di Franco Pezzini
(Qui la prima parte)
Lo spazio di una donna speciale
Alberto Brodesco, Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, pp. 368, € 24, Mimesis, Sesto San Giovanni MI 2014.
Claudia Salvatori, L’amica divina, pp. 510, € 15, isenzatregua, Riva del Garda TN 2021.
Dopo la prima parte introduttiva, la ricca, esemplare monografia di Alberto Brodesco (Sguardo, corpo, violenza. Sade e il cinema, Mimesis, 2014) passa ad affrontare nella seconda “Gli spazi del cinema sadiano”, cioè il castello (in particolare Silling, “spazio centripeto che spinge i suoi abitanti, vittime o carnefici, a un’obbligata, totale adesione”), le prigioni (la Bastiglia e altre), il manicomio (Charenton), il teatro, e in ultimo il viaggio (come “insegna Roland Barthes, si viaggia infatti solo per rinchiudersi: il viaggio serve come transizione, come tendina, costituisce il pretesto per spostarsi da una scena all’altra, da un luogo chiuso all’altro”).
Premettendo con A. Le Brun che “Non è una filosofia, né un discorso e ancora meno una scrittura che Sade ha inventato ma uno spazio”, Brodesco conduce la riflessione sugli spazi con lo sguardo a singole opere:
La logica romanzesca con cui vengono costruiti gli edifici di Sade è quella dell’organizzazione del racconto, di una tassonomia delle passioni, non quella di una disposizione equilibrata degli spazi. Entrando nei luoghi sadiani viene meno ogni interesse per la verosimiglianza: si abbandona la realtà per avventurarsi nel suo “cuore sepolto”, un mondo oscuro fatto di pietra e di vuoto.
La condizione, il prerequisito perché gli spazi architettonici (o, in seconda battuta, naturali) siano ritenuti confortevoli e ospitali dai signori sadiani è la loro chiusura e inaccessibilità. La sovranità del libertino è basata sull’isolamento. Sade, che lo teorizza, definisce questo stato con un neologismo: “Isolisme”. Tale condizione è ontologica, rappresenta una “tesi filosofica”, il “motto stoico dei libertini”, una “promessa di piacere”, il “nocciolo dell’impolitica sadiana” e della sua “antropologia negativa”. L’isolamento risponde alla situazione esistenziale più autentica per l’uomo sovrano (l’uomo integrale, l’Unico), che ha bisogno di segregare il proprio godimento per portarlo al grado massimo di intensità. Gli spazi geografici e architettonici di cui egli va in cerca sono studiati per assecondare questa esigenza.
Nei romanzi di Sade compaiono così case qualificate come deserte, lontane, impenetrabili, impraticabili, inabbordabili, isolate, ritirate, segrete, separate, solitarie… La geografia è occupata da castelli, fortezze, padiglioni, conventi, monasteri; gabinetti, cripte, celle, cellule, loculi, nicchie, cappelle, camere, ridotti, cantine; isole, sotterranei, buchi… A essi si aggiungono, come spazi per l’intimità, l’alcova, il bordello, il boudoir, il bagno… I luoghi in cui Sade ambienta le sue storie si inseriscono in buona parte nella definizione di istituzioni totali proposta da Erwin Goffman. Tutta la giornata dei protagonisti, tutte le loro attività – lavoro, svago, mangiare, fottere… – si svolgono all’interno di un’unità di spazio che garantisce la continuità del vivere libertino.
Nell’ambito delle sue riflessioni sul tema della follia, Michel Foucault sottolinea come la detenzione continua di Sade influisca sulle sue storie, ambientate in gran parte in luoghi da cui non si può fuggire. Nata dall’internamento e nell’internamento, “tutta l’opera di Sade è ispirata dalle immagini della Fortezza, della Cella, del Sotterraneo, del Convento, dell’Isola inaccessibile, che formano così il luogo naturale della sragione. Non è un caso neppure se tutta la letteratura fantastica di follia e d’orrore che è contemporanea all’opera di Sade, si situa nei luoghi dell’internamento”, come corrente più o meno sotterranea presente in tutto il primo gotico. Per Foucault “l’apparizione del sadismo […] come fenomeno storico (e non come tendenza sempre presente nelle manifestazioni dell’eros) coincide precisamente con il momento in cui la sragione viene rinchiusa”. Le fortezze nate per internare, al fine di bloccare il virus della sragione e impedire il contagio della società, escludendo dal vivere sociale di chi ne era colpito, “hanno svolto un ruolo culturale del tutto opposto” perché il “contesto […], come una pentola a pressione, ne alimenta la forza” (legittimo domandarci per inciso, in rapporto a un altro tipo di virus e a lockdown lungamente protratti, quali sviluppi culturali sia lecito attendersi).
