di Sandro Moiso
Per Marx ed Engels è chiaro che, una volta ricomparso sulla scena della Storia, il partito non può essere soltanto una sorta di società per la propaganda delle idee, ma uno strumento organizzativo e direttivo per l’azione. Come afferma Engels in una lettera a J. P. Becker il 10 febbraio 1882: «Riteniamo quindi fermamente che non si debba indebolire un così eccellente mezzo di lotta, sprecandolo e consumandolo in un momento in cui le acque sono ancora relativamente tranquille e noi non siamo che alla vigilia della rivoluzione».
O come si afferma ancora in Origine e funzione: «l’insurrezione è un’arte. Ciò che si manifesta, nei periodi di rivoluzione come di rinculo, è la continuità del nostro Essere, l’affermazione del nostro Programma: il Partito “nella sua larga accezione storica”».
Tutti sembrano volere il comunismo, anche i borghesi, ma è sul modo di arrivarci, sullo strumento di liberazione – cioè la dittatura del proletariato -, che sorge il dissenso.
La classe agisce come tale solo quando dà vita a un partito che rappresenta i suoi interessi e quindi – per le caratteristiche della classe – quelli dell’umanità intera; il partito conquista il potere, distrugge lo Stato borghese, si erige in classe dominante e quindi in Stato la cui funzione non è più una funzione politica ma sociale, che opera affinché l’Essere Umano divenga “il vero Gemeinwesen dell’uomo”. Ciò non si può realizzare dalla sera alla mattina: di qui la necessità della dittatura del proletariato, del partito. È essa che permetterà la distruzione delle classi.
Oggi, come ieri si è già fatto, si fa sempre un gran parlare di eguaglianza, ma il problema sta proprio lì: il problema non è quello di promuovere l’eguaglianza, la libertà e la fraternità in un mondo diviso in classi che deve essere riequilibrato. Si tratta di distruggere e superare tutte le cause della diseguaglianza. Non si tratta di superare l’ingiustizia, ma di abolire le cause dell’ingiustizia e della giustizia (borghese) che dovrebbe controllarle e renderle compatibili con il ben ordinato funzionamento della società che le produce. Come per Marx ed Engels, si tratta di abolire le classi definitivamente.
“L’egualizzazione delle classi, nel suo significato letterale, tende a quella armonia fra capitale e lavoro che i socialisti borghesi hanno predicato con tanta insistenza. Il grande fine dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori non è l’egualizzazione delle classi, logicamente insensata e irrealizzabile, ma al contrario l’abolizione delle classi, questo è il vero segreto del movimento proletario”.
Questo è il segreto del Partito, ciò che va conservato e difeso della sua prospettiva e per la sua azione. E solo in questo modo si possono meglio delineare le fasi che ne hanno caratterizzato la storia e lo sviluppo successivamente alla fase delle sette.
Il Partito si sviluppa nel periodo 1840-48.
Nel 1850, in fase di rinculo, è preferibile sciogliersi per le ragioni dette più sopra e perché il momento non è favorevole alla presa del potere. La classe è stata battuta, e Marx ed Engels allora scrivono: “Dunque, siamo stati sconfitti; non ci resta che ricominciare daccapo. Il respiro, probabilmente breve, che ci è stato concesso fra il primo e l’inizio del secondo atto del movimento ci lascia il tempo di deciderci a una parte veramente necessaria del nostro compito: lo studio delle cause che hanno determinato l’ultima esplosione e, insieme, ne hanno prodotto l’insuccesso. Queste cause non vanno cercate in semplici elementi accidentali: sforzi, capacità, errori, deficienze, tradimenti di singoli capi; ma nella situazione generale e nelle condizioni di esistenza di ogni popolo interessato all’agitazione rivoluzionaria”. (La stessa cosa nel 1926. Di qui l’errore di Trotzky di credere di poter ricostruire un’Internazionale. L’involuzione del movimento ci ha mostrato tutti gli errori svelati da Marx. Invece di un’analisi sana, di un bilancio suscettibile di preparare la ripresa rivoluzionaria, si è andati a cercare le cause della disfatta nel tradimento dei capi, nei delitti di Stalin, nella passività delle masse, nella cattiva applicazione di parole d’ordine).
