di Paolo Lago
In un intervento uscito su “Carmilla” lo scorso gennaio (Se sono chiuse le eterotopie del sogno), nel momento in cui cinema, teatri, biblioteche e musei erano chiusi, avevo descritto la situazione di una società in cui le “eterotopie del sogno” erano chiuse. Una società in cui veniva meno la possibilità di sognare e di arricchire la propria cultura. A causa della pandemia venivano chiusi dei luoghi in cui ci si poteva ‘assembrare’ e in cui più facilmente si poteva contrarre il virus. Però, ad esempio, centri commerciali e chiese continuavano a restare aperti, e anche in questi spazi ci si può ‘assembrare’ e contrarre il virus. Adesso, la situazione appare molto simile: viene introdotto il cosiddetto “green pass” per poter entrare in cinema, teatri, biblioteche e musei ma non per entrare in centri commerciali e chiese. Due pesi e due misure: al Capitale, teso al guadagno rapido e immediato, poco importa, infatti, della cultura ma gli importa, eccome, di tutti quei luoghi che hanno un immediato ritorno economico. La volontà di tutelare, per mezzo del “green pass”, tutti questi luoghi della cultura suona come un diversivo, come un voler distogliere l’attenzione dai numerosi tagli alla cultura, al cinema e al teatro perpetrati negli anni (per non parlare di quelli ai danni di scuola e università), come a dire: non potete obiettarci nulla, sono luoghi che ci stanno a cuore e quindi li tuteliamo. E le chiese? C’è poco da stupirsi: siamo in Italia, uno dei paesi europei in cui il potere statale è maggiormente asservito alla Chiesa e al Vaticano.
Il concetto di “eterotopia” è stato coniato da Michel Foucault nella sua conferenza dal titolo Des espaces autres, tenuta nel 1967 al “Cercle d’études architecturales”. Secondo lo studioso, agli “spazi altri” (le “eterotopie”) – “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi, ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi stessi designano, riflettono o rispecchiano”1 – appartengono anche cinema, teatri, biblioteche e musei. Cinema e teatri possono essere benissimo definiti come “eterotopie del sogno”: luoghi in cui si dà libero sfogo alla nostra immaginazione, in cui all’interno di uno spazio viene giustapposto un altro spazio, quello della finzione, dell’immaginazione, della fantasia. Del resto, il cinema, come ha evidenziato Edgar Morin nel suo saggio Il cinema o dell’immaginario2, ha sempre avuto un rapporto privilegiato con il sogno. Nella sala buia, il pubblico cinematografico raggiunge quasi uno stato ipnotico, assai vicino ai meccanismi sensoriali che producono la fantasticheria. L’eterotopia del cinema è quindi uno spazio in cui il nostro immaginario raggiunge inesplorati territori legati alla più libera fantasia. La biblioteca e il museo, invece, “sono delle eterotopie peculiari della cultura occidentale del secolo XIX”3, “eterotopie del tempo accumulato all’infinito”4 in cui riconosciamo noi stessi e il nostro passato.
Ora, rendendo tali spazi accessibili soltanto per mezzo di un permesso speciale, avviene una profonda mutazione della tipologia di queste eterotopie. Se non abbiamo del tutto disimparato a pensare siamo anche in grado di astrarci, per pochi attimi, dalla situazione emergenziale pandemica: è necessario infatti analizzare con la maggiore lucidità possibile ogni effetto psicologico, sociale, politico, antropologico dell’introduzione di un permesso speciale per accedere a determinati luoghi che prima potevano essere indifferentemente frequentati da tutti. Non dobbiamo neanche mai dimenticare che l’introduzione di tale permesso crea e creerà indiscutibili situazioni di discriminazione. Secondo Foucault, ci sono diverse tipologie di eterotopie. Ce ne sono alcune che egli denomina “di crisi”, “vale a dire dei luoghi privilegiati, sacri o vietati, riservati agli individui che vivono in uno stato di crisi nei confronti della società e dell’ambiente umano circostante. Gli adolescenti, le donne nel periodo mestruale, le partorienti, i vecchi, ecc.”5. Queste eterotopie di crisi sono dotate di un sistema di apertura e di chiusura: ad esse appartengono anche quei luoghi nei quali si entra se vi si è costretti, come la caserma o la prigione, “oppure occorre sottomettersi a dei riti e a delle purificazioni. Si può entrare solo se si ha un certo permesso e dopo aver compiuto alcuni gesti”6. Perciò – continua Foucault – “alcune eterotopie sono interamente consacrate a queste attività di purificazione, purificazione parzialmente religiosa e parzialmente igienica, come nei bagni turchi dei musulmani, oppure purificazione in apparenza puramente igienica, come nelle saune scandinave”7.
