di Francesco Festa
Lanfranco Caminiti, Senza, minimum fax, Roma, 2021, pp. 131, € 15,00
“Ci siamo sposati il 14 febbraio del 1970, giorno di San Valentino, festa degli innamorati. Ma era stata una scelta casuale, fissata dal Comune – come casuale il fatto che la piazza del municipio fosse invasa da una manifestazione di protesta per qualcosa che neppure ricordo ma che prendemmo di buon auspicio. Quella volta, davvero, non avevi nulla da mettere e Antonella ti prestò una sua pelliccia che a malapena copriva il pancione – eri già incinta di cinque mesi. Io indossavo un eskimo, quello di ogni giorno. Siamo entrambi molto belli nelle foto, giovani e belli. C’erano i nostri amici più cari, che poi erano i compagni del Collettivo studenti-operai. Nelle foto si vedono stringersi intorno a noi, i pugni alzati – una celebrazione. Eravamo luminosi.” (p. 59)
Quarantaquattro anni dopo uno dei due rami del robusto albero si è spezzato. Un accadimento che cambia per sempre la vita dell’altro, di ramo. Lanfranco e Paola, Paola e Lanfranco. Due nomi che sembrano indissolubilmente legati. Ma, la sorte ha serbato loro un triste destino, venendo meno quel ramo su cui entrambi sono appoggiati, ora ne è rimasto solamente uno, di ramo. Senza, edito per i tipi di “minimum fax”, ha in copertina una finestra aperta su un mare sconfinato, con su scritto “romanzo”. In realtà, questo libro di Lanfranco Caminiti, tanto intenso quanto emozionante è un caleidoscopio di sentimenti e di memorie. Questo libro è un memoir su di un rapporto tenero e dialettico fra due esseri, i quali nonostante l’interruzione continuano a osservare da quella finestra il mare sconfinato. A tratti, in una scrittura tenera e schietta, pare di leggere un manifesto dell’eternità immanente, laica, senza alibi, bensì del presente, qui ed ora. Del resto, ciò che ci manca di chi non c’è più è sempre radicalmente concreto, la nostalgia è sempre una nostalgia della materia. E il vuoto, tutt’altro che un concetto, è una forma altrettanto materiale.
Per altri versi, Senza è una lettura non facile. Non lo è perché l’argomento è trattato in modo diretto e, in molti passaggi, atroci. Caminiti non fa sconti. A sé stesso innanzitutto e al lettore. Non è facile leggerlo perché in alcuni passaggi ripercorrere la sofferenza di una persona che ha amato. In altri passaggi, invece, consente di toccare dolcemente gesti e parole, talvolta anche sapori e odori: è un catalogo di oggetti e parole domestici, in cui la complicità di due parti diviene un noi, ancor più forte, denso, dell’etimologico cum panis.
“Paola non si prendeva cura di me, almeno non nel senso comune della cosa. Lei si prendeva cura di noi. Ma la casa, il frigorifero, la cena, la lampadina fulminata, la scadenza dell’assicurazione dell’automobile, il gancio a cui appendere il quadro – queste cose non avevano il minimo interesse. Il che significava per me – che sono apprensivo e compulsivo – una prateria di minuzie quotidiane di cui ossessionarmi.” (p. 57)
Questo libro non riempie la cavità del dolore e dell’assenza, ma ne traccia i contorni. Nessuno può riempire un’assenza, nemmeno se trova le parole. Però un’assenza si può raccontare. Una letteratura dell’assenza, invero, è difficile da trovare, non ha una bibliografia ampia. Nel leggere Senza, mi sono tornate alla mente alcune poesie raccolte nel libro di Karen Green scritto a distanza di cinque anni dalla morte del marito David Foster Wallace, Il ramo spezzato. È il dolore della mancanza, del vuoto da riempire a tutti i costi senza dannatamente sapere come, scrive Green: “Sogno di starmene sulla riva del mare e non vedere le pieghe delle sue orecchie in ogni conchiglia”. Che è anche impotenza e insufficienza. “L’affermazione di non essere stati abbastanza per essere un noi bastante.” Così come l’autrice raccoglie l’intimità. “È dura ricordare le cose tenere con tenerezza”. Questi libri, seppur differenti nello stile e nelle storie, sembrano comunque delle lettere d’amore inferocite, inni a corpi amati.
È dura, infatti, ricordare le cose tenere con tenerezza quando tutta quella tenerezza, quell’amore, quel soccorso sembra non essere bastato a trattenere il corpo amato, la donna amata.
“Ho avuto altre donne, dopo.” Confida Caminiti: “Le ho abbracciate, ho intrecciato le mie mani con le loro, le ho accarezzate, i nostri corpi si sono stretti. Non ho mai avvertito la presenza di Paola, il suo corpo tra noi. Dopo, a volte sentivo come avessi compiuto un tradimento, un tradimento senza adulterio; altre volte, mi dicevo che lei stessa alla fine avrebbe voluto – devi andare avanti, la solitudine ti intossica. La vita continua – quante volte me lo sono sentito dire. Mi è capitato di dirlo anch’io – e ha un suono diverso. C’è un che di spietato. E invece, la vita finisce. È la morte che continua, che è per sempre.”
La sensazione più marcata che Senza traduce in parole è il disorientamento dopo una perdita, la difficoltà di mettere a fuoco, ma anche la bellezza di un amore che dura per sempre, di un filo che non si trancia, e di un ramo che, seppur rotto, riesce ancora a sostenere i sentimenti dell’attesa di chi resta.
“Avevo tante cose da raccontarti. Stendesti la mano, mi accarezzasti una guancia, mi asciugasti le lacrime. Vado, sussurrasti. Fai con calma, ti aspetto”. (p. 131)