbe reso suo schiavo: “non riusciva a concepire il fatto che la sensibilità può essere tutto fuorché debolezza”. Così interpreta lui: ma delusione e disillusione non possono rappresentare soltanto una proiezione dei desideri dell’anaffettivo coniuge?
D’altra parte come la conoscenza del futuro – ha osservato qualcuno – lo svuota e snatura lo stesso presente, così la conoscenza è potere ma, più ne abbiamo, più essa uccide il desiderio, recando una paradossale forma d’impotenza. Morti il fratello rivale e il padre da compiacere, muore così anche il desiderio di Latimer per Bertha: l’attrazione si legava a stretto filo all’incapacità di vedere nella vita interiore di lei, ma al sollevarsi del velo il desiderio evapora. Latimer sta tentando di trasferire tutto ciò sui lettori, che non gli vedono dentro e si fidano della sua storia? Chiaramente ciò incentiva i suoi fraintendimenti consci o inconsci. Però Latimer sarebbe in grado di sfuggire agli eventi dolorosi che prevede nel proprio futuro, o si tratta di un destino segnato?
Rafforzato dall’essere divenuto adulto e subentrato al padre, Latimer è così finalmente penetrato nella mente di Bertha: una tragica rivalsa per lui, che tuttavia non riesce a liberarsi della dark lady. Va detto che in misura minore ciò corrisponde alle dinamiche di qualunque innamoramento superato, ciò che appariva mistero e magia assume contorni di assai maggiore prosaicità: e tuttavia in questo caso il discorso dei meccanismo di controllo e di una rivalsa sadica dell’ex-masochista presenta un peso specifico.
Ovviamente tutti simpatizzano con Bertha, giovane donna brillante accanto a un marito insignificante e forse matto, che ispira semisprezzante pietà persino alla servitù. Ma lei ha iniziato a capire che Latimer gode di uno strano potere di penetrazione nei suoi pensieri, e questo la preoccupa. Invano spera che lui si suicidi o che scelga di separarsi: lui non ha più desideri, e tanto meno passioni.
Tutto questo dura anni. E ne sono passati ormai vari dalla morte del padre, quando una sera lei gli appare in biblioteca. Indossa un
vestito da ballo bianco con gioielli verdi, scintillanti alla luce della candela che illuminava anche il medaglione di Cleopatra morente sulla cornice del camino. Perché era venuta da me prima di uscire? Da mesi non l’avevo mai vista in biblioteca, che era il mio rifugio favorito. Perché così ritta, con la candela in mano, fissava su di me gli occhi sprezzanti e crudeli, e il serpente, come un demone familiare, brillava sul suo petto?
È un caso che questo studio sulla monomania veda l’ingresso della donna fatale in biblioteca dove s’infratta il narratore inaffidabile di un altro grande racconto su ossessioni e compulsioni monomaniacali, Berenice di Poe? Tanto più che anche qui, come vedremo, la barriera tra vivi e morti conoscerà momenti di scioccante eversione.
La donna bianca e verde è – come anticipato dal medaglione di Cleopatra (prima c’era Lucrezia Borgia, restiamo tra vamp) e suggerito dal serpente-famiglio sul suo petto –, una donna-serpente velenoso, come enfatizza il nesso tra il verde e l’arsenico, spesso usato per un pigmento smeraldino: e nella mente di lei Latimer coglie solo disprezzo insultante e l’augurio che lui si uccida (come Cleopatra, anche considerando i tratti un po’ femminei e languidi del marito). Comunque il motivo di quel dialogo è banale: Bertha deve assumere una nuova domestica, l’altra si sposa e chiede loro di affittare a suo marito una certa fattoria. Latimer non muove obiezioni, Bertha si dilegua: e poco dopo, circonfusa per il narrante da un vago alone di fatalità e di minaccia, si presenta la spiacevole signora Archer. Conquista presto le simpatie della padrona che tuttavia ne pare intimidita e dipendente: “e tutto ciò sembrava associato a confuse immagini del salotto privato di Bertha illuminato da candele, e a qualcosa che veniva chiuso a chiave in uno stipo”. Ma Latimer non riesce a vedere di più, anche se le sue peculiarità psichiche stanno conoscendo alcune novità. Percepisce infatti meno e in modo più confuso i pensieri di chi sta attorno, con una graduale necrosi in lui di ciò che è personale – come uno spegnersi progressivo del rapporto con gli altri – e un parallelo sviluppo nella percezione dell’inanimato, di scene esterne come la visione un tempo avuta di Praga.
