di Mauro Baldrati
(Premessa: non riassumo per l’ennesima volta la trama del film, perché ne esistono innumerevoli versioni sul web; pertanto il testo che segue è da intendersi come una nota-commento.)
Si sono lette recensioni furiose, viscerali di questo film. Sembrava che gli spettatori-recensori si sentissero insultati, offesi dalla sua visione. Qualcuno ha scritto di non essere in grado di reggerne neanche una inquadratura. E non si tratta solo di haters, i demolition men discendenti degli antichi troll; no, le abbiamo lette anche da blogger e giornalisti di quotidiani. Ma non è esagerato? Può un semplice film causare una tale indignazione? Ci si chiede se Tre piani non sia la versione cinematografica dello spaventoso “Necronomicon, dell’arabo pazzo Abdul Alhazred”. Improbabile. Sarebbe un’opera negativa perfetta, un capolavoro horror. Ma il tempo dei capolavori è estinto. E’ stato divorato dal mercato, che si è mangiato l’arte, la politica, l’informazione, la comunicazione, tutto. Per cui sospettiamo che ci sia qualcosa sotto. Un segreto, un codice malato. Ma procediamo con ordine.
Tra gli argomenti dei detrattori, oltre alla banalità, al piattume che regna sovrano, ci sono anche motivazione tecniche, come la recitazione inesistente degli attori-stoccafissi. Riccardo Scamarcio, soprattutto. Di questo personaggio, purtroppo, in passato ho letto tristi dichiarazioni protoleghiste e imbarazzanti dimostrazioni di stima verso Salvini. Non è facile. Però bisogna essere coerenti con quanto si è già scritto, in particolare: “E’ possibile stimare un autore solo per le opere anche se l’uomo (o la donna ovviamente, ma ancora ragioniamo sull’Uomo inteso come specie) ci delude, o addirittura ci fa indignare con le sue miserie? La risposta è sì.” La risposta è sì. Pertanto mi rimbocco le maniche e, dopo avere preso una pillola di Pantorc, sono costretto ad ammettere che Scamarcio interpreta bene il personaggio del padre ossessionato dal sospetto che la figlioletta sia stata molestata dall’anziano vicino cui l’ha affidata. Oppure Alba Rohrwacher nei panni di una madre che vive la solitudine col figlio neonato, e ha strane visioni, è raffinata e credibile. O lo stesso Nanni Moretti, con la maschera di pietra di un giudice integerrimo e severo, che deve gestire e fronteggiare il figlio (un bel pezzo di merda, va detto fuori dai denti) che ha investito una donna sulle strisce pedonali, uccidendola. Questi attori sarebbero stati non-diretti dal regista, che li ha avvolti in un bozzolo di inespressività. Ora, Nanni Moretti può essere criticato per vari aspetti, ma non sulla regia, della quale si può definire un maestro. Sa cosa vuole, e come lo vuole. Conosce gli attori e ne cava le qualità migliori.
Ma a questo punto non voglio disegnare un lato B del Necronomicon tracciando un contro-capolavoro. Tre piani non è certo esente da difetti, alcuni dei semplici dettagli, altri invece strutturali. Per dire, alcune scene sono buttate lì, tanto per fare, o troppo sbrigativamente. Quando “la sciacquetta” Margerita Buy – che si conferma una specialista del personaggio femminile borghese – la moglie del giudice, porta i vestiti del figlio che ha abbandonato la famiglia in una onlus, viene avvicinata dal responsabile, che non ha mai visto prima, che le fa: “Devi venire con me in un posto”. E lei, stupita: “Dove?” E lui (tra l’altro con un’espressione e un tono della voce poco tranquillizzanti): “Lo vedrai”. E lei: “Va bene”. E stop. Oppure, prima di un finale timidamente edificante, spunta una posticcia banda musicale felliniana con seguito di ballerini che lascia un po’ confusi. E, l’aspetto più ambiguo, o più scontato, o più abusato: l’ennesima ambientazione middle class, coi suoi lati oscuri, i suoi retrobottega di contraddizioni e di miserie, che fa pensare: possibile, una ennesima versione della crisi della borghesia?
E veniamo ai codici malati, che forse hanno scatenato la furia di certi recensori. Il film porta argomenti attuali e molto forti, veicolati da un’atmosfera opprimente che non dà tregua. E’ un processo emotivo che perfora, forse in maniera subliminale, che secondo la mia personalissima e opinabilissima opinione causa reazioni di difesa, caricando l’opera di un’antipatia così intensa da renderla insopportabile: l’ossessione morbosa del padre Scamarcio, l’ambiguità che lui vede nel comportamento del vecchio e della figlia, che lo accompagna per anni, senza dargli tregua; poi una svolta inaspettata, forse una vendetta sotterranea, che lo porta ad avere un rapporto sessuale con la nipote minorenne del vecchio, che lo seduce con sfrontatezza adolescenziale; poi la solitudine della gravidanza, il senso di abbandono e di vuoto che può portare la madre alla nevrosi, fino al delirio e alle allucinazioni; infine lo scontro terminale di un padre col figlio, che si rivolta con argomenti giudicati abietti dal padre arcigno, fino ad aggredirlo e prenderlo a calci, e lo strazio della madre che è costretta a scegliere tra il figlio e il marito.
Tutto questo, rappresentato e narrato con la maestria di un regista di grande esperienza, scorre in un’atmosfera cupa e con ritmo lento ma avvincente, quasi da noir. Tuttavia la narrazione assomiglia a un segmento isolato su una retta che procede verso l’infinito, senza un vero inizio, senza un finale (a meno che il pallido tentativo di una redenzione non possa essere definito tale), tanto che lo spettatore coriaceo, già rotto a tutte le spettacolari efferatezze barbariche della modernità, forse per difesa, forse per vendetta, forse per mascherare il proprio torpore mentale sotto una coltre di cinismo, si sente portato a canticchiare col vecchio Vasco: “Voglio trovare un senso a questo film, anche se questo film un senso non ce l’ha”.