di Francisco Soriano
L’idea prevalente di scuola nella pianificazione didattica e amministrativa che domina le strategie dei governi nazionali ed europei che si sono succeduti soprattutto negli ultimi trent’anni, si è basata su un assioma coerente e indissolubile: rispondere armonicamente alle leggi del liberismo con il fine ultimo di formare intelligenze e competenze (queste ultime non più concepite come strumenti ma come obiettivo finale), adeguate a soddisfare le logiche dello sfruttamento e della prevalenza dei territori economicamente più solidi. Si deduce che la nuova scuola concepita dal ministro Bianchi è solo una fotocopia scolorita dal punto di vista valoriale, nella sua riproposizione di vecchie politiche pedagogiche, ma ben sostenuta da una pioggia di soldi proveniente dal Recovery fund.
Infatti il governo Draghi investirà 17 miliardi di euro sull’istruzione, nove sull’università e 8 sulla scuola. Questi fondi sono contenuti nel “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnnr) e sono stati “pubblicizzati” al termine di una “cabina di regia”. Questa pianificazione è il frutto della concezione dell’istruzione all’impresa, soprattutto attraverso il finanziamento degli istituti tecnico professionali con 1,5 miliardi di euro, come gradito da Confindustria. Inoltre si prevede la pianificazione di fondi che sono insufficienti per l’edilizia scolastica, fra le più vecchie d’Europa, a eccezione degli asili nido, mense e palestre. Il campanello d’allarme suona alla voce: “ecosistemi dell’innovazione”, che consistono in dodici territori selezionati, con la chiara possibilità di aumentare diseguaglianze territoriali. Si sbandiera la “riforma” dei dottorati (6 mila in più dal 2021), nella cornice del placet delle imprese. Non una parola sull’università gratuita al fine di elevare il numero degli studenti e dei laureati, e di una assunzione concreta di ricercatori in tutte le università, né di un aumento del fondo annuale diretto a tutti gli atenei. L’idea del ministro non sublima la ricerca pubblica ma incrementa quanto di più vecchio è stato fatto nel passato con più fondi. Per questo è necessario il ricordo e la storia delle trasformazioni della nostra scuola e università. Soprattutto della responsabilità di tutti i governi di destra, di sinistra e dei populisti di oggi, nel determinare la gestione della didattica concepita come mero strumento delle imprese.
Questa visione di futuro ha posto in essere un sistema di mistificazioni e retoriche che servono a eludere le critiche e aggirare le distorsioni delle crisi sistemiche, fra cui quella della scuola pubblica italiana. Le contraddizioni vengono provocate dalla inadeguatezza delle scelte strategiche nella didattica e nel governo dei territori: dalla inconciliabilità delle necessità dei cittadini con le politiche scolastiche, dallo smascheramento di un progetto di didattica strumentale alle esigenze delle aziende e del profitto, dalla incapacità di avere una visione di scuola pienamente inclusiva di tutte le complessità sociali, dalla volontà neppure camuffata di strutturare una scuola con obiettivi finali che hanno poco a che fare con una idea di etica sociale diversa dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Attraverso un linguaggio consono a soddisfare questa esigenza si è voluto dare valore pregnante alla “competenza”, alla “gestione delle risorse”, alla “progettazione” delle aspettative, totem del pensiero liberista, fino alla chimera di un futuro più giusto basato sull’”efficienza”, con l’esclusione implicita dei più fragili e con la perseveranza nel perseguire strategie di sviluppo di sistemi capitalistici in modo indiscriminato.
Con parole ben veicolate nella loro significazione si tenta continuamente lo scardinamento di un sistema pedagogico pubblico e popolare che si è andato man mano corrodendo sotto i colpi ineluttabili di una “managerialità” nella scuola con un preciso intento: esclusione, allontanamento delle fragilità, spaesamento dei contenuti didattici. Nel tempo la scuola ha rappresentato sempre di più, nonostante la partecipazione di organi collegiali e rappresentativi, un sistema autoritario e verticistico perché ben impiantato sui valori della competizione simili a quelli che regolano i mercati, le aziende, la funzionalità delle dinamiche sociali. Questa deriva si è verificata anche e nonostante la partecipazione collegiale di famiglie e diversi utenti, spesso sensibili e già conformi alle logiche di sistemi che rispondono alla visione del più bieco sfruttamento. Dagli anni novanta fino ad oggi il percorso di consolidamento delle scelte del pensiero unico liberista è stato inarrestabile.