La nostra filmografia dimostra che ragionare sulla presenza cinematografica di Sade equivale a percorrere i luoghi che la contengono, esplorare gli ambienti invalicabili in cui i film trovano il loro contesto. Gli spazi occupati dai film a tematica sadiana non sono soltanto funzionali al racconto ma mettono a fuoco alcune delle questioni chiave poste dalla figura di Sade nel suo rapporto con il tema dello sguardo e della visione. Per analizzare le pellicole prescelte ci è sembrato quindi utile – più che affrontarle da un punto di vista autoriale, osservando capitolo dopo capitolo come la figura di Sade venga presa in considerazione dai singoli registi – utilizzare le cornici offerte da questi posti. L’accostamento di pellicole diverse accomunate dall’inserimento del racconto nel medesimo spazio permette di circoscrivere le domande affrontate sinora sui temi della riflessività, della mise en abyme, del voyeurismo, della protezione dello sguardo e della sua chiusura.
Il tema del castello – topos gotico, luogo chiuso delle Centoventi giornate di Sodoma e vera e propria “macchina ottica”, “gigantesco occhio mentale” tra le cui mura “l’immaginazione più estrema può rimbombare libera” – viene affrontato al filtro di due film diversissimi, il provocatorio L’âge d’or, 1930, di quel Luis Buñuel che costella la propria filmografia di riferimenti a Sade (pensiamo solo al diffuso interesse per il Marchese di surrealisti e relativi fiancheggiatori), e il Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, 1975, contestato da tutto un filone di critica su Sade (sulla base delle riflessioni degli apologeti Bataille, Pauvert e Annie Le Brun) per l’abbinamento – giudicato indebito (contra un altro filone: Queneau, Adorno, Horkheimer, Simone De Beauvoir, Éric Marty) – tra Sade e il fascismo. Entrambi i film susciteranno comunque scandali e censure anche da un fronte assai meno filologico.
Le prigioni sono affrontate guardando, prevalentemente, prima a Marquis di Henri Xhonneux, 1989, cosceneggiato dal geniale Roland Topor: gli attori recitano con maschere animali mosse in animatronics (ma non mancano sequenze di pura animazione in stop-motion, e “il Marchese” prigioniero alla Bastiglia dialoga con il proprio pene che si picca di dargli consigli di stile, e che alla fine si autonomizzerà scendendo surrealmente in piazza coi rivoluzionari assieme a Juliette, una mucca-prostituta). Si passa poi a Sade – Segui l’istinto di Benoît Jacquot, 2000, che riprende e romanza la storia di Sade che sfugge alla ghigliottina, ma dall’internamento è costretto a vedere e sentire gli effluvi delle spaventose fosse comuni dei giustiziati. Si torna però anche alla breve, raggelante apparizione di Sade ne La via lattea di Buñuel, 1969, e ad altri cenni nell’opera del regista a evocare le prigioni psicologiche delle convenzioni borghesi.
La successiva sezione riguarda lo spazio del manicomio, a partire dal quell’istituto di Charenton dove si giocano all’epoca di Sade – lì ricoverato dal 1803 al 1814, anno della morte – pagine memorabili nella storia del rapporto con la follia, attraverso l’opera degli illuminati medici Philippe Pinel e Jean-Étienne Dominique Esquirol. Qui i film di riferimento sono il Marat/Sade di Peter Brook, 1966, dalla pièce di Peter Weiss (1964) con tre
piani che si stratificano: tre piani di identificazione degli attori in scena: attori che interpretano un attore (alienato) che interpreta un personaggio storico; tre livelli temporali: il presente filmico (1966), quello di Charenton (1808) e quello dell’assassinio di Marat (1793); e tre piani spaziali: i Pinewood Studios dove è girato il film ricreano il bagno del manicomio adattato a teatro, sulla scena del quale viene a sua volta rievocato il bagno di casa Marat
e Sade è al centro, a mediare, tra tutti questi piani; Šilení aka Lunacy, di Jan Švankmajer, 2005, che ibrida alla vicenda sadiana suggestioni di Poe (in particolare da “Il sistema del dott. Catrame e del prof. Piuma”), con spezzoni in stop-motion; e Quills, la penna dello scandalo di Philip Kaufman, 2000, con le sue libertà un po’ troppo gridate dalla storia reale, a dispetto di straordinari interpreti.
