di Luca Cangianti
Nicola Puglielli, Guitar solo, Terre Sommerse, 2021, € 13,50.
L’Appia antica, poi un viottolo stretto, infine un sentiero avvolto dal verde. Dopo un centinaio di metri a sinistra si apre un varco tra i cespugli: una vallata dalle infinite ondulazioni accoglie piccole macchie di umani seduti in circolo; alcuni pranzano al sacco, altri fanno ginnastica, una coppia si bacia e una donna prende il sole leggendo un libro. Lontana, una striscia di edifici ci ricorda che siamo a Roma, poco fuori dalle Mura Aureliane, nel Parco della Caffarella. «I boschi, il silenzio, i profumi, le antiche cisterne romane e i ruderi medioevali» dice Nicola Puglielli, «creano un luogo perfetto per pensare musicalmente, senza eccedere in astrazione, però, perché siamo pur sempre in un ambiente urbano».
A questa porzione di Agro romano è dedicata la copertina di Guitar solo, il primo album solistico del chitarrista e compositore capitolino. Si tratta di un lavoro composto da brani propri (come Non scordar la memoria e In the Middle, dall’omonimo album) ed elaborazioni dove le sonorità jazz si mescolano alla ballata (The Ballad of the Fallen, brano per uno studente ucciso in Salvador che dà il titolo a un disco della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e Carla Bley), alla ritmica africana (come il Berimbau che accompagna la capoeira brasiliana), alla messa in musica di un nome composto da note (Mi-c-h-a-e-la) e alla versione jazz di un’aria di un’opera di Giuseppe Verdi (Stride la vampa).
Nei molti rimandi presenti nel tuo lavoro incontriamo anche la musica lirica, una contaminazione che a prima vista può sembrare sorprendente. Come nasce quest’idea?
Nasce dalla mia convinzione che la chitarra è uno strumento particolare nel jazz, molto diverso dal pianoforte, e dal fatto che non sono americano. Ho cercato quindi nel patrimonio musicale italiano una tradizione non cantata che potesse accogliere l’opera di improvvisazione, tipica del jazz. Così, in occasione del bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, mi sono avvicinato a questo compositore con due album incisi insieme ad altri musicisti: Play Verdi e I Trovatori.
La rielaborazione è una caratteristica precipua della musica jazz?
Il tema con variazioni è sempre esistito in musica. Come esempi pensiamo all’Homme armèe che veniva usato da molti compositori rinascimentali come cantus firmus per le messe, oppure al canto popolare Ah! Vous dirai-je, Maman che fu rielaborato perfino da Mozart. Nel jazz questa pratica è valorizzata all’ennesima potenza, anche se a volte si fanno elaborazioni perché mancano idee originali sulla composizione, com’è il caso di molti “tributi”. Inoltre bisogna ricordare che a New Orleans quando i francesi abolirono la schiavitù (per reintrodurla più tardi), i neri andarono ad ascoltare l’opera e di conseguenza tale tradizione musicale entrò in contatto con il brodo culturale di ciò che sarà in seguito il jazz.
Un brano del tuo album si intitola Non scordar la memoria. Perché?
Per due motivi. Il primo è politico: negli ultimi vent’anni il Potere è intervenuto sulla memoria storica nel tentativo di abbattere gli argini che gli impediscono di dilagare in ogni aspetto della vita umana. Il secondo è completamente diverso e riguarda la mia memoria: il ricordo musicato di un amico e di un grande musicista, Massimo Urbani.
Ho ascoltato Guitar solo camminando nella Caffarella e spesso mi dimenticavo che a esser suonata era una singola chitarra.
Che ti devo dire? Questo strumento per me è immenso e permette esplorazioni infinite. Se si è curiosi si scoprono in Brasile, in Russia e in ogni angolo del mondo chitarristi che usano tecniche davvero sorprendenti. Quello che mi interessava era che non si avvertissero mancanze. Volevo improvvisare accompagnandomi. E così durante il lockdown ho passato mesi a suonare, a registrare e a ritornare sui miei passi. Alla fine non sono più andato in studio: ho lavorato a casa con un ipad, una scheda audio e un microfono. Per eliminare un ronzio persistente mi sono perfino legato un filo di rame al polso andando a mettere l’altra estremità sotto il sedere. Ti sembrerà eccessivamente prosaico, ma ha funzionato!
Sei stato direttore artistico di un evento molto particolare, Jazz in Forte, un festival che per quattro edizioni dal 2010 ha portato decine di musicisti, anche molto famosi, in un centro sociale della periferia romana. Cosa conservi di quell’esperienza?
Ricordo l’atmosfera di grande ispirazione che ha investito gli artisti. Il pubblico era quello di Centocelle e il luogo il Forte Prenestino. Si è creata una grande sintonia, senza l’intermediazione dei patron, tipica di certi ambienti jazz. Insomma, credo che siamo riusciti a eliminare l’alone di elitismo che spesso avvolge ingiustamente questo genere. In fondo ci dobbiamo sempre ricordare che noi siamo solo ospiti di questa grande cultura musicale creata dagli schiavi neri deportati nelle Americhe.
[Guitar solo di Nicola Puglielli sarà presentato alla Casa del Jazz di Roma oggi 15 ottobre 2021]