Mondadori, Milano 2021, pagg 347 € 17
di Mauro Baldrati
La scrittura materialista negli ultimi decenni si è arricchita di nuovi generi: si sono aggiunti il crime, l’action thriller, il thriller storico e così via. Questo romanzo si inserisce a pieno titolo nel nobile genere del giallo. Ma cosa qualifica il giallo, per esempio nei confronti del noir? C’è un delitto, un’indagine, un investigatore, degli indizi. E una struttura, che sta alla base dell’operato dell’investigatore: il magistrato, il questore, i colleghi, coi quali l’investigatore deve rapportarsi. Il noir amplifica il male, e risale la “filiera”; il male sociale si espande, infetta tutta la struttura. L’autore più rappresentativo di questo genere è certamente James Ellroy, dove tutto è malato e corrotto, non esiste un solo personaggio positivo, non c’è un raggio di luce né un filo d’aria fresca. Ma il giallo moderno, di cui Varesi è un esponente di spicco, si rinnova, e si fa contaminare dal noir: la struttura non è così “pulita” come nel giallo classico novecentesco. In Reo confesso ci sono due poliziotti corrotti che fanno trapelare notizie riservate, un questore che pensa soprattutto a fare bella figura coi media, e soprattutto a chiudere un’indagine che sembra la più semplice della storia. Si potrebbe definire un “delitto chiavi in mano”.
La chiave è Roberto Ferrari, “una specie di fagotto” che il protagonista seriale di Varesi, il commissario Soneri, trova un mattino steso su una panchina. E’ la prima rappresentazione di alcuni personaggi dostoevskiani che popolano il romanzo. L’apparizione, e il dialogo, fanno pensare a Le notti bianche, quando il narratore incontra una ragazza e parte una serie di dialoghi surreali, considerazioni sulla vita, sui sentimenti; dialoghi eccentrici e profondi in una Pietroburgo notturna, deserta, quasi spettrale. Qui siamo in una Parma che ci accompagna per tutta la lettura con pennellate veloci ma espressioniste, inebriata da una nebbia perenne, dove “figure comparivano e si dissolvevano come pensieri notturni.” Una nebbia che “piega lo spazio tra le facciate delle case alla maniera di una lente deformante. La nebbia e il suo straniamento cancellano ogni prevedibilità, ogni certezza.”
Ogni prevedibilità, ogni certezza. Ed è proprio il fagotto umano, Roberto Ferrari, che le cancella con la sua confessione inaspettata. Così, all’improvviso, dopo avere ringraziato Soneri per averlo soccorso, mentre il resto del mondo passa e va, imprigionato nella camicia di forza dell’indifferenza, confessa, “con sorprendente serenità”, mentre dalla vicina chiesa risuonano le campane a morto: “Ho ucciso un uomo.”
Da qui parte la storia. Da qui inizia l’indagine del giallo. Ferrari ha la tutta vicenda sotto controllo. Confessa, fornisce gli indizi, la posizione dell’arma del delitto, l’orario, il movente, tutto. In pratica l’indagine è inutile, tutti i pezzi sono al loro posto, ogni gesto, ogni dettaglio sono posizionati con ordine in un puzzle già composto. Ovviamente gli attori della struttura sono euforici, un delitto già risolto, il colpevole già arrestato. Il questore non vede l’ora di comunicarlo ai media, il Gip considera la pratica chiusa.
Tutti, ma non Soneri. Troppo facile. Addirittura scontato. Sembra che Ferrari abbia tracciato un itinerario per condurre gli inquirenti dove vuole lui, ovvero la risoluzione di un caso semplice che non necessita di indagini aggiuntive. Tutti sono tranquilli e sazi, ma Soneri non molla. Qualcosa non è chiaro. Qualcosa non è come sembra.
L’autore, dietro le quinte, dissemina la storia, che nella sua apparente semplicità diventa sempre più complessa e contorta, di indizi, sparigliati e sparpagliati secondo una casualità scalena; questo sistema impenetrabile perseguita Soneri durante le sue peregrinazioni per le vie della città, i locali, i ristoranti, dove consuma i piatti della gastronomia tradizionale emiliana: salumi, tortelli e tortellini, innaffiati con generose bicchierate di sauvignon e di bonarda. Si sente oppresso, si sente fallito, perché tutto sembra procedere al contrario: “Prova a immaginare il mondo che si ribalta: il leone sbranato dalla gazzella, il fiume che risale il monte e svuota il mare, il sole che bagna e l’acqua che asciuga…”
Intanto fanno la loro comparsi altri personaggi dostoevskiani, come Sbarazza, nobile decaduto che ha perduto i soldi ma non la sua adorazione della bellezza (“non riesco a stare senza la bellezza”): frequenta un ristorante dove siede ai tavoli ancora apparecchiati, beve dai bicchieri dove c’è l’impronta del rossetto di una signora, lo sfiora con le labbra e si inebria del suo sapore, dell’odore del suo tovagliolo usato. Oppure il vecchio Tinelli, l’uomo delle fogne che restituiva il pallone a Soneri e ai suoi amici ragazzini, una specie di memoria storica della “merda”: “I popolani e gli ex contadini che abitavano da queste parti sapevano cos’era la merda. La loro e quella degli animali che avevano intorno. Adesso fanno finta che non esista. Si profumano spruzzandosi addosso litri di roba, fanno la doccia due volte al giorno e un filo di sudore è una vergogna. Il cesso è la pulizia della loro coscienza.” Oppure lo stesso Malvisi, la vittima di Ferrari, una sorta di personificazione di Stavrogin, “il male morale assoluto”, ladro, truffatore, anima nera dei tempi moderni che usava i capitali dei suoi clienti, ereditati dal padre commercialista virtuoso, per le gozzoviglie nei locali di lusso con escort e cocaina. In quel modo ha sperperato i risparmi di Ferrari, che dovevano servire per un’opera benefica in Africa; ed ecco un movente perfetto.
L’indagine privata di Soneri, che si avventa come un toro contro una rete di certezze fasulle, e di un’indagine parallela su un fantomatico truffatore che sfugge continuamente alla cattura (e che si rivelerà collegata col caso Malvisi-Ferrari), regge per tutte le 347 pagine del romanzo, tenendo ben salda l’attenzione del lettore nella sua ragnatela. E questo lo dobbiamo soprattutto alla qualità della scrittura. Infatti, come sappiamo, nel giallo e nel noir una trama complessa trascinata da una lingua spuria e piatta perde la sua potenza, mentre una trama semplice veicolata col giusto stile fiorisce come i ciclamini dopo un’acquazzone. Qui abbiamo tutto: trama complessa con gli elementi che vorticano come pezzi di frattali nel vuoto pneumatico, mentre la scrittura li rimette a posto, uno per uno, con pazienza, sotto i nostri occhi.