di Sandro Moiso
Ad agosto ci siamo dovuti sorbire una farlocca celebrazione di un manifesto che, a dire di autorevoli europeisti come Sergio Mattarella, costituirebbe il fondamento ideale dell’attuale Unione Europea.
Peccato, però, che a leggerne anche soltanto alcune pagine, guarda caso poste proprio all’inizio dello stesso, la narrazione europeista autorizzata non regga.
Il Manifesto, il cui titolo completo è “Per un’Europa libera e unita. Progetto di un manifesto”, fu infatti elaborato da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi nell’agosto del 1941, in piena seconda guerra mondiale, mentre i due antifascisti si trovavano confinati, insieme ad un migliaio di altri oppositori del regime, sull’isola di Ventotene (al largo di Formia).
L’autore principale fu Altiero Spinelli (n. 1907), che aveva iniziato la sua attività politica nelle file dell’allora Partito Comunista d’Italia e proprio per il suo ruolo di segretario giovanile dello stesso per l’Italia centrale era stato condannato nel 1927 a dieci anni di carcere e successivamente al confino, da cui fu liberato soltanto nel 1943 dopo la caduta “istituzionale” di Mussolini. Nel 1937, però, a seguito dei processi di Mosca e di una lunga riflessione sull’esperienza dello stato sovietico stalinizzato, era uscito da quello che era diventato il PCI.
Ernesto Rossi, che pure diede un importante contributo alla stesura del Manifesto, fu tra i fondatori e i principali animatori di Giustizia e Libertà e poi del Partito d’Azione e proprio attraverso gli scambi di idee con Spinelli, durante il periodo di confinamento forzato, divenne un sostenitore del federalismo europeo.
Idea di federalismo che, non dimentichiamolo, era nata e si era sviluppata proprio a seguito di quel secondo conflitto imperialista che stava macellando la gioventù europea e mondiale sui campi di battaglia ed era conseguenza non solo delle brame imperialiste delle potenze coinvolte, ma anche di un feroce nazionalismo che, in varie forme, aveva precedentemente finito con l’ingabbiare le stesse masse dei lavoratori.
Forse prendendo a prestito, almeno in parte, quell’idea di Stati Uniti d’Europa che Leone Trockij era andato sviluppando fin dal 19231, con l’intento di dar vita ad una federazione europea degli operai e dei contadini che desse una risposta concreta alle questioni più scottanti dell’evoluzione europea, anche se nel 1915 lo stesso Lenin si era dichiarato contrario a tale parola d’ordine2, con argomentazioni che sarebbero poi in seguito state usate da Stalin per giustificare la teoria del “socialismo in un paese solo”.
Trockij, al contrario, era invece convinto che soltanto dall’unione tra le due parole d’ordine «governo operaio e contadino» e «Stati Uniti d’Europa» fosse possibile ingabbiare e controllare in chiave socialista quelle forze produttive capitaliste che superavano, già allora, il quadro nazionale degli Stati europei ed avevano costituito la vera forza motrice del Primo macello imperialista.
Proprio come la guerra rifletteva il bisogno di un ampio campo di sviluppo per le forze produttive compresse dalle barriere doganali, così l’occupazione della Ruhr, funesta per l’Europa e per l’umanità, riflette il bisogno di unire il ferro della Ruhr con il carbone della Lorena. L’Europa non può sviluppare la sua economia nelle frontiere doganali e statali che le sono state imposte dal trattato di Versailles. Essa deve abbattere queste frontiere, altrimenti è minacciata da una completa decadenza economica. Ma i metodi impiegati dalla borghesia dirigente per sopprimere le barriere che essa ha creato non fanno che aumentare il caos e accelerare la disorganizzazione.
L’incapacità della borghesia di risolvere i problemi fondamentali della ricostruzione economica dell’Europa si manifesta sempre più chiaramente di fronte alle masse lavoratrici. La parola d’ordine «governo operaio e contadino» va incontro a questa crescente aspirazione dei lavoratori a trovare una via di uscita con le loro forze. Ora, è necessario indicare in maniera più concreta questa via d’uscita: è la cooperazione più stretta tra i popoli d’Europa, l’unico mezzo per salvare il nostro continente dalla disgregazione economica e dall’asservimento al potente capitale americano3.