Lo spazio successivo è quello del teatro, ambito che nella sua opera – benché importante a livello biografico e teorico (“Niente procura al libertino un piacere più grande della teatralizzazione del godimento”) – quanto a valore dei testi viene di solito maltrattato dalla critica. I film che capitalizzano la suggestione del teatro sono, nell’ordine qui proposto, De Sade di Cy Endfield, 1969, sceneggiato dal brillante Richard Matheson, con l’enorme John Huston nei panni dell’abate De Sade e tuttavia, quanto a esito, goffamente romanticheggiante, benché suggestivo per la scelta di portare la vita del Marchese su un palcoscenico; il meno nobile Marquis de Sade di Gwyneth Gibby, 1996, citato di sfuggita; il raffinato Madame de Sade (Markisinnan de Sade o La Marquise de Sade) di Ingmar Bergman, 1992, versione di teatro filmato sulla base del dramma in tre atti scritto da Yukio Mishima (1965), dove il protagonista resta evocato in absentia; Akutoku no sakae di Akio Jissoji, 1988, storia di un regista teatrale chiamato il Marchese (che alla fine, poco originalmente, si presenterà come de Sade), che inscena una versione teatrale di Juliette facendola recitare a una compagnia di criminali; il disturbante Eugénie de Franval di Louis Skorecki, 1975, tratto dall’omonima novella sadiana, girato completamente in una sola stanza d’appartamento, in undici inquadrature.
Infine per il viaggio e il suo citato rapporto col rinchiudersi, il riferimento è al “viaggio nella perversione” di Jesús Franco (il “regista che mostra con maggior insistenza il movimento dei personaggi sadiani” e anzi l’unico che ha realmente valorizzato il tema del viaggio, per esempio quello picaresco di Justine) attraverso una serie di pellicole.
Anche per quanto riguarda il palinsesto sadiano i film di Franco sono il frutto di un compromesso: si assiste a continui incroci tra simbolismi ingenui e intuizioni surrealiste, costrizioni di budget e manifestazioni di libertà espressiva, ligi didascalismi e voli pindarici, letture banalizzanti del testo di Sade e lucide illuminazioni interpretative. Gli spunti sadiani vengono utilizzati in modo da poterne trarre il massimo possibile di visibilità, fino a sfondare le porte dell’hardcore. Questo desiderio di visione (e godimento) si scontrerà, nei modi che approfondiremo, con il problema generale dei limiti della rappresentazione e, in seconda battuta, con quello più specifico dei limiti della rappresentazione pornografica. Il cinema sadiano di Franco, pur proponendosi come intrattenimento nutrito di intenzioni giocosamente erotiche (la posizione spettatoriale proposta è certamente di tipo ludico), manifesterà la sua incapacità di mostrare una sessualità sadica davvero gioiosa (come talvolta accade nella scrittura di Sade, ad esempio nella Filosofia nel boudoir) e sarà, volontariamente o meno, costretto a ripiegare, al di là del principio di piacere, in direzione della pulsione di morte.
La selezione dei film ai fini del nostro studio è motivata in base a un ordine di ragioni: l’esplicito adattamento di romanzi o racconti; il riferimento dichiarato a Sade nei titoli di testa; la presenza diegetica di Sade o dei suoi libri. Talvolta, più che un singolo testo, è un gruppo di film a completare e motivare adeguatamente il riferimento a una matrice sadiana.