Abbiamo poi la ricostruzione del movimento. In questo periodo, Marx ed Engels studiano a fondo perché vi è stata sconfitta. Il loro ritiro dalla Lega non significa accettazione della disfatta: al contrario, essi si preoccupano di sapere se la rivoluzione non potrà scatenarsi altrove, in India, in Cina, ecc. e radicalizzare per contraccolpo la lotta del proletariato in Occidente. 1864. Fondazione della I Internazionale in una fase di marea montante del movimento proletario. Le condizioni non erano del tutto favorevoli, ma il proletariato aveva superato la fase delle sette, reclamava un’organizzazione internazionale […] Ecco perché Marx ed Engels ritengono necessaria la fondazione dell’Internazionale.
1871. Il proletariato parigino prende il potere. Ma anche qui la classe è battuta – e sul piano internazionale. L’azione ridiviene, dunque, lo studio teorico. Nel 1871, Marx fa un nuovo bilancio e precisa le condizioni della lotta; precisa il legame fra la volontà degli uomini e la loro azione; precisa che il Partito-programma è nato in un certo momento della lotta del proletariato e quindi della lotta dell’umanità; che l’organizzazione proletaria può solo svilupparsi con un certo grado di sviluppo della lotta di classe e il suo incontro col programma. Insomma, il partito non si forma per la volontà diretta degli uomini: si ricrea in determinati periodi; e si tratterà di sapere come i rivoluzionari possano preparare le condizioni migliori per il suo ritorno sulla scena della storia. Tutto ciò è precisato nel discorso di Marx del 25-9-1871 (in The World, 15-10-1871): “Il grande successo che finora ha coronato i nostri sforzi è dovuto a circostanze che esulano dal potere dei suoi membri. La stessa fondazione dell’Internazionale è stata il risultato di queste circostanze, e per nulla il merito degli uomini che si consacrarono a tale compito. Essa non è stata l’opera di un pugno di uomini politici abili; tutti i politici di questo mondo presi assieme non avrebbero potuto creare le condizioni e le circostanze che furono necessarie al successo dell’Internazionale. L’Internazionale non è salita sulla scena pubblica con un credo particolare. Il suo compito è stato di organizzare la forza dei lavoratori, collegare fra loro i diversi movimenti operai e unificarli. Le condizioni che le hanno dato un impulso così gigantesco sono le stesse per effetto delle quali i lavoratori sono sempre più soggiogati nel mondo; ed è qui il segreto del successo… Prima che una simile trasformazione sia possibile, è necessaria la dittatura del proletariato, e il primo presupposto di questa è un esercito proletario. Le classi lavoratrici devono conquistare con la lotta sul campo di battaglia il diritto all’emancipazione. È dovere dell’Internazionale organizzare e unificare le forze dei lavoratori in vista della futura battaglia”.
[…] La Comune del 1871 ha permesso di precisare la teoria dello Stato. Il ciclo del movimento proletario è concluso: nessun fenomeno sociale può più “mettere in causa” il marxismo. Resta solo l’ipotesi della rivoluzione pacifica: la guerra del 1914 dimostrerà il contrario, provando quindi la visione “catastrofica” di Marx.
La concezione riformista poté imporsi unicamente a causa dello sviluppo dell’imperialismo, e portò alla disfatta del proletariato nel 1914. Solo i gruppi che erano rimasti sul terreno del Programma integrale assicurarono la continuità dell’Essere umano = partito-programma.
Ma è proprio a partire dalla Rivoluzione russa, che aveva contribuito anche alla fine della prima guerra imperialista, con gli errori di tattica e il conseguente abbandono stalinista del partito-programma, che si scatenerà l’ultima grande bufera controrivoluzionaria che, tra alti e bassi, slanci improvvisi e nuove sconfitte e ritirate disordinate ha allungato i suoi tentacoli fino ai nostri giorni.