Le eterotopie del sogno si trasformano in eterotopie di crisi, in una sorta di “eterotopie di purificazione” per entrare nelle quali occorre avere un certo permesso e compiere determinati gesti. Gli stessi spazi del cinema, del teatro, della biblioteca e del museo si trasformano, quasi, in spazi di crisi. Entrano, cioè, in un rapporto di crisi con il resto dello spazio: si passa infatti da un luogo liberamente accessibile a uno non accessibile. Viene, se così si può dire, utilizzando una terminologia di Deleuze e Guattari, reso “striato” lo spazio per mezzo di un complesso sistema di griglie di controllo. Ci sono poi i treni: anche per entrare sui treni a lunga percorrenza è necessario il “green pass” (mentre, paradossalmente, sui locali e regionali, assai più frequentati, non è necessario). Ora, secondo Foucault, anche il treno è un particolare tipo di eterotopia, uno spazio di passaggio: “il treno è uno straordinario fascio di relazioni, perché è qualcosa attraverso cui si passa, ma è anche qualcosa con cui si passare da un punto a un altro e, infine, qualcosa che passa”8. La necessità di un permesso per accedere al treno, un permesso diverso da un qualsiasi comune biglietto, scardina completamente quel “fascio di relazioni”, trasformando lo stesso treno in una eterotopia di crisi, in netta rottura con il resto dello spazio. Il treno non è più un sistema di relazioni che si sposta in una dislocazione, nel libero movimento continuo che caratterizza la contemporaneità, ma un luogo che entra in crisi con la spazialità circostante, poiché in esso vigono le stesse regole di una eterotopia di purificazione: bisogna avere un permesso, bisogna compiere dei particolari gesti. Se la nave, secondo Foucault, si configura come “la più grande riserva di immaginazione”9, tale può essere anche il treno: nelle civiltà senza navi – dice lo studioso – “i sogni si inaridiscono, lo spionaggio prende il posto dell’avventura e la polizia quello dei corsari”10. Come afferma in una successiva versione radiofonica della sua conferenza, “lo squallore della polizia prende il posto dell’assolata bellezza dei corsari”11. Il treno è assai presente nell’immaginario letterario e, da Baudelaire a Jules Verne, da Kafka a Thomas Mann, ha sempre rappresentato uno spazio saturo di immaginazione, spalancato verso nuovi orizzonti di libertà nonché verso popolazioni esotiche e sconosciute. Per mezzo dell’obbligo del “green pass” sui treni a lunga percorrenza il controllo poliziesco si impossessa definitivamente di quel poco di immaginario di libertà che ancora avvolgeva i contemporanei viaggi in treno, connotati sempre di più da una spersonalizzante alta velocità.
Questo cambiamento forzato degli spazi eterotopici provoca appunto una “crisi” all’interno degli interstizi sociali: una dinamica di inclusione / esclusione che, come dimostra lo stesso Foucault ne L’ordine del discorso, caratterizza anche i discorsi e le parole. Se le eterotopie del sogno e del viaggio diventano di crisi, ciò significa che è in crisi anche lo spazio che sta al di fuori di esse. Tutti gli individui – anche coloro che posseggono il famigerato permesso – che cercano di entrare in contatto con questi spazi eterotopici del sogno liberando la propria immaginazione nella sala buia di un cinema o di un teatro, che cercano se stessi o il loro passato nelle sale illuminate di un museo o in quelle silenziose di una biblioteca, si troveranno in una situazione di crisi. Il rapporto fra l’eterotopia e il ‘fuori’ cambia e diviene problematico: ecco perché, a mio avviso, queste riflessioni sono quanto mai necessarie, dettate né più né meno che da lucidità e razionalità, lontane dal profondo clima di irrazionalità che si respira in questo periodo. La società moderna e postmoderna messa in luce da Foucault viene superata, il funzionamento di quelle eterotopie descritte dallo studioso sta mutando inesorabilmente. Ora non sappiamo con certezza come e in quale direzione. L’importante è che le eterotopie del sogno, in una nuova società digitalizzata, non si trasformino in pervasive eterotopie dell’incubo.
M. Foucault, Eterotopie, in Id., Estetica dell’esistenza, etica, politica. Archivio Foucault 3. Interventi, colloqui, interviste. 1978-1985, trad. it. Feltrinelli, Milano, 2020, p. 310. ↩
E. Morin, Le cinéma ou l’homme imaginaire. Essai d’anthropologie sociologique, Minuit, Paris, 1956, trad. it. Il cinema o dell’immaginario, Bompiani, Milano, 1962. ↩
M. Foucault, Eterotopie, cit., p. 314. ↩
Ibid. ↩
Ivi, p. 311. ↩
Ivi, p. 314. ↩
Ivi, pp. 314-315. ↩
Ivi, p. 310. ↩
Ivi, p. 316 ↩
Ibid. ↩
Id., Utopie Eterotopie, a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli, 2011, p. 28. ↩