Brodesco fornisce un lungo elenco di titoli franchiani che in questi tre sensi si richiamano a Franco, e poi passa a sintetizzarli in cinque filoni:
1) Il filone “Justine”: una ragazza sconta le sfortunate conseguenze della sua innocenza: De Sade’s Justine;
2) Il filone “Eugenie”: il racconto di un incesto tra un padre e una figlia: Eugénie;
3) Il filone “La filosofia nel boudoir”: la storia dell’iniziazione di una ragazza alla perversione: Eugenie… The Story of her Journey into Perversion e Cocktail spécial;
4) Il filone “Bressac”: complotto di famiglia in una casa isolata: Sinfonia erotica e Gemidos de placer;
5) Il filone “Filosofia nel boudoir con Bressac”, che somma i due precedenti: Plaisir à trois e Eugenie, historia de una perversión.
Come abbiamo visto riassumendone brevemente le trame, rimane tuttavia una certa sovrapposizione tra i cinque filoni. L’unico adattamento vero e proprio è infatti De Sade’s Justine, mentre gli altri sembrano piuttosto comporre un mélange o puzzle sadiano: diversi frammenti estratti dai romanzi (circostanze, nomi, percorsi…) vengono incollati insieme per fabbricare non tanto una narrazione, ma un collage visivo di spunti narrativi.
Il punto di partenza è ovviamente Marquis De Sade’s Justine, 1969, versione carnevalizzata o decaffeinata – così qualcuno si è espresso – del romanzo sadiano. “Ma l’atteggiamento parodico e in parte iconoclasta con cui Franco tratta il suo autore preferito è sicuramente volontario. Franco testimonia di esser stato costretto a ‘modificare tutta la storia e convertirla in una specie di Walt Disney’ da una serie di circostanze produttive, in particolare dall’imposizione dell’attrice protagonista” Romina Power. La cui recitazione fastidiosamente ingenua, tuttavia (si può concordare con Brodesco) calza perfettamente al profilo al personaggio. Mentre molto adatto e convincente è Klaus Kinski nel ruolo di Sade, incarcerato e ossesso dai suoi fantasmi che spurgano in tutto il film.
Il tristissimo Eugénie (in Italia, De Sade 2000), 1970-1973, che riprende spunti da L’occhio che uccide (Michael Powell, 1960) e da Lolita (Stanley Kubrick, 1962), brilla di luce livida per la presenza, nel ruolo della giovane eponima in rapporto incestuoso col padre (Paul Müller), di una malinconica e bellissima Soledad Miranda, che l’uomo coinvolge in una serie di omicidi. Brodesco prende poi in esame altri titoli della produzione franchiana, notando come anche il disinvolto regista abbia dovuto ammettere un’impossibilità a portare fedelmente sullo schermo i connotati estremi di Sade. Ciononostante il peso degli scritti del Marchese e soprattutto i relativi temi per l’horrotica del regista spagnolo restano fondamentali.
La pornografia possiede una sua grammatica per rendere eccitanti le riprese del sesso. Franco non la rispetta e si trova quindi costretto di volta in volta a improvvisare, a seguire la velocità dell’istinto, a fronteggiare, in un letterale corpo a corpo, la difficoltà a riprodurre cinematograficamente il desiderio.
Questa incapacità di fermare il desiderio è tanto teorica quanto pratica. Per tentare di tamponare l’insoddisfazione di chi guarda, la strategia che Franco mette in campo si basa su quattro elementi (che riprendiamo da Du Mesnildot): spostamento, descrizione, voyeurismo, passività […]
con l’uso dello zoom come “erezione visiva tesa verso il sesso femminile”, ma con un mix di “attrazione artistica e panico psicologico” (come lo definisce Carlos Aguilar), sorta di “reazione ai limiti del rappresentabile”. “Dopo migliaia di inquadrature dirette, il sesso femminile rimane dunque la Medusa castrante teorizzata da Freud”, e nei film di Franco troviamo spesso donne assassine o castranti. La filmografia a fine volume completa analiticamente la ricca panoramica.
La terza parte dell’opera, “Il cinema sadiano e la mediasfera contemporanea”, si sviluppa dal caso di scuola della presenza di Salò su YouTube – film intero ma anche spezzoni, video sul tema e videorecensioni, spesso molto banalizzanti, e commenti del pubblico – per passare al rapporto tra panorama audiovisivo contemporaneo e riflessi teorici del cinema sadiano (rapporti tra pornografia e tortura, sorveglianza e voyeurismo, eccetera).
