di Luca Baiada
23 agosto 1944, nel Padule di Fucecchio, la palude interna più grande d’Italia. I tedeschi, guidati da fascisti italiani, commettono uno dei massacri più gravi e meno noti: 174 persone, la più piccola di quattro mesi. Malgrado i processi (tre dopo la guerra e uno in questo secolo), in concreto nessuno sarà punito e i parenti delle vittime non saranno risarciti. Resteranno a loro carico anche le spese per gli avvocati di parte civile, raccolte alla meglio in collette tra le famiglie. La strage, allora, le fece precipitare dalla condizione di modesti contadini a quella di lavoratori ancora più sfruttati, scaraventati in difficoltà ignote al loro mondo arcaico, lacerati da traumi che nel linguaggio dei loro giorni fuori del tempo non avevano neanche un nome.
Malgrado la vastità del crimine, il suo tratto particolarmente vigliacco (gli assassini girano intorno alla palude uccidendo nella zona di gronda, abitata da agricoltori e sfollati, ed evitando i partigiani), e il fatto che furono colpiti vari Comuni, ancora adesso pochi associano il nome di Fucecchio a questo fatto. Parlando di Fucecchio è più comodo pensare a Indro Montanelli, giornalista abile a sopravvivere in tutti i regimi, che nel ’47 seguì uno dei processi per il «Corriere d’informazione» e scrisse cose vaghe, per poi trascurare una vicenda che invece era rimasta impressa nelle carni di un’intera comunità.
Diceva bene Walter Benjamin, neanche i morti stanno al sicuro. La memoria è un arnese politico così ambiguo che è difficile ricordarsi quando sia arrivata, anche se è certo che non è sempre stata fra i numi tutelari, come oggi. Quei morti di Fucecchio, quasi tutti poveri (però c’erano la figlia di un gioielliere fiorentino di Ponte Vecchio, un paio di aristocratici e qualche possidente), negli ultimi anni sono diventati ombre cinesi manovrabili, protagonisti non interpellati di iniziative culturali, per lo più di dubbio gusto; sono finanziate con poca spesa dalla Germania, che si guarda bene dal risarcire i sopravvissuti e i familiari. Costa molto meno restaurare monumenti, fare discorsi, stampare libri come quello distribuito alla commemorazione due anni fa, con l’Ambasciata tedesca già in copertina, tanto per essere chiari.
Eppure ce ne sono ancora, di familiari: vivi e dolenti come allora, più di allora, perché un bambino conta su energie e aspettative che un anziano ha consumato. Un anziano ha visto prosperare gli eredi politici del fascismo, ha notato l’arricchimento dei collaborazionisti di allora, ha ascoltato le retoriche di circostanza di personaggi pubblici in cerca di un po’ di visibilità. Titolo felice, La tregua di Primo Levi; ma per le vittime delle stragi non è mai neanche cominciata, e i racconti dei più vecchi trascorrono ininterrotti dagli stenti della guerra alla strage e al peso di una vita, passando per le prepotenze dei fascisti da subito dopo la Liberazione.
Nel 2019 i familiari hanno creduto al presidente della Regione Toscana, Enrico Rossi. Proprio alla commemorazione di questa strage aveva ricordato la mancata giustizia da parte della Germania, e poi su un giornale: «L’Armadio della vergogna c’è. E il nostro paese non si è mosso come avrebbe dovuto. Perché le sentenze, contro i mandanti di quelle stragi, non sono state portate a esecuzione. È una vergogna, questa, che ci portiamo dietro, come Italia. E come Regione Toscana siamo disposti a fare ancora di più per arrivare a una degna conclusione. Lo dobbiamo alle vittime, ai superstiti e ai loro familiari». Ancora a fine 2019, su Facebook: «Metterò tutto il mio impegno per affiancare i familiari delle vittime delle stragi naziste nella loro richiesta di risarcimento alla Germania e verificare la possibilità di far costituire la Regione stessa. Ci incontreremo a breve per una risposta ufficiale». Bene per essersi accorto che l’Armadio della vergogna, l’archivio coi fascicoli sulle stragi rifrequentato a partire dagli anni Novanta, esiste; bene per la giustizia ancora possibile, quella economica. E quest’anno anche il nuovo presidente, Eugenio Giani, ha preso posizione.