I capisaldi inoppugnabili della nostra Carta costituzionale sono ancora in vita, nonostante gli assalti e i tentativi di trasformarli alle nuove e ineluttabili regole della modernità, improntata sul principio della competizione e competitività. L’emergenza Covid ha portato ineluttabilmente allo scoperto tutti i problemi sedimentatisi negli anni. Le prime questioni spinose e fondanti una nuova didattica partecipata riguardano un’idea di edilizia scolastica che deve fare i conti con la pregressa carenza di strutture moderne in osmosi con le esigenze didattiche di una scuola innovata e innovativa. Gli spazi scolastici e la loro organizzazione sono un aspetto ineludibile di una didattica moderna che si basa su principi collettivi di partecipazione alle nuove didattiche. La strutturale carenza di insegnanti e dell’uso improprio di tutto il personale precario per le supplenze, in modalità al limite del rispetto della dignità dell’individuo garantita sul lavoro, rappresenta uno dei punti nodali delle crisi del sistema didattico italiano. La forbice delle diseguaglianze, in ogni campo e settore fra Nord e Sud, si è ampiamente divaricata con effetti disastrosi, soprattutto sulla frequenza degli allievi a scuola. In un Paese con un tasso di criminalità organizzata esteso e infiltrante i territori, si è determinata la condizione più proficua di reclutamento e asservimento di manovalanza giovanile, per mancanza di una scuola forte e contrastiva. L’intento di investire tutto all’acquisizione delle competenze con l’apprendimento nozionistico delle discipline è un ulteriore tentativo vuoto e incoerente. La propagazione di fenomeni preoccupanti di analfabetismo cognitivo non si risolve con la strutturazione di test o strumenti di valutazione che rimangono comunque in un ambito statistico senza incidere particolarmente nella soluzione dei problemi. Lo sviluppo delle capacità dei discenti deve invece concentrarsi su attività e strategie ben diverse, investendo finalmente sulla creatività, motore e stimolo degli esseri umani: analisi, critica, sintesi, mediazione, etica e sperimentalismo, poste in una prospettiva di collaborazione e non qualità meramente individualistica.
In Europa nel marzo dell’anno 2000 si produsse un documento conosciuto come “Strategia di Lisbona”, che consisteva in un programma di riforme approvato nella capitale portoghese dai capi di Stato e di governo dei Paesi membri dell’Unione europea. Uno dei punti salienti del programma poneva in risalto la “formazione permanente”, paradigma e visione di una società del futuro in cui vi sia sempre la disponibilità di donne e uomini dotati di competenze e conoscenze disponibili a fini occupazionali. Questo principio è stato molto spesso argomentato e pubblicizzato come una conquista a fini personali, civici e sociali. In realtà è strumentale ad altri obiettivi: l’occupabilità e l’adattabilità al lavoro risponde ai requisiti della flessibilità e utilizzabilità degli individui in diverse e svariate condizioni lavorative. Altro principio era quello della “cittadinanza attiva”, un valore utile all’idea di un cittadino moderno pienamente occupato nel contesto economico della società. Solo così egli dimostra di essere a pieno titolo meritevole della propria cittadinanza.
La Commissione europea propose a tutti gli Stati membri un Memorandum, che conteneva la seguente definizione operativa: “l’apprendimento permanente comprende tutte le attività di apprendimento realizzate su base continuativa, con l’obiettivo di migliorare le conoscenze, abilità e competenze”. Il documento predisposto nella sua versione finale nell’aprile 2000 sottolineava due importanti obiettivi per l’apprendimento permanente: promuovere la cittadinanza attiva e l’occupabilità. Per cittadinanza attiva si intende “se e come le persone partecipano a tutti gli ambiti della vita sociale ed economica, le opportunità e i rischi che devono affrontare nel tentativo di farlo, e la misura in cui esse ritengono di appartenere e di poter intervenire nella società in cui vivono”. Inoltre “l’occupabilità – la capacità di trovare e mantenere l’occupazione – non è solo una dimensione di base della cittadinanza attiva, ma è anche la premessa determinante per il raggiungimento della piena occupazione e migliorare la competitività e la prosperità nella ‘nuova economia’”. La peculiarità della strategia di Lisbona era di strutturare per la prima volta un piano rivolto anche ai temi della conoscenza in quanto necessari allo sviluppo e al progresso delle nuove società moderne: innovazione e imprenditorialità, riforma del welfare e inclusione sociale, capitale umano e riqualificazione del lavoro, uguali opportunità per il lavoro femminile, liberalizzazione dei mercati del lavoro e dei prodotti, sviluppo sostenibile.