Erano visioni di strane città, di pianure sabbiose, di rovine gigantesche, di cieli notturni con ignote costellazioni lucenti, di passi montani, di radure erbose dove brillavano i raggi del sole filtrati dai rami; io mi trovavo nel bel mezzo di queste scene, e nelle loro vivide forme avvertivo sempre una presenza opprimente, la presenza di qualcosa di ignoto e di spietato. Il perenne soffrire, infatti, aveva spento in me la fede religiosa; per chi è completamente infelice, per chi non ama e per chi non è amato, non vi è religione possibile, né culto che non sia quello dei demoni. Al di là di tali visioni vi era quella della mia morte, sempre ricorrente – le contrazioni, il senso di soffocamento, l’ultima lotta per aggrapparsi invano alla vita.
Così almeno la presenta Latimer. Ma in realtà da tempo, dissipato il mistero e con esso il potere vantato da Bertha su di lui, la “maledizione dell’intuizione” ha annientato l’unica fede rimastagli: quella cioè nell’algida divinità femminile del volto-santuario ormai vuoto.
Tale comunque la situazione del narrante alla fine del settimo anno, ormai libero dal peso invasivo dei pensieri altrui (con il passar degli anni l’inanimato ha sempre più spazio nelle sue percezioni, ed è inevitabile pensare alle oblique solidarietà degli Usher con i mondi vegetale e minerale) e ripiegato sul proprio futuro. Sia pure in termini di estraneità, Bertha ora pare cercarlo maggiormente e lui, senza domandarsene il perché, la tollera con languore passivo: avverte però in Bertha qualcosa come un’eccitazione, e si compiace solo del fatto che ora gli sia tornata impenetrabile. Lei lo tratta da ottuso, quasi con sollievo, e lui non vuole ostacolarla negandole quella pietà necessaria a qualunque creatura vivente. Questa almeno la versione offerta al suo pubblico.
Ma a strapparlo in parte dall’inerzia giunge la notizia di una visita in Inghilterra dell’antico amico Charles Meunier. Molto cambiato dagli anni di gioventù: l’ospite che arriva da loro è un brillante uomo di mondo, ascoltato da gentildonne deliziate – compresa Bertha, che sfodera tutta la propria civetteria – e stimato dai gentiluomini. Nel ritrovare Latimer, l’amico rinuncia con molto tatto a indagare sulle sue penose condizioni e si limita a rendere piacevole l’incontro. Attenzione, la parte che segue riporta significativi spoiler.
La visita (inevitabile pensare a quella del narrante amico a Roderick Usher, nel racconto di Poe) fa molto bene a Latimer, che udendo Charles parlare delle implicazioni psicologiche della malattia vagheggia persino di confidargli i propri rovelli. Senza però decidersi a quel passo, per timore di riprendere a invadere le menti altrui: ma il soggiorno di Meunier si avvia al termine quando accade qualcosa. La signora Archer si ammala all’improvviso, e l’algida ed egoista Bertha – che oltretutto ha avuto con la dipendente un duro scontro poco prima dell’arrivo di Charles – sembra rivelare un’impensata devozione verso di lei, prendendo a vegliarla notte e giorno. In assenza del loro medico di famiglia, è Charles a occuparsi del caso: e spiega trattarsi di peritonite, con esito senz’altro fatale. Ma propone all’amico un esperimento, che non recherà sofferenze alla morente perché lo tenterà solo a decesso avvenuto: cioè una trasfusione di sangue quando il cuore abbia “cessato di battere da alcuni minuti”. Ha già effettuato tale esperimento – spiega – varie volte su animali morti di malattia: userà il proprio sangue, ha solo bisogno che l’amico l’assista. Ma vorrebbe tenere Bertha all’oscuro, hai visto mai quali difficoltà possa sollevare, e oltretutto l’effetto potrebbe impressionarla. Il riferimento alla segretezza può essere inteso ovviamente come un’implicita messa in discussione dell’etica dell’esperimento: e del resto la situazione pone in scena un chiaro caso di controllo patriarcale, visto che il soggetto morente – dunque incapace di opporsi – è una donna, oltretutto di classe sociale subordinata. Pare d’altronde che le trasfusioni venissero effettuate più comunemente sulle donne, con donatori uomini, perché meno soggetti a svenimento. L’ironia della situazione evocata è che proprio Latimer aveva avuto uno svenimento al primo incontro con Bertha…
Meunier cerca dunque di convincere la moglie dell’amico a schiodarsi dal capezzale, ma lei non vuol saperne. Il medico domanda però a Latimer se conosca “qualche ragione che possa ispirare a quella donna del malanimo verso la sua padrona, che le è tanto devota”, visto che sembra si sforzi di dire qualcosa fissando Bertha con ostilità. Latimer ricorda lo scontro tra le due, ma anche il pessimo carattere della domestica; comunque ben presto giunge per questa l’ultima crisi, e l’arrivo al capezzale di Latimer con Charles suscita l’irritazione di Bertha. L’uomo di scienza la tacita, ma lei non sembra disposta ad andarsene di lì. E a Latimer viene da chiedersi come avesse potuto ravvisare nella moglie elementi di tenerezza umana, a fronte di quei
lineamenti […] di una durezza preternaturale, gli occhi freddi e avidi – sembrava una crudele dea immortale, pronta a gioire dei dolori di una razza mortale. Su quei duri lineamenti, infatti, balenò come un lampo quando l’ultimo respiro fu esalato e capimmo tutti che il nero velo era calato per sempre. Quale segreto aveva unito Bertha e quella donna? Distolsi lo sguardo con l’orribile timore che le mie doti di percezione si riaccendessero e io fossi costretto a vedere quanti si era celato in due aridi cuori femminili. Intuii che Bertha aveva atteso con ansia il momento in cui la morte avrebbe suggellato il suo segreto; pregai il cielo affinché rimanesse suggellato anche per me.
Veniamo così introdotti, in modo un po’ obliquo e ambiguo, alla possibilità dell’esistenza di un qualche disturbante segreto.
Constatato il decesso, Charles accompagna fuori Bertha che però manda dentro due domestiche a piantonare la stanza. Latimer le fa attendere fuori finché – spiega – l’amico non abbia effettuato un intervento (ha già aperto l’arteria nel collo della defunta) per esser certo che sia davvero morta; poi collabora con l’amico mantenendo una respirazione artificiale nel corpo trasfuso (non è troppo chiaro come). E lentamente il petto della governante ricomincia a sollevarsi e l’anima pare riaffiorare dietro le palpebre socchiuse. Interrompendo la respirazione artificiale, quella naturale continua…
Ma all’improvviso entra Bertha, e si confronta con gli occhi spalancati e pieni d’odio della morta, che solleva il dito puntandolo contro di lei. “Lei voleva uccidere suo marito… il veleno è nello stipo nero… io gliel’ho procurato e lei rideva di me, e raccontava bugie sul mio conto, per rendermi spregevole… perché era gelosa… si è pentita… adesso?”. Più altre parole impercettibili, prima di tornare alla morte.
Latimer è turbato:
sarebbe questa la resurrezione? Risvegliarsi col tormento di un’inesauribile sete, mentre le maledizioni che non abbiamo avuto il tempo di pronunciare ci salgono alle labbra e i nostri muscoli sono pronti a completare peccati commessi a metà?
Inevitabile ravvisare in questa reviviscenza mostruosa, che spiazza lo stesso medico lasciandolo paralizzato (a caveat sulla pericolosità di alcune tecniche in apparenza promettenti, e sui lati oscuri della scienza e dei suoi amorali alfieri), alcune suggestioni del mito vampiresco: e si potrebbe azzardare che il racconto, edito nel 1859, abbia potuto suggerire a Stoker le trasfusioni del Dracula, i risvegli “col tormento di un’inesauribile sete” e la presenza di esecrabili vamp. Quel che è certo è che tali pratiche di trasfusione sono quelle pionieristiche e sperimentali di un’epoca in cui non si conoscono ancora i gruppi sanguigni (e si può nutrire ancora la fantasia che il sangue restituisca la vita a un vero e proprio cadavere); mentre emerge sullo sfondo una quantità di altre letture gotiche, come il Frankenstein (Meunier che gioca con la vita e la morte), The Facts in the Case of M. Valdemar e i racconti mesmerici di Poe, le suggestioni del magnetismo capace di far sviluppare una doppia coscienza o anche più nere leggende devote su cadaveri risvegliati per confidare orribili verità.