Su questi errori s’innesta la teoria della controrivoluzione. Abbiamo qui lo stadio più difficile, più lungo e doloroso del movimento proletario. La controrivoluzione trionfa sotto la maschera della rivoluzione. Per poterla vincere non bisogna mettersi sul terreno dei “dirigenti russi” (errore di Trotzky), né considerare la questione russa come una questione centrale. […] Dalla vittoria della Rivoluzione russa non poteva dipendere che la vittoria mondiale del proletariato: ora, come è stato ripetutamente dimostrato, la vittoria del socialismo in Russia dipendeva dalla presa del potere da parte del proletariato in Occidente. […] Nei periodi di disfatta, il proletariato abbandona il suo programma; solo una debole minoranza lo difende. […]Solo intendendo in questo modo il Partito si può capire l’apparente opposizione tra il fatto di proclamare possibile la rivoluzione comunista nel 1848 e l’affermazione del 1859 che ogni forma di società sparisce solo quando ha esaurito tutte le sue possibilità intrinseche.
[…] Mediante la rivoluzione comunista si può abbreviare la fase capitalista, che è una fase transitoria, a partire dal momento in cui lo sviluppo delle forze produttive è tale da poter generare una classe capace di riappropriarsi dell’Essere umano. Da allora il Comunismo è possibile. Enunciare questo punto non significa farsi delle illusioni sulle capacità di resistenza della classe avversa, che può ancora compiere “realizzazioni” suscettibili di ritardare il movimento, generando nel proletariato l’opportunismo. È appunto perché conoscevano tutto ciò, che Marx ed Engels poterono preparare le truppe alla ritirata dopo la sconfitta. Tutti gli altri movimenti gettarono o gettano nella battaglia le intere loro forze, e ne uscirono o ne escono completamente distrutti. È da questa visione dialettica che nasce la nostra continuità storica.
La fretta, la maledetta fretta che non fa i conti con i tempi geologici della Storia e con gli alti e bassi della lotta di classe’ ha sempre costituito uno degli elementi della sconfitta e della deviazione dei movimenti, nati rivoluzionari, in direzione del riformismo. Per questo motivo, nel testo fino ad ora trattato diventa importante ribadire qual è la funzione della forma partito, individuata da Marx ed Engels fin dai tempi della Lega dei comunisti.
La funzione del Partito deriva dalla lotta nella società attuale e dalla descrizione del comunismo.
Organizzazione degli operai, organizzazione della forza, direzione della violenza.
“…Il movimento politico della classe operaia – scrive Marx a Bolte, il 29-11-1871 – ha naturalmente per scopo finale la conquista per la classe operaia stessa del potere politico. A questo fine è naturalmente necessaria un’organizzazione preventiva sufficientemente sviluppata della classe operaia, che sorge dalle sue stesse lotte economiche. D’altra parte, ogni movimento in cui la classe operaia si oppone come classe alle classi dominanti e cerca di far forza su di esse con una pressione dall’esterno è un movimento politico. Per es. il tentativo, in una sola fabbrica o anche in un solo ramo industriale, di strappare al singolo capitalista, per mezzo di scioperi, ecc., una riduzione della giornata di lavoro è un movimento puramente economico; invece il movimento per strappare la conquista di una legge delle otto ore, ecc. è un movimento politico. È così che dai singoli movimenti economici isolati degli operai sorge e si sviluppa dovunque un movimento politico, cioè un movimento della classe per far valere i suoi interessi in una forma generale, in una forma che possiede una forza generale, obbligatoria per l’intera società. Se è vero che questi movimenti presuppongono una certa organizzazione preventiva, essi sono da parte loro altrettanti mezzi per lo sviluppo di questa organizzazione. Là dove la classe proletaria non si è ancora sufficientemente organizzata per intraprendere una campagna decisiva contro il potere collettivo, cioè il potere politico, della classe dominante, essa deve essere preparata a questo fine mediante un’agitazione incessante contro l’atteggiamento ostile delle classi dominanti. Altrimenti, il proletariato rimane un balocco nella mani di queste classi”.