Messe da parte alcune considerazioni forse oggi superate sul tema delle “foze produttive” e del loro inarrestabile sviluppo, va qui compreso come in quelle poche righe già il leader bolscevico prefigurasse quelle che sarebbero state le conseguenze del trattato di Versailles prima e del secondo conflitto mondiale in seguito.
Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi si trovarono invece a scrivere in un periodo in cui erano fallite le speranze di un governo operaio e contadino europeo oppure di una federazione di governi di tal fatta, mentre Stalin si accaniva nella costruzione forzosa di un nuovo e potente capitalismo di Stato, non troppo diverso da quello rimesso in piedi da alleati ed avversari del devastante conflitto in corso. E forse fu proprio a partire da questa constatazione che, nella terza parte del Manifesto, Compiti del dopoguerra – La riforma della società, i due poterono affermare:
La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita. La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La statizzazione generale dell’economia è stata la prima forma utopistica in cui le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia, come è avvenuto in Russia4.
Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma – come avviene per forze naturali – essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall’interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica “routinière” per trovarsi poi di fronte all’insolubile problema di resuscitare lo spirito d’iniziativa con le differenziazioni dei salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachanovismo dell’U.R.S.S., col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.
La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio. Questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto oramai indispensabile dell’unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:a) non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori; ad esempio le industrie elettriche, le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l’esempio più notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai occupati, o per l’importanza del settore che dominano, possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa (Es.: industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E’ questo il campo in cui si dovrà procedere senz’altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;
b) le caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl’istrumenti di produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l’azionariato operaio, ecc.;
c) i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà preparare, in ogni branca di studi per l’avviamento ai diversi mestieri e alla diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell’interno di ciascuna categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;
d) la potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente piccolo, il vitto, l’alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori;
e) la liberazione delle classi lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare a essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le condizioni a cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l’osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che saranno realizzate quelle trasformazioni sociali 5.
E’ evidente che numerose affermazioni qui contenute potrebbero, oggi, essere ampiamente riviste, ma ciò non toglie che la domanda da porsi sia: cosa c’entrano il contenuto del Manifesto e le idee dei suoi estensori con l’Europa di Draghi, del capitale finanziario e della BCE oggi celebrata proprio attraverso le sue pagine? Visto che l’Europa unita sognata all’epoca dai due estensori e, prima, forse anche da Trockij andava in una ben diversa direzione.
La prima domanda, però, deve essere accompagnata anche da un’altra: cosa c’entrano gli attuali difensori dello Stato-nazione e dei suoi sacri confini, in un contesto di capitalismo avanzato, col socialismo, il comunismo e la rivoluzione?
Si veda L.Trockij, Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa (Per la discussione internazionale), «Pravda», 30 giugno 1923, ora in L. D. Trockij. Europa e America (a cura di David Bidussa), Celuc Libri, Milano 1980 ↩
Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, «Sotsial-Demokrat» n. 44, 23 agosto 1915 ↩
L. Trockij, Sull’opportunità della parola d’ordine Stati Uniti d’Europa (Per la discussione internazionale), «Pravda», 30 giugno 1923, in op. cit., p. 100 ↩
Per i lettori che dovessero strabuzzare gli occhi davanti a tali affermazioni, occorre qui ricordare che tale principio era in linea con la Nep, la Nuova politica economica, con cui Lenin aveva cercato di rivitalizzare l’economia dell’U.R.S.S. al termine della devastante guerra civile del 1919- 1921, mentre la statalizzazione assoluta di ogni attività economica e proprietà fu alla base delle politiche staliniane di industrializzazione forzata e competizione economica sul mercato mondiale. – N. d. R. ↩
Altiero Spinelli, Enesto Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Celid per conto del Consiglio Regionale del Piemonte, Torino 2001, Parte Terza: Compiti del dopoguerra- La riforma della società, pp. 24 – 26 ↩