Va però detto che alla base di ciò che noi oggi leggiamo come fantasie c’è il genuino interesse di George Eliot – come del resto del suo partner, George Henry Lewes – per la scienza del tempo, e le implicazioni morali che ne emergono alla letteratura, spesso in chiave di profonda ambivalenza: in particolare gli esperimenti e gli studi del chimico scozzese William Gregory (1803-1858) in tema di mesmerismo, magnetismo e frenologia (sembra lavorasse su pazienti chiaroveggenti), e quelli del fisiologo e neurologo Charles-Édouard Brown-Séquard (1817-1894), uno dei padri della endocrinologia moderna, che intuì l’esistenza degli ormoni e condusse – pare – esperimenti di trasfusione simili a quello qui descritto. In questo racconto pubblicato nel 1859, lo stesso anno in cui appare L’origine delle specie di Charles Darwin, Eliot riflette non solo sulla percezione extrasensoriale e il rapporto tra scienza e soprannaturale, l’essenza di una vita fisica (basta un po’ di sangue rimesso in circolo a richiamare sia pur brevemente alla vita un corpo ucciso dalla peritonite?) e la possibilità di una vita dopo la morte, ma anche – in termini più filosofici e di rapporto con una fede dell’autrice un tempo forte e più tardi abbandonata – sul potere del fato e il mistero della vita: alcuni suoi riferimenti in altre sedi sottolineano del resto l’interesse di Eliot per i meccanismi di mistero soggiacenti alla realtà scientifica.
Il racconto può essere letto come un testo medico, in riferimento al dibattito della media età vittoriana in tema di masturbazione e follia (cfr. gli studi di William Acton, in particolare The Functions and Disorders of the Reproductive Organs, 1857, di James Copland, Henry Maudsley e Samuel-Auguste Tissot) e alle applicazioni appunto di una serie di tecniche peculiari. Viene inevitabilmente da domandarci in che percentuale un giorno le categorie scientifiche del nostro tempo – e i loro cascami sociali, green pass incluso – appariranno materia per racconti fantastici.
L’episodio della trasfusione mirabolante è talora parso alla critica poco legato al resto del racconto, eppure l’autrice deve tenervi molto, se in occasione della prima edizione non segue il consiglio dell’editore di rimuoverlo. Intende, con una storia implausibile, mettere in crisi l’impalcatura dell’intero testo suggerendo un’altra verità?
Ai tre protagonisti attorno al capezzale non resta che uno stordito silenzio. Meunier, vincolato da una promessa all’amico, tace. L’evento reca comunque almeno la svolta di una separazione tra i coniugi – l’inconoscibile Bertha resta alla villa con metà dei beni, Latimer parte per terre lontane e rientra nel Devonshire per morire. Si è trovato strano il torpore di Latimer nei confronti della verità esplosiva che se non altro potrebbe conciliargli la simpatia di qualche conoscente, stornandola dalla dama di successo pronta al crimine. Dall’emergere di alcuni termini da lui usati – lo “state of expectation or hopeful suspense” di Bertha – si è persino ipotizzato che lei possa essere incinta, ovviamente di un legame adulterino (i sintomi al tempo confondibili tra peritonite della domestica e alcuni problemi legati alla gravidanza hanno fatto pensare a un ideale gioco di specchi, e la trasfusione di sangue – come poi nel Dracula – è allora fortemente sessualizzata), ma è plausibile si tratti di sovrainterpretazione: l’espressione sembra calzare più banalmente all’attesa di una morte di Latimer per veleno. Va detto che questi fornisce il resoconto sull’accusa di veneficio – che gli recherebbe le simpatie dei lettori – quando ormai l’amico testimone non c’è più: e proprio l’episodio implausibile gli aliena quelle simpatie.
D’altra parte nel desolante quadro presentato, a base di cinismo, cene deprimenti a beneficio della provincia, raccomandazioni sulla caccia come terapia interiore e raggelanti messinscena dell’amore coniugale, anche il grande medico Meunier è ridotto a uno spregiudicato epigono di Frankenstein, umanamente incapace di tener testa al risultato dei suoi esperimenti, e tanto imbarazzato da essere ben lieto di tacere (tace tanto bene da morire, lo stesso silenzio dell’ormai tumulata signora Archer): e trova corrispondenza con un altro stereotipo noto alle colonne del Blackwood, l’unsound scientist, lo scienziato (potremmo tradurre) stonato.
Ma proprio sul Blackwood nei primi anni cinquanta figurano un paio di articoli interessanti e cauti, “What is Mesmerism” e “The Night Side of Nature”, quest’ultimo a recensione di due edizioni recenti (Researches on Magnetism, Electricity, Heat, &c., in their relation to Vital Force, 1851, traduzione del citato Gregory all’opera di Carl Reichenbach teorizzatore della presunta forza odica, e The Night Side of Nature, or Ghosts and Ghost Seers di Catherine Crowe, 1848, sulla presunta chiaroveggenza dei sonnambuli, opera poi tanto apprezzata da Baudelaire): articoli che aiutano a capire il senso dell’intero episodio della trasfusione – e della scelta di Eliot di mantenerlo, nonostante le perplessità dell’editore – ma insieme di un corretto approccio all’intero racconto. Leggendo Il velo dissolto in parallelo a questi articoli, l’atteggiamento suggerito in rapporto ai temi trattati sembra infatti quello di deplorare sia l’autoripiegarsi di Latimer con le sue equivoche chiaroveggenze e preveggenze, sia il materialismo becero dei suoi interlocutori: starebbe al lettore intelligente cogliere il tipo di operazione interpretativa necessaria davanti a un dramma dove nessuno “ha ragione” e occorre diffidare di tutti.