Il partito permette dunque l’organizzazione della classe; in seguito sarà il soggetto della:Dittatura del proletariato
“Art. 1. – Il fine dell’associazione è di abbattere tutte le classi privilegiate, di sottometterle alla dittatura dei proletari mantenendo la rivoluzione in permanenza fino alla realizzazione del comunismo, che deve essere l’ultima forma di costituzione della famiglia umana.
“Art. 2. – Per contribuire al raggiungimento di questo fine l’associazione creerà legami di solidarietà fra tutte le frazioni del partito comunista rivoluzionario facendo scomparire, conformemente al principio della fratellanza repubblicana, le divisioni di nazionalità” (1850: Lega Universale dei comunisti rivoluzionari).
La parola dittatura, in menti assuefatte al ragionamento liberale, suscita ancora oggi timori che, grazie soprattutto alla vulgata antifascista e democratica, finiscono col permeare di sé anche coloro che dalla pretesa (e inesistente) libertà soggettiva hanno ben poco da guadagnare. In un contesto, quello odierno, in cui invece ogni componente della società è ormai soggetta e assuefatta alla dittatura politica, economica e militare del capitale. Così come, in tempi non sospetti, Marx e il suo sodale avevano già anticipato.
Qui importa sottolineare che noi non siamo per qualunque dittatura, e che questa per noi è un mezzo: ci interessa sapere contro chi deve essere diretta, contro che cosa, in nome di chi, in nome di che cosa. […] Ciò è tanto più vero in quanto, come Marx ha dimostrato nel Capitale, la dittatura borghese diventa sempre più quella del capitale, e quindi essa stessa esterna alla classe.
[…] Allo stesso modo, in origine il capitale e il suo capitalista sono identici e la libertà dell’uno si riflette nell’altro. In seguito, con la concentrazione capitalistica […] il capitalista tende a separarsi dalla sua proprietà e, lui che era l’essere del capitale, ne diventa l’avere. Il capitalista in quanto personaggio sparisce; la libertà scompare; essa non è più che libertà del Capitale, e questo diventa una forza impersonale; […] in altri termini, lo Stato diviene lo Stato-Capitale con la sua organizzazione burocratica: “Il carattere sociale delle forze produttive costringe gli stessi capitalisti ad abbandonare i grandi organismi di produzione e comunicazione a società per azioni prima, a trust poi, infine allo Stato. La borghesia diventa una classe superflua: tutte le sue funzioni sono ora espletate da funzionari stipendiati”.
Tutti gli individui di questa classe partecipano al capitale; devono quindi ricevere un profitto proporzionale alla somma che vi hanno messa. Lo Stato moderno deve far rispettare questa operazione, questo conguaglio. Di qui la contraddizione stridente della nostra epoca: uno Stato sempre più oppressivo, e la richiesta degli individui che sia sempre più forte. La dittatura borghese è divenuta quella di una forza mostruosa estranea all’uomo, che impedisce il divenire di una società che, nella sua totalità, tende al comunismo. In effetti, lo stesso capitalismo tende a sparire. È contro questa dittatura che il proletariato deve lottare. La sua distruzione è la soppressione della malattia dell’uomo; l’instaurazione della dittatura del proletariato è la sua rigenerazione mediante l’appropriazione della natura umana. Sono così risolte le antitesi: Individuo-Stato; Individuo-Specie; Libertà-Autorità-Necessità.
Da Marx la dittatura del proletariato è fatta derivare da tutta la storia della lotta di classe, da Babeuf alla Comune di Parigi ed è strettamente collegata alla concezione di una lotta che nel suo corso non può mai eliminare l’uso della forza dal suo campo d’azione. nelle pagine di Origine e funzione ne consegue che
La lotta di classe è una guerra: occorre dunque un esercito. Problema di avere degli alleati, problema di neutralizzare certi strati sociali, problema di assicurarsi una base di ripiegamento in caso di sconfitta. […] Noi abbiamo, come Marx l’ha sottolineato più volte, una passione ardente per l’uomo e per la sua liberazione: non per questo ci buttiamo a corpo perduto nella battaglia. Dobbiamo sempre cercare di dominare la strategia, il terreno della lotta. In caso contrario, il nostro nemico si assicura, presto o tardi, il mantenimento dell’ordine. Per noi l’insurrezione è un’arte.
