di Giovanni Iozzoli
Francesco Giliani, La guerra nascosta. L’Italia nella crociata contro la Russia sovietica (1918-1920), Red Star Press, Roma, 2021, pp. 365, € 25,00
La guerra nascosta è un saggio rigoroso e documentato, su un tema assolutamente trascurato dalla storiografia moderna: l’assalto armato mosso da più di venti eserciti contro la rivoluzione d’Ottobre – un’aggressione iniziata nei mesi immediatamente successivi alla conquista bolscevica del potere e protrattasi, in forme diverse, per circa un biennio. Un impegno che coinvolse di migliaia di militari, armamenti, mercenari, risorse ingentissime investite in una guerra non dichiarata – nascosta appunto – che avrebbe dovuto ribaltare il processo rivoluzionario e stringere un cordone sanitario, dall’Ucraina alla Siberia, che isolasse il contagio bolscevico dal resto d’Europa. Sulle ragioni circa la persistente eclissi storiografica della “guerra all’Ottobre” – sanguinosa appendice del primo conflitto mondiale – Giliani non ha dubbi: nascondere quella stagione è necessario per accreditare la vulgata “putschista” attraverso cui, da più di vent’anni, gli storici stanno cercando di ridefinire il senso della rivoluzione e il leninismo. Leggere l’Ottobre rosso come l’esito di un golpe – e quindi schiacciare tutta l’epopea sovietica dentro la categoria del totalitarismo – è uno degli sforzi orwelliani attraverso cui i vincitori del 1989 stanno riscrivendo la storia, cancellando ciò che non è gradito e operando torsioni di senso e verità. Ma tale sforzo potrebbe inciampare nei fatti che, leninisticamente, continuano ad avere la testa dura: come avrebbero potuto un pugno di putschisti resistere all’assalto congiunto di vincitori e sconfitti della prima guerra mondiale – Inghilterra, Francia, Italia, Usa, Germania – se non con la forza ideale e di massa del popolo russo dietro alla spalle?
Quando si parla della “guerra civile” o della stagione del comunismo di guerra, a cui si dedica qualche paragrafo en passant nei libri di storia del 900, non si dice in realtà niente della quantità di sangue, sofferenza ed eroismo che il popolo russo fu costretto ad impegnare per salvare la sua rivoluzione e l’indipendenza stessa della nazione nuova nata tra il febbraio e l’ottobre.
Limitarsi a definire guerra civile l’insieme delle operazioni militari che sconvolgono la Russia tra la fine del 1917 e il 1922, è una semplificazione che ne riduce la sostanza allo scontro tra Rossi e Bianchi. In realtà, schierati contro la rivoluzione, non ci sono solo russi Bianchi, ma anche soldati francesi, britannici, rumeni, greci, americani, estoni, lituani, italiani, cinesi, australiani, giapponesi, canadesi, cecoslovacchi, polacchi, serbi, finlandesi, tedeschi, austriaci, turchi, bulgari, svedesi, eserciti di nazioni appartenenti a schieramenti opposti nella Prima Guerra mondiale o a paesi che in questo conflitto si ritrovano uniti in una causa comune, efficacemente sintetizzata d Churchill: il Bolscevismo deve essere strangolato nella culla. Tra queste potenze non mancano conflitti, ma essi riguardano la spartizione dell’eventuale bottino e il metodo più efficace per spazzare via il bolscevismo. D’altra parte, nell’Armata Rossa confluiscono battaglioni internazionali nei quali si battono uomini appartenenti fino a 15-20 nazionalità differenti. Si tratta di ex prigionieri di guerra degli imperi austro-ungarico e germanico che guadagnano la libertà con la Rivoluzione d’Ottobre e si arruolano come volontari, ma anche di migliaia di lavoratori immigrati in Russia – soprattutto cinesi e coreani, ma vi sono persino dei belgi – che vedono nei primi passi del regime sovietico una speranza. Le terre dell’ex impero zarista, insomma, diventano l’epicentro di una guerra civile internazionale, forma concreta della lotta di classe. (pp. 74-75)
Il lavoro di ricerca di Giliani – e fortunatamente di altri studiosi – tende proprio a contrastare questa deriva ideologica che cerca di seppellire l’Ottobre nella “damnatio memoriae” del totalitarismo. E fanno riflettere le centinaia di frammenti d’epoca – dispacci diplomatici, discorsi parlamentari, editoriali, memorialistica – che dimostrano come in occidente, all’indomani della presa del potere dei Soviet, ogni contrasto interimperialistico – quelli per i quali la Grande Guerra aveva seminato milioni di morti – venisse accantonato per affrontare, compattamente uniti, la nuova crociata antibolscevica.