Qualcosa che, d’altra parte, riguarda lo stesso profilo di Bertha, l’Eva satanica pronta a somministrare il frutto tossico a un Adamo rinunciatario, con il sovrapprezzo di una complicità da coven tra donne. Un aspetto interessante è che, a ben vedere, Bertha non compie nulla di esplicito: chiuso in uno stipo, il veleno (se davvero c’è) resta il segno di una tentazione, ma in un contesto differito e sospeso quantomai incerto. Se la morta (o morente) avesse delirato, piena di un odio verso la padrona che non aveva potuto spurgare perché si era mortalmente ammalata? Certo, quelle parole rafforzano Latimer nello stigmatizzare Bertha e controllarne l’immagine: al punto che – ha osservato qualcuno – il testo è divenuto l’ennesimo velo. Se Bertha non parlava prima – e conosciamo le sue parole solo attraverso quelle del suo nemico – ora è messa a tacere per sempre.
Nei fatti un sipario è calato con il silenzio sull’episodio del veleno. Conoscendo esseri umani durante il suo esilio lontano, lamenta Latimer, è di continuo costretto a sfuggirli per timore di riaccendere l’antico male della lettura interiore: ciò che puntualmente precipita quando si trova inchiodato dalla malattia cardiaca tra le mani dei domestici. “Mi erano noti tutti i loro pensieri meschini, il loro scarso rispetto per me, la loro distratta pietà”. E ben conosce, come scritta su una lapide, la data del 20 settembre 1850, quella cioè della propria morte… Certamente la sua frustrazione riflette quella dell’autrice, bloccata da mille paletti in un campo in cui gli uomini spadroneggiano e soffocata dalla mancanza di controllo sulla propria vita professionale: una voce che tende a venir soffocata dagli stessi uomini a lei vicini, e che echeggia insieme il senso sordo d’inadeguatezza di Latimer e la condizione della stessa Bertha. Scrive Danielle Jacobson:
The events of the narrative, then, tell two stories. The first and more obvious storyline focuses on an author‘s search for credibility and authority. The second, more obscured plot centers on a woman desperately seeking power and control over her life. In this sense, Bertha‘s story chronicles the life of Marian Evans the woman while Latimer‘s narrative is an account of George Eliot the author. (A matter of character: Aristotelian ethos in George Eliot‘s The Lifted Veil, 2011, p. 63)
Interessante è del resto anche quell’associazione dello scetticismo vittoriano tra chiaroveggenza e patologia mentale che permette di sanzionare il ruolo emergente delle donne proprio nei giri spiritualisti. La poca credibilità di Latimer riflette in fondo quella che l’autrice sentiva pesarle addosso in quanto donna che scrive.
Quindici anni dopo la prima pubblicazione, l’autrice aggiungerà una breve epigrafe poetica alla storia, una lirica in forma di preghiera. Liberamente potremmo tradurla:
Illuminazione non darmi, o grande Cielo, ma solo ciò che volge
a dar forza alla compagnia con gli uomini;
non poteri, a parte il lascito che via via
l’umanità rende più completa.
Cioè la richiesta di non ricevere illuminazioni speciali – tali da permettere la visione oltre il velo – che possano allontanare l’energia dei suoi pensieri dalla compagnia degli uomini: che in sostanza all’orante siano concesse solo le doti ordinarie di percezione che per via naturale dirigono a una maggiore empatia e arricchiscono l’umanità. Si è visto in questa epigrafe aggiunta tanto tempo dopo come il richiamo a una sorta di “morale”, a non desiderare chissà quali poteri – quelli forse che Eliot vedeva adombrati nel fiorire crescente di pratiche occulte, o in termini più metaforici nella pretesa di spiare (nei modi più vari) l’interiorità altrui sprezzandone il mistero. Mentre è proprio il mistero a dar senso, speranza e interesse alla vita: anche – in fondo – il mistero di noi stessi che tardiamo a capirci e della letteratura che getta alcune luci. Una letteratura che è finzione, fictio, ma che proprio in quanto tale ci aiuta a sollevare – ora salutarmente – una serie di veli su ciò che è invece verissimo in noi (miserie comprese) e nella realtà.