L’odierna ipesessualizzazione del corpo violato fa […] affiorare alla superficie della mediasfera alcuni dettagli (e solo alcuni) della sovranità sadiana [nel senso: “Se fa del male agli altri, che voluttà! Se gli altri gli fanno del male, che godimento!”]. Mario Perniola ritrova degli elementi dell’attualità di Sade nel “delighful horror”, nell’armonizzazione di polarità opposte quali piacere e dolore, desiderio e paura, sublime e abietto. La vera ombra sadiana sul panorama contemporaneo si estenderebbe così non tanto in relazione a ciò che viene definito “sadismo”, ovvero “il piacere di vedere soffrire gli altri”, quanto nei territori audiovisivi dove vige la “ricerca di una certa sensualità nell’atto di violenza”.
[…] Se Luis Buñuel (insieme alla maggioranza dei cineasti che lavorano su Sade) sfrutta il potenziale trasgressivo e liberante di Sade, Pasolini ricopia le parole scritte nelle 120 giornate sopra i rotocalchi di attualità per dimostrare che un incubo è divenuto realtà, che la fantasia romanzesca corrisponde alla frenetica disponibilità (di corpi, di merci, di corpi mercificati) off erta dalla società dei consumi.
La concentrazione riflessiva, lo sforzo di immaginazione, l’immersione nella materialità dei corpi, il confronto con l’osceno cui costringe la figura di Sade svolge dunque la funzione, più che di una cartina di tornasole, di una galleria degli echi, che non può far altro che restituire amplificato ogni personale interrogativo e tormento.
Le Conclusioni (prima di filmografia e bibliografia) vertono insomma sullo stallo della rappresentazione e sull’insemplificabile problematicità dei riferimenti a Sade.
Il testo di Brodesco offre, insieme a un’estrema ricchezza di analisi, una griglia di riflessioni preziose. E di estremo rilievo pare il suo discorso sullo spazio e gli spazi, cui merita tornare:
Lo spazio per lo sguardo si spalanca nel momento stesso della sua interdizione. Il luogo chiuso sadiano eccita il voyeurismo del lettore e poi dello spettatore attraverso le pratiche di infrazione della segretezza che il testo gli offre. Il film lo invita a sentirsi parte di un scena (un retroscena) che non dovrebbe essere a disposizione del suo sguardo. La sua visione diviene quella di chi ha accesso a uno spazio proibito. Basta questo a stabilire una complicità su cui lo spettatore sarà costretto a interrogarsi, anche per motivo della struttura riflessiva di molti dei film a tematica sadiana. Alcuni registi vorranno ribadire questa complicità, assecondarla; altri denunciarla; altri porla in tutta la sua crudezza davanti ai nostri occhi. Sono ragionamenti che, in ogni caso, ci portano sempre a fermarci sulla soglia della visione, indecisi tra il dentro e il fuori, il guardare e il non guardare.
E sugli spazi sadiani merita meditare leggendo un recente, affascinante romanzo di Claudia Salvatori, L’amica divina (isenzatregua, 2021 – volume molto elegante anche come oggetto, grafica e carta). Tra narrazione e palcoscenico (ai capitoli sono alternati flashback in chiave teatrale) vengono qui narrati gli ultimi trentadue giorni “di libertà (e forse di felicità)” di Sade – appena evaso una prima volta –, prima del lungo internamento tra carcere e manicomio. È il 1778, siamo a La Coste in Provenza al castello dei Sade. Donatien ha trentasette anni (“ma ne dimostrava ventisette, o meno ancora”), un burrascoso passato e un rapporto complesso con la potentissima e dispotica famiglia della moglie: e la storia riguarda il suo dialogo, che diventa rapporto sempre più profondo ed esclusivo, con Milli, cioè Marie-Dorothée de Rousset (1744-1784), “amica d’infanzia colta e letterata, forse il più importante fra i suoi amori giovanili, la sola donna capace di mantenersi rispetto a lui su un piano di parità, oltre a essergli complementare nel destino personale di libertà e solitudine” (così l’autrice, nella Nota introduttiva). Di Donatien, Milli diverrà insostituibile confidente e amante, in un rapporto non privo di tensioni e scambi anche durissimi ma di straordinaria ricchezza umana. “Quello che avviene fra loro è in parte dedotto dalla loro corrispondenza posteriore e in parte frutto della mia immaginazione”, con qualche licenza rispetto alla ricostruzione storica più diffusa che vede il rapporto tra Milli e Donatien come puramente platonico. Scrive l’autrice:
Questo romanzo può essere letto come un esempio del mio metodo di lavoro. Commissionato come romance erotico, non ha poi trovato la strada per le librerie: ma non è questo l’importante.