Al fine di comprendere meglio le strategie scolastiche adottate nel nostro Paese negli ultimi vent’anni è anche necessario capire come l’idea didattica e organizzativa venga sostenuta, anche a livello europeo, da politiche neo-liberiste. I principi che hanno ispirato le “strategie di Lisbona”, per quanto riguarda la formazione e la pianificazione di una moderna scuola europea, si possono riassumere in alcune brevi espressioni: società della conoscenza, capitale umano e apprendimento permanente. Con la definizione di “società della conoscenza” si intende definire una delle principali caratteristiche del sistema economico e produttivo contemporaneo, fondando questa convinzione sull’assioma che sempre di più il “sapere” diventi una risorsa indispensabile per la produzione e lo sviluppo del sistema economico. Inoltre si sostiene che lo sviluppo dell’informazione e delle nuove tecnologie trasformi le caratteristiche del lavoro e la sua organizzazione. Pertanto si riscontra la necessità di adeguarsi ai nuovi strumenti di produzione e sfruttamento secondo le imposizioni dell’ultima rivoluzione informatica e digitale. La mistificazione trova il suo apogeo laddove si sostiene che i lavori di routine e ripetitivi, propri dei lavoratori dipendenti vanno scomparendo lasciando spazio a una attività più autonoma e, addirittura, più creativa e varia. Si afferma, in sostanza, un cambio di rapporto nell’impresa, nella produzione, negli strumenti di produzione, nella impostazione economica e sociale di una nuova società digitalizzata. Si sostiene che il “fattore umano” sia ancora più importante in questa riscrittura verso il “nuovo”, argomentando nella più esplicita contraddizione, che il lavoratore rimane più vulnerabile al cospetto dei cambiamenti dell’organizzazione del lavoro, perché è un individuo “inserito in una rete complessa”. In questa ottica è ineluttabile dunque riadattarsi a una nuova concezione della produzione economica e alla trasformazione della tecnica che deve necessariamente essere governata dagli uomini del domani: adattamento ai nuovi strumenti tecnici e trasformazione delle condizioni di lavoro. La scuola è in questa ottica un’ottima palestra e uno spazio adeguato alla formazione di schiere di lavoratori che rispondano alle nuove esigenze di sfruttamento e del mercato. Per definire il significato di “capitale umano”, si ricorre a un espediente dialettico: “malgrado un effetto generalmente positivo, il progresso scientifico e tecnico fa sorgere nella società un sentimento di minaccia, addirittura di una paura irrazionale”. Per le strategie di Lisbona è utile programmare attraverso la didattica, la formazione e l’organizzazione degli istituti scolastici, un nuovo individuo che sia capace di affrontare le sfide che lo attendono, quasi evocando una ineluttabilità del progresso scientifico e tecnico in direzione del lavoro ai fini dello sfruttamento e del profitto. Pertanto il capitale umano viene incluso nelle risorse economiche come strumento di sfruttamento alla stregua dell’ambiente e delle cose. Il cosiddetto materiale umano è l’insieme delle risorse, cioè delle facoltà, delle conoscenze, dell’istruzione, dell’informazione, delle sue capacità tecniche al fine di creare e trasformare gli obiettivi economici, sociali e politici. Secondo le glosse delle istituzioni europee “la formazione e crescita del capitale umano avvengono tramite i processi educativi di un individuo che si realizzano nell’ambiente familiare, nell’ambiente sociale, nella scuola e nell’esperienza di lavoro. Evidentemente in un sistema economico nel quale la conoscenza gioca un ruolo centrale, il capitale umano diventa la risorsa fondamentale del sistema produttivo”.
È in questa ottica che si comprende quanto velocemente si formino, si cancellino e si amplino nuove figure professionali e nuove categorie di lavoratori che non incidono su un principio indissolubile: il capitale investe in persone ai fini della produzione senza abiurare o trasformare la sua sete di accumulazione e sfruttamento. Molte delle posizioni lavorative vengono occupate da un sapere tecnologico sicuramente più pregnante e diffuso negli ultimi tempi ma non tutti possono essere ricondotti alle mansioni di manager, professionisti, esperti, tecnici specializzati ecc. Naturalmente la crescente evoluzione della tecnologia e dei sistemi informatici impone alcune riletture in seno al mondo del lavoro, della produzione e delle modalità con cui essa si evolve, ma non per questo si cancellano diritti e necessità umane sull’altare di una modernità e una novità che non cambiano i rapporti di lavoro e di sfruttamento. Se l’Europa “ha bisogno di una forza lavoro altamente qualificata in grado di rispondere alle sfide attuali e future”, per una economia più competitiva e sostenibile, è necessario non sacrificare i diritti acquisiti dei lavoratori. Un altro obiettivo centrale è quello dell’”educazione permanente”. È uno dei punti strategici più importanti che riteniamo cruciale nell’interpretazione della sua valenza all’interno di un sistema scolastico nazionale. La percezione che il tutto sia avvenuto nella prospettiva dei nostri valori e concetto di società che si basano sulla tutela, sui diritti sindacali e la sicurezza dei lavoratori è evidentemente fallace. La realtà ci rappresenta un’altra verità che si traduce in morti, disabilità e malattie contratte dai lavoratori in molti settori produttivi delle moderne società europee.
In generale molto prima che vi fosse la “Strategia di Lisbona”, in Italia era cominciata una lunga e coerente fase di smantellamento di alcuni valori-cardine che hanno contraddistinto il modello scolastico italiano in tutto il mondo. La legislazione nazionale sulla scuola ha spesso veicolato la didattica e l’organizzazione scolastica attraverso l’enunciazione delle “linee guida” che si rivolgevano, a più riprese, agli organi elettivi e democratici come le autonomie locali al fine di condividerne scelte e obiettivi. Questa prospettiva è stata spesso disattesa con la più agevole tendenza a riperpetuare dinamiche più attente alle esigenze del mercato, con la sua visione classista, autoritaria, gerarchica, competitiva. Gli sforzi delle istituzioni sono andati verso la rilettura coerente dell’idea di stabilità definitiva dei saperi, facendolo con lo stratagemma e la visione di saperi flessibili, adattabili, attuabili in diverse dinamiche perché ormai connessi con uno sviluppo digitale che, mutando rapidamente la società, richiede una duttilità e capacità di riorientamento continuo. Si dovrebbe porre l’accento, invece, sulla impossibilità a prescindere dalle conoscenze globali, necessarie per comprendere una realtà in continuo mutamento: la scuola rischia di diventare sempre di più appannaggio di pochi e di coloro i quali hanno mezzi di controllo e privilegio. La lotta per il possesso, il controllo della scienza e delle conoscenze, della comunicazione e dell’informazione caratterizzano oggi come mai è accaduto negli anni precedenti, un enorme conflitto fra le classi, fra i ceti dominanti e quelli che subiscono o sono subordinati, quelli purtroppo rigettati sempre di più ai margini o nelle zone periferiche della società.
Come Marx aveva individuato è necessario comprendere quanto i processi produttivi, con i loro repentini e veloci mutamenti, debbano essere studiati e analizzati al fine di non cadere nel tranello di coloro i quali ricercano solo dominio e condizioni di egemonia. La sistematica procedura di smantellamento dell’apparato scolastico italiano nei suoi principi costitutivi ha avuto una svolta dai primi anni ’90 con l’avvento dei governi a guida Silvio Berlusconi, con la solita e collaudata mistificazione del superamento delle ormai desuete idee e programmazioni all’interno della scuola italiana. La trasformazione dei programmi ministeriali e del funzionamento delle istituzioni scolastiche era certamente auspicabile, ma non sacrificabile sull’altare della retorica del progresso e della modernità che consisteva semplicemente nell’instaurare un regime di apprendimento che governasse la tecnica al fine di essere strumentali allo sfruttamento e al consolidamento del capitale come sistema ineluttabile di valori. Il punto di snodo di questa dialettica è stata la rivoluzione informatica e digitale che ha causato la trasformazione del sistema produttivo, distributivo e comunicativo, mediante un processo di assimilazione del lavoro mentale nelle macchine informatiche che ha rappresentato la novità tecnica e strategica dello sfruttamento e della competizione. Questo processo ha determinato uno sconvolgente risultato di “declassamento”, in ragione dell’accumulo rapido e totale di sapere nella macchina informatica, la figura dell’intellettuale, dunque del dissidente.
Con questo capitalismo i principi che rimangono sono solo quelli della schiavizzazione e dello sfruttamento indiscriminato, nulla di nuovo e di moderno, ma ha mutato definitivamente il tutto in forza-lavoro-mentale salariata, dipendente e subordinata, duttile e flessibile (altri due concetti cari alla retorica liberista), a disposizione dei padroni e delle mutevoli (permanentemente mutevoli) esigenze del capitalismo, delle nuove ed efficienti (grazie alle competenze) produzioni di merci materiali e immateriali. La falsità che la classe operaia sia ridimensionata o addirittura inesistente è smentita dal tragico numero di morti sul lavoro sacrificati al ridimensionamento, questo reale, delle spese per garantire la sicurezza sul lavoro. La verità è che a questa enorme massa di lavoratori si è aggiunta e ampliata una quantità di donne e uomini che dedicano la propria vita al lavoro e alla produzione: l’intellettuale-massa, l’operaio della catena informatica, il nuovo lavoratore “mentale permanente”, preferibilmente precario e flessibile, viene costretto a subire regimi di lavoro davvero insopportabili. Subisce la despecializzazione, la frantumazione e la traumatizzante alienazione dei propri saperi, abilità e “competenze”, quasi a ripercorre il cammino degli sfruttati dell’Ottocento nelle fabbriche e nelle miniere in altre condizioni ambientali. Fu in quel momento che milioni di persone, soprattutto donne nelle industrie (sfatando una volta per tutte con numeri e statistiche, la retorica che il lavoro “pesante” sia stato appannaggio solo degli uomini), affrontarono il passaggio dalla produzione artigianale alla grande fabbrica, costringendo a trasformarsi in lavoratori “specializzati e professionalizzati”, in specialisti dotati finalmente di tecnica, possessori di abilità specifiche e autonomie ideative che la maggior parte erano costretti, nella realtà, a non avere. Erano alienati, donne e uomini disponibili con le loro braccia ad essere erogatori di forza-lavoro manuale “pura”, astratta e indifferenziata. La riflessione e la domanda è questa: non è forse pura e astratta forza-lavoro mentale quella richiesta fatta dalle leggi privatizzanti il rapporto di lavoro nel Pubblico impiego degli ultimi anni, nonché nella scuola? Non è stato molto differente, in sostanza, quando le leggi specifiche rivolte alla scuola nei governi Prodi e D’Alema hanno previsto lo spostamento del “nuovo” lavoratore mentale da un settore all’altro dell’Amministrazione statale, dalla scuola ai Ministeri, dagli Enti locali agli ospedali fino alla scuola, con il passaggio dell’insegnamento di una materia all’altra, con una riconversione che non ha eguali nella storia repubblicana, mentre negli anni precedenti c’era bisogno di un intero ciclo scolastico ventennale e differenziato.
Ed ecco il sistema ormai collaudato dello studente-utente-cliente della nuova scuola pubblica-privata funzionale all’apprendistato del lavoro mentale, salariato e subordinato. L’obiettivo finale di queste politiche è l’apprendistato che il lavoratore deve subire per divenire un soggetto disponibile a un operato mentale flessibile e proletarizzato. Questo processo di aziendalizzazione della scuola e della mercificazione dell’istruzione ha subito un notevole appoggio nei governi di centro-sinistra. Lo stesso Berlinguer sostenne a più riprese quanto “il modello italiano fosse l’unico in Europa a non adattarsi al processo industriale, quando nel mondo l’accesso alle professioni avviene attraverso rapporti diretti con il mondo delle professioni e con l’esercizio pratico del mestiere all’interno del curriculum. Fattore determinante per la crescita della professionalità è il contesto lavorativo, che assume forte vocazione formativa soprattutto in sistemi come quello statunitense e giapponese”. Le trasformazioni alle quali il ministro e tutti quelli che si sono succeduti, con le riforme dei cicli, il sistema delle “3 i” che si riassumevano in una sola e indelebile parola, “impresa”, i tagli massicci e l’eliminazione di “discipline superflue” con la Gelmini, il tentativo della “Buona Scuola” del governo Renzi di rendere la scuola finalmente una protuberanza delle aziende e della produzione, danno l’idea di quello che sta avvenendo nella scuola italiana.
Con la “riforma della scuola”, da Berlinguer a Moratti, da Gelmini a Renzi, fino a Bianchi, la mistificazione del cambiamento e dei tagli ha una storia lunga e collaudata.