Da tutto ciò derivano tutte le considerazioni su quelle che dovranno essere le caratteristiche e le basi del partito rivoluzionario:
Dalla funzione del Partito di domani discendono le sue caratteristiche. Essendo la prefigurazione della società comunista, esso non può accettare un meccanismo, un principio di vita e di organizzazione, che sia legato alla società borghese; deve realizzare la distruzione di questa società.
Rifiuto del meccanismo democratico (Marx a Engels, 18 maggio 1859: “Il nostro mandato di rappresentanti del partito proletario noi non l’abbiamo che da noi stessi. Ma esso è controfirmato dall’odio esclusivo e generale che tutte le frazioni del vecchio mondo e dei suoi partiti ci riservano”).
Anti-individualismo: il partito realizza l’anticipazione del cervello sociale. Ogni conoscenza è mediata dal partito; ogni azione anche.
Rifiuto di ogni mercantilismo, di ogni carrierismo sotto qualunque forma.
Abolizione degli antagonismi sociali legati alle classi. Nel partito non si conoscono se non militanti comunisti. Sul piano pratico, ciò corrisponde alla necessità di basare il partito sulla unità territoriale, anziché su quella di lavoro.
Il partito è una forza impersonale al di sopra delle generazioni; rappresenta la specie umana, l’essere umano infine ritrovato, la coscienza della specie.
Questa non può manifestarsi che in date condizioni (come l’azione del proletariato): in una situazione rivoluzionaria è possibile il rovesciamento della prassi, che è rovesciamento di ogni sviluppo attuale e passato; il Partito decide la presa del potere per la distruzione della società borghese; la preistoria umana è finita: in questo momento tutto converge, esso è il punto culminante della teoria mediante la previsione esatta del momento favorevole, e dell’azione (l’insurrezione è un’arte). I due fenomeni si sommano: è allora che la coscienza dell’azione appare, la coscienza che precede l’azione. […] Perciò noi possiamo dire che è una guida per l’azione (il partito, in quanto azione organizzata del proletariato, è il soggetto della storia), una guida dell’azione umana, una guida che conduce verso la liberazione dell’uomo, verso la sua presa di coscienza, verso la società comunista: è la guida alla emancipazione umana.
Ad alcuni sembrerà fin troppo il tempo e lo spazio dedicati alla riesumazione di un testo prodotto sessanta anni fa da una corrente minoritaria del movimento antagonista di classe e non immune da concezioni oggi non riproponibili, come quella ad esempio del dominio dell’uomo sulla natura. Testo che già all’epoca, in quella pur ristretta cerchia, aveva suscitato perplessità e scissioni. Ma a rileggerlo oggi, con gli occhi liberi da prevenzioni ideologiche che nel frattempo sono tramontate, con i loro esponenti storici e i più disgraziati epigoni, si possono cogliere intuizioni e ragionamenti che in un sol colpo fanno piazza pulita di tante chiacchiere ed idee confuse sulla necessità o meno del partito e su cosa esso sia o debba essere. Il partito-programma e la possibilità che il suo aspetto formale possa scomparire dopo la sconfitta per ritornare in altri momenti, e in altre forme, per riprendere il suo ruolo rappresentano idee con cui potrebbe essere ancora utile fare i conti. Contro gli inutili settarismi, le tragiche nostalgie per esperienze già sconfitte, gli scimmiottamenti di modalità di lotta e organizzazione fallite fin dalla nascita e le novità rappresentate dall’inserimento nel movimento rivoluzionario e proletario delle più vecchie e trite idee tratte dal liberalismo borghese e dal suo sempre risorgente individualismo insieme alla moda del politically correct. Così, per i lettori che sono giunti un po’ frettolosamente fin qui, varrebbe forse la pena di riprendere da capo il tutto e rileggerlo ancora con un po’ più di attenzione.
(Fine della seconda e ultima parte)