Come in ogni lavoro commissionato, sono intervenuta a modo mio, innestando altri stili e contenuti. Ho intercalato la narrazione di una serie cronologica di giornate a intermezzi teatrali che orecchiano quelli messi in scena da Sade giovane nel suo castello di La Coste. Così, del romance, il libro non conserva più che una goccia di profumo.
Benché l’approccio sia quello del romanzo erotico (o meglio storico-erotico, sulla base di lunghe letture dei romanzi e della saggistica sul Marchese, cui Salvatori dedica anche lo splendido saggio finale “Questa donna unica nel suo genere: la Juliette di Sade”), L’amica divina offre del protagonista un ritratto ampio, profondo e complesso, in nulla cedendo alle banalizzazioni della vulgata. Circondato da donne – la moglie Renée-Pélagie, l’ingombrante suocera Presidentessa di Montreuil, la seducente cognata canonichessa Anne-Prospère de Launay, inservienti come la fedele e procace Gothon, per non parlare di tutte le donne della sua infanzia – Donatien non ha mai incontrato una interlocutrice come Milli: più giovane di lui e non appartenente all’aristocrazia, ma come lui profondamente appassionata di scrittura, colta e di scintillante intelligenza, combattiva e non scevra da impennate d’orgoglio, comprensiva per perspicacia e non per buonismo, dotata di un senso etico ma non moralista e pronta ad affrontare esperienze che altre rifiuterebbero, razionale ma capace di seguirlo nei suoi mondi fantastici, dotata all’occorrenza di un buon approccio pratico…
Lui ha capito quanto lei sia stata ferita e umiliata nell’infanzia:
“È stata vostra madre a soffocarvi? Ha preferito gli altri suoi figli? Vi ha trattato come il cucciolo malriuscito del suo ventre? Ci sono molti modi per uccidere qualcuno. L’ho visto fare infinite volte. Una coppa di veleno offerta amorevolmente. ‘Bellezza e grazia vengono dalla natura. Se una donna non le possiede conviene mille volte che si faccia amare coltivando modestia, dolcezza e virtù’. Mia moglie è stata distrutta in questo modo da sua madre […] Non vi hanno battuta con le verghe o mutilata, ma è come se l’avessero fatto. Con le frasi congegnate per marchiare a fuoco una creatura. Le frasi più innocue che contengono gli insulti più atroci. Hanno ritorto tutte le vostre qualità contro di voi, come strumenti di punizione. […] E siccome pensate e leggete, e minacciate la volgare stupidità dei borghesi del vostro villaggio, siete diventata un’eccentrica da additarsi per strada.”
“Una preziosa ridicola. Una strampalata un po’ tocca. È questo che dicono di me”.
“E voi lo avete creduto”. Il marchese le passò una mano sul volto. Non una carezza, ma come se volesse toglierle una maschera.
[…] Milli sarebbe caduta in ginocchio per ringraziarlo a mani giunte. Una lacrima scese sulla sua guancia. Lui la raccolse.
“Come potete conoscere tutto questo?” gli chiese.