Sempre nel 2019 un convegno in Senato, Stragi e deportazioni nazifasciste: per la giustizia e contro l’ambiguità, aveva offerto qualcosa di inedito, in Italia: nel Palazzo un incontro per mettere sulla graticola le conseguenze di crimini sprofondati nel Novecento, per giudicare la storia. Le vittime erano venute in torpedone da lontano, col vestito buono, la cravatta che senza non ti fanno entrare. Il viaggio a Roma, tutto per loro. Lì, nella sala Koch che è di tutti, un presidente emerito della Corte costituzionale aveva parlato con una franchezza lontana dal linguaggio curiale dei pochi: «Tutte queste tecnicalità che sono state opposte alle aspettative, alle speranze delle vittime – le formule giuridiche non danno nemmeno il senso di quanto siano gravi queste atrocità – non vorrei dire sviliscono, ma mettono una luce abbastanza fredda su tutte queste cose». Quel giorno, l’ex presidente della Consulta aveva messo il dito nell’occhio all’ipocrisia, alla condiscendenza nei confronti degli interessi di Berlino, indicando un’evoluzione necessaria in Italia e nel mondo: «Di fatto c’è il riconoscimento, nella coscienza della comunità internazionale, del valore dei diritti fondamentali della persona in quanto tale, senza divisa, senza conto in banca. […] I diritti fondamentali sono cresciuti, nella coscienza civile della comunità internazionale complessivamente considerata».
Quel giurista senza peli sulla lingua, Giuseppe Tesauro, da qualche settimana non è più con noi. L’impegno continua anche nel suo nome, la strada che ha indicato è in salita ma percorribile. Passa da dove meno te l’aspetti. Quest’anno un tribunale della Corea del Sud ha condannato il Giappone a risarcire le comfort women, le schiave sessuali dei militari nipponici durante la guerra mondiale. Donne che hanno fatto causa personalmente, anni fa, raccontando storie spaventose; nel frattempo sono morte e i crediti sono passati agli eredi. Certi argomenti del Giappone per non pagare somigliano, pensa un po’, a quelli della Germania; esecrazione, propositi, accademia: «Ribadiamo la nostra ferma determinazione a non ripetere mai più lo stesso errore, scolpendo per sempre questi temi nella nostra memoria mediante lo studio e l’insegnamento della storia», dice Tokyo. Siamo alle solite. Ma la sentenza coreana cita proprio quella della Corte costituzionale italiana del 2014, l’ultima scritta da Tesauro. Possibile che il buon lavoro fatto a Roma lo intendano meglio a Seoul che qui? In Corea si è capito che il diritto può cambiare: «La dottrina dell’immunità statale non è permanente né statica. Si evolve continuamente secondo i cambiamenti dell’ordine internazionale».
Se non si fa giustizia sui crimini nazisti, come si può chiederla per altri delitti di Stato? Non è diatriba sul passato. Riguarda il presente: Andrea Rocchelli, Giulio Regeni, Daphne Caruana Galizia, Jamal Khashoggi. E riguarda il futuro: il mai più che fa scattare gli applausi alle commemorazioni – suono beffardo, mentre si sa che le democrazie sbiadiscono e il potere è sempre più irresponsabile – ha il sottinteso di un salvacondotto a ripetere, magari in dosi limitate, studiate per il delitto esemplare, per la pedagogia del sangue. Rocchelli non documenti, Regeni non studi, Caruana Galizia stia zitta e Khashoggi si faccia i fatti suoi.
Un’altra attesa ha un sapore toscano. A febbraio 2020, a Montecitorio, c’è la cerimonia conclusiva del premio Giustolisi «Giustizia e verità» edizione 2019. Franco Giustolisi era il giornalista che si batteva per far conoscere l’Armadio della vergogna, era una penna battagliera che cercava di spezzare il silenzio. Alla cerimonia di nuovo Enrico Rossi, ancora presidente, annuncia il trasferimento dell’archivio Giustolisi a Firenze a cura della Regione; si tratta di renderlo accessibile, riordinarlo e trasformarlo in un centro studi. Rossi indica la sede, il vecchio ospedale di San Giovanni di Dio. La cosa è importante, e Giustolisi è mancato nel 2014.
Chissà se l’anniversario 2021 della strage del Padule si lascerà dietro qualche altra amarezza. Forse discorsi come la memoria attiva, la memoria proattiva, il lenimento. Magari parole come quelle che Ursula von der Leyen, ex ministra della difesa di Berlino e oggi presidente della Commissione europea, ha detto lo scorso luglio a Fossoli, per l’anniversario di un’altra strage, quella di Cibeno, 67 morti. Niente sulla giustizia ma toni a effetto: gli accadimenti insondabili, il sacrificio, l’abisso del male, linguaggio vertiginoso che non costa nulla. E anche qualcosa di imbarazzante: «Invece di combatterci, come abbiamo fatto per secoli, ora ci sosteniamo a vicenda di fronte alle avversità. Il governo italiano ha dato vita a un solido piano di recupero con investimenti e riforme, e l’Europa lo finanzia con oltre duecento miliardi di euro. I primi fondi, raccolti dall’UE, sono arrivati in Italia all’inizio del mese».
Combatterci per secoli? Se la presidente si riferisce ai tanti conflitti europei, non si capisce cosa c’entri il debito tedesco verso le vittime di strage in Italia. Se si tratta dei rapporti fra Italia e Germania, sembra di sentire certe dottrine correnti nel Risorgimento. Per esempio Cesare Balbo, nel Sommario della storia d’Italia che piaceva a Giuseppe Giusti e Massimo D’Azeglio, poneva l’inizio delle guerre d’indipendenza nella vittoria di Teodorico su Odoacre. Forzature, ma spiegabili, al tempo in cui si costruiva una base politico-culturale per l’unità italiana. Adesso quella lettura della storia diventa pazzesca: avvicina la Seconda guerra mondiale (con la Resistenza, un fatto che divide nettamente i due paesi) a una serie plurisecolare di guerre qualsiasi, com’è tipico del revisionismo. Un atteggiamento coerente, in fondo: nel suo documento alla vigilia dell’incarico continentale, Un’Unione più ambiziosa: Il mio programma per l’Europa – dove la parola ambizioso insiste come un tic –, von der Leyen aveva prefigurato una visione del mondo rigida ma rassicurante come il salottino di Barbie. Sullo sfondo c’era il sapere formattato offerto dalla risoluzione del Parlamento europeo Importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, uno scritto antistorico e insidioso dove facevano capolino la riconciliazione, la memoria, il mai più.
E poi, a Fossoli c’era proprio bisogno di far frusciare del denaro, commemorando una strage? Denaro, sì, ma non per gli aventi diritto, i familiari delle vittime; per l’economia italiana, da sostenere anche per il bene di quella europea, perché questo sta per quello, allo stragismo si rimedia con lo sviluppismo, e che si vuole di più. Denaro che non è tedesco, ma dell’Unione. Neanche David Sassoli, che accompagnava questa signora abile a mostrare una scarsella gonfia e non sua, ha fatto cenno ai risarcimenti; ha preferito un europeismo irenico, un compitino convenzionale. Sono un inizio esemplare del nuovo corso, un assaggio della Repubblica fondata sulla resilienza, von der Leyen e Sassoli alla loro prima visita insieme in Italia, proprio dove si commemora una strage di persone prelevate da un campo di concentramento; e fra loro c’erano antifascisti, partigiani, eroi.
Sentiamo ancora Tesauro nel 2019. Antefatto: a Trieste nel 2008 si svolse un incontro bilaterale Italia-Germania; c’era quella Merkel che adesso conclude un lungo periodo di brillante cancellierato, e c’era quel Berlusconi che ora vivacchia su glorie opache e che già nel 2008, arrivata la crisi, si affannava per restare in sella (dei due, i fatti dissero chi aveva più furbizia). Tesauro riassume: «Erano tutti a Trieste, a parlare di che cosa? Non si sa bene, però una cosa è certa: che hanno parlato anche di soldi, dati dalla Germania anche all’Italia». Il riparazionismo, cioè il finanziamento della memoria senza giustizia, lo smaschera senza riguardi: «Non dovete risarcire i danni alle singole vittime o ai loro eredi. Potete fare tutti i musei che volete, tutte le feste di paese e della memoria che volete, ma non dovete risarcire i danni alle vittime». Per lui è chiaro che questo non deve compromettere i risarcimenti e che qualcuno ha sbagliato: «Il governo italiano accettò in ginocchio e con entusiasmo questa soluzione, ma per le vittime non era una soluzione».
Aveva ragione Theodore Fenstermacher, uno dei pubblici ministeri a Norimberga, quando in una requisitoria sulla strage di Cefalonia, nel 1949 (The Hostages Trial), denunciò l’emotional fatalism. Fenstermacher, sui nazisti: « È questa filosofia del fatalismo emotivo che ha reso così vili e spregevoli le loro offerte di scuse della colpa individuale e collettiva». C’è chi ha espresso il concetto più alla svelta, e in musica. Dopo la guerra, in Valdinievole c’era un omino, faceva il barrocciaio. Non era istruito come Fenstermacher, girava col cavallo per i paesi e cantava una ballata trasmessa a memoria, Popolo se m’ascolti. Raccontava la strage: «Questi vigliacchi non so’ a scorda’…».