Nella prima parte del libro, Giliani ricostruisce effiacemente il contesto culturale e ideologico europeo su cui gli eventi russi con tanta veemenza impattarono: la realtà di una rivoluzione di operai, soldati e contadini, suscitava nelle elite europee narrazioni terrorizzate, indignate, piene di disprezzo e paura. Le nazioni “civili” resuscitavano l’eterno spettro della “barbarie asiatica” – nemica della proprietà e della morale – come minaccia incombente sulla cultura e la civiltà europea. Certo, la voglia di crociata doveva misurarsi con la necessità di non sbandierare in modo troppo esplicito l’impegno militare controrivoluzionario: l’Ottobre rosso godeva di enorme popolarità tra le masse lavoratrici europee, attratte dalle bandire leniniste, che avevano letteralmente sconvolto l’ordine internazionale e la storia politica del continente. Le borghesie nazionali tremavano all’idea che i soldati – reduci dal fronte orientale – potessero importare il contagio bolscevico al rientro nei propri paesi. L’esempio dei soldati e marinai russi che si ammutinavano e organizzavano i loro soviet, volgendo le baionette contro i propri generale, fu probabilmente l’incubo più persistente per quella generazione di politici, finanzieri, industriali e diplomatici.
Lo spavento provato viene ricordato significativamente da un monarchico, Oleg Volkov, il cui padre dirige una grande fabbrica d’armi, quando scrive che «dagli strati più profondi delle masse popolari, cresceva qualcosa di spaventoso, che risvegliava il ricordo delle rivolte contadine vissute dai nostri antenati». La profondità della crisi sociale non sfugge a nessuno (…) L’odio sociale che erge l’una contro l’altra armate le principali classi sociali russe non è solo il prodotto della guerra mondiale, che pure vi ha contribuito potentemente, ma anche dei conti in sospeso tramandati dalle precedenti esplosioni sociali. La violenza sociale di operai, contadini e soldati nella guerra civile è il prodotto della congiunzione tra oppressioni secolari e la distruzione prodotta da una guerra che ha piombato milioni di soldati-contadini in condizioni disumane. Il loro odio verso coloro che ritengono responsabili di questa situazione, gli ufficiali e tutti coloro coloro in qualche modo collegati alla macchina statale, è ampiamente ricambiato. (p. 77)
Il contributo italiano alla “guerra nascosta” – sostanziato da due spedizioni militari di diverse migliaia di uomini, spesso inconsapevoli della loro mission e delle ragioni per cui si trovavano in quei territori così lontani, a guerra finita – comprende la consueta sfilza di bugie, mezze verità e rimozioni, che in questo paese è prassi di governo in ogni epoca. Come gli altri corpi di spedizione, anche quelli italiani saranno segnati da insubordinazione e forti resistenze a lasciarsi coinvolgere in un ruolo attivo a sostegno del composito fronte dei Bianchi – a cui la maggior parte dei soldati si sente estranea e ostile. Anche i generali italiani sono terrorizzati dallo spettro bolscevico, soprattutto quelli che potrebbero portare tra le proprie fila gli Irredenti – ex prigioneri austriaci italofoni, liberati dalla Russia e frettolosamente integrati nelle compagnie italiane – i quali potrebbero essere stati “infettati” dalla prolungata vicinanza con le idee internazionalistiche del bolscevismo. Migliaia di essi avevano già scelto, con il crollo dello zarismo, di passare dalla parte della Rivoluzione.
In questo frenetico flusso di umanità in divisa si aggiunge anche un’altra componente:
Nel corso dell’avanzata finale dell’ottobre/novembre 1918 contro l’impero austroungarico, l’esercito italiano incorpora decine di migliaia di prigionieri di guerra degli austriaci. Seimila di essi sono ex soldati dell’esercito zarista e vengono sottoposti al controllo delle autorità italiane. A fine novembre 1918 Pietro Badoglio, allora vice-capo di Stato Maggiore, informa il governo che quei prigionieri saranno spediti in campi di concentramento dove «dovrà essere evitato tassativamente ogni loro contatto con popolazioni civili ed il loro impiego in lavori» (…) Il luogo prescelto sarebbe stato l’isola dell’Asinara. (p. 301)
Il governo italiano si adopererà affinché emissari del fronte dei Bianchi in Europa provino, con scarso successo, a organizzare una campagna di di indottrinamento antibolscevico su questi prigionieri, allo scopo di reimbarcarli verso il fronte interno, a combattere il governo dei Soviet. I Bianchi non hanno alcuna base di sostegno però, nel largo mondo dei prigionieri ex zaristi: in Italia come in Francia, la gran parte di loro sceglierà il rimpatrio nella nuova Russia sovietica.
L’intera vicenda dell’impegno militare in Russia, vedrà anche i governi italiani adottare un basso profilo, nel timore che un paese in fermento, possa rivoltarsi all’idea di truppe mandate a combattere un governo rivoluzionario a migliaia di chilometri dall’Italia. Imponenti scioperi o campagne di agitazione contro l’ingerenza militare occidentale in Russia scuotevano l’ Inghilterra, la Francia, la Grecia e l’Italia. Il bolscevismo non stava solo vincendo sul campo, ma anche nella coscienza delle classi lavoratrici in tutta Europa.
Le prospettive di lotta in Italia, analizza il PSI, sono intrecciate con quanto si produce nei campi di battaglia in Russia. Quando The Times allude all’eventualità di un cambio di tattica, ovvero il passaggio dall’intervento militare al blocco commerciale, la stampa socialista precisa che non si tratta solo di ritirare i soldati e cessare gli aiuti ai bianchi, ma bisogna insistere per la ripresa di normali relazioni commerciali con la Russia dei Soviet e vegliare sulla manipolazione delle piccole e giovani azioni di confine (Polonia, Stati baltici, Repubbliche caucasiche) da parte dell’Intesa, tentata dall’organizzare una guerra per procura. Sul terreno della controinformazione, la stampa socialista non molla la presa, in particolare sulla questione del consenso dei Rossi (…) Sin dall’inizio del 1919, nel PSI emergono voci che richiedono una campagna più organizzata e capillare contro l’intervento in Russia. Compaiono anche le prime valutazioni sostanzialmente corrette della forza militare Alleata dispiegata nella guerra civile dal lato dei Bianchi. Le ragioni addotte dai governi dei paesi dell’Intesa per giustificare pubblicamente il proprio intervento militare in Russia sono criticate alla radice come fraseologia democratica che copre interessi sordidi. Infatti, scrive Vodovozof (sull’Avanti), «esauritasi la forza d’urto del gendarme tedesco, al suo posto, contrariamente ad ogni norma dello stesso diritto borghese internazionale, intervenne l’Intesa, senza neanche una dichiarazione di guerra. Occupò territori, formò governi, prendendo al proprio soldo i peggiori rappresentanti della reazione zarista; fornì truppe, munizioni, denaro, approvvigionamenti, spendendo miliardi» (p. 283).
Il 21 luglio del 1919, una mobilitazione internazionale produrrà scioperi e manifestazioni in tutta Europa, facendo addirittura temere che possa rappresentare l’innesco di una bolscevizzazione delle masse sindacalizzate europee. In Italia non mancarono scioperi dei portuali, da Genova a Napoli a La Spezia, per bloccare la spedizione organizzata dalle forze dell’Intesa, di armi ed esplosivi verso i fronti Bianchi contro rivoluzionari
Il racconto della “guerra nascosta” parla anche del nostro presente attraverso il disvelamento del vero significato storico delle guerre imperialiste, che amano sempre ammantarsi, ieri come oggi, di concetti umanitari, obiettivi di civiltà, retoriche liberali, arrivando in tempi recenti persino a camuffare i bombardamenti e le occupazioni militari come “operazioni di polizia internazionale” o “peace-keeping” o “nation-building, e altre definizioni fantasiose che la propaganda bellicista riesce a inventare, a giustificazione delle sue campagne. Quanto ai ricercatori indipendenti come Giliani, abbastanza estranei ai circuiti accademici e ai flussi di finanziamenti che essi orientano, deve andare la riconoscenza di tutti coloro che non si rassegnano alla riscrittura unilaterale della storia da parte dei vincitori.
La guerra civile russa riconduce, in forma estrema, la lotta politica all’antagonismo di classe fondamentale in ogni società capitalistica. Lo studio dell’intervento armato dell’Intesa in Russia, a sua volta, mette a nudo i procedimenti retorici e le finzioni politiche sulle quali si regge la democrazia parlamentare in un regime fondato sulla proprietà privata. Dalla giustizia alla civiltà, dalla libertà alla democrazia, nessuno di questi veli ideologici rimane in piedi nel corso della guerra civile. La difesa delle ricchezze possedute dalla minoranza privilegiata della società induce le azioni più violente, l’aiuto ai personaggi più oscuri e le fabbricazioni giornalistiche più grossolane, senza alcun freno politico o morale. Proprio per questo i governi liberali dell’epoca di Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Italia, hanno parlato il meno possibile dell’appoggio da loro fornito a reazionari antisemiti come Kolcak o Denikin. Ma se in quella battaglia i governi dell’Intesa dovettero nascondere, almeno parzialmente, la propria bandiera ciò fu indice di debolezza e non di scarsa attenzione per quel conflitto. E non studiare quella debolezza o rimuoverla con intimazioni a superare “abusati schemi ideologici”, come ha fatto la storiografia italiana a parte rare eccezioni, È un atto politico e non una casuale dimenticanza. E’ l’espressione di una storiografia funzionale allo status quo. (p. 344)