Per quanto più giovane e disposta al ruolo di discepola e collaboratrice nell’attività di scrittura, di depositaria dei ricordi, pensieri e sentimenti di lui (“So bene che non si possono raccontare certe cose alle donne allevate in buone famiglie, ma voi siete filosofa, Sapete sopportare la verità”), Milli non è prona alla volontà dell’interlocutore e gli tiene testa intellettualmente e caratterialmente. Donatien è bizzoso e sa essere irritante e inopportuno nel parlare, ma insieme è umanissimo e sensibile: cresciuto senza l’amore dei genitori, tormentato da problemi fisici che gli rendono penoso l’amplesso, fondamentalmente non capito dagli altri che gli ruotano intorno (a parte qualche valletto suo partner sessuale, di relativa cultura e buon senso), si trova demonizzato da tutto un mondo circostante che in lui cerca il lupo mannaro come cattivo esempio da colpire. Amareggiato dalla lontananza di un suo grande amore italiano, il bel medico Giuseppe Iberti di Roma – finito in carcere a Castel Sant’Angelo per aver copiato per Donatien documenti su casi torbidi dell’Inquisizione –, Sade è anzitutto stupito dalla personalità di Milli e dal tipo di rapporto che si evolve tra loro: “la Sainte” – come la chiama lui – non solo gli risponde a tono, ma prende a inseguirlo con tenacia e devozione (che diventano amore) fin negli inferni della sua interiorità. Così Donatien:
“Ho visto il ritratto che mi state facendo; lo avete lasciato in vista nel salone. Non si dipingono ritratti così, se non si ama molto qualcuno. Si vede dal fatto che nelle linee, in tutto quello che esprime, ci sono io ma ci siete soprattutto voi. È la vostra immagine nella mia. Non so esprimerlo bene… e di solito non sono le parole a mancarmi.”
[…]
“Di tutte le bestie umane di sesso femminile che scrivono fra i due poli, voi siete quella che scrive più divinamente, la più intelligente e la più amabile. Vorrei gridarlo ai quattro venti”.
La fece volteggiare, e lei si mise a ridere per il sollievo e la gioia. La vertigine le procurò una leggera nausea.
Lui si fermò, sedendosi sulla panchina ma tenendola sulle ginocchia.
“Spezzerò le mie lance per voi” disse.
“Come un cavaliere per la sua dama?”
“No, come Don Chisciotte per Dulcinea”.
Milli fece una smorfia di finta desolazione.
“Dulcinea!”
“Oggi è di moda così, tesoro. Le donne girano con una padella e gli uomini con piccoli mulini a vento sui cappelli”.
Risero di nuovo, e lei gli circondò il collo con le braccia.
Caro signor de Sade, delizia del mio intelletto, scrivete come un angelo. Sono vostra. Farò tutto quello che vorrete.
Stava per dirglielo, ma fu lui a dirlo per primo.
“Solo per il modo in cui avete riempito voluttuosamente quelle pagine, potete chiedermi tutto quello che volete”.
“Ma io voglio…”
“…sì?”
“Voglio rimanere qui sulle vostre ginocchia, con le braccia intorno a voi, e sussurrarvi nell’orecchio dolci parole, sperando che non facciate il sordo, e farvi comprendere che la mia anima può espandersi all’infinito e desidera che la vostra si espanda nella mia”.
“Non so se ho un’anima, ma quale che sia fatela pure espandere nella vostra, se accettate il rischio”.
[…]
“Dov’eri in tutti questi anni, Milli?”
“Sono sempre stata qui. Ma c’era troppa gente che voleva divertirsi con te”.
[…]
“Io non potrò mai lasciarti, perché sono te”.
Il marchese scosse la testa. Volubilmente, scoppiò a ridere.
“Tu sei me? Impossibile. Io sono unico”.
“Unico? E come giustificheresti una simile pretesa?”
“Si è unici facendo cose che non fa nessun altro”.
Sì, signor del Sade, hai ragione a crederti unico. Non ci sei che tu al mondo, a non volere che la tua amante ti dica: ‘sono te’. Io vorrei che tu lo dicessi a me cento, mille volte al giorno.
La solitudine e la convivenza avevano fatto crescere quello che già esisteva fra loro, e non era accaduto che quello che doveva accadere. Si erano cercati, studiati, esplorati da sempre, e il fuoco aveva acceso la miccia. […] Le aveva aperto la mente, oltre alle vie del piacere.
Il risultato è un rapporto esclusivo, profondo, passionale, fondato certo su una complessa alchimia iniziale, su una dialettica anche vivace, ma tale da spiazzare e coinvolgere il grande Spiazzatore: un rapporto da cui entrambi usciranno più profondi, imparando la fiducia reciproca e con il sapore di qualcosa che assomiglia maggiormente alla felicità – fino a tentare, stavolta nel modo più ordinario, di avere un figlio assieme. Senza troppa convinzione (da parte di lui) e comunque troppo tardi, perché i fatti stanno già precipitando.
La scrittura dell’autrice è come sempre di grande eleganza, i personaggi sono trattati con intelligenza e sottigliezza. Ovvio, il testo è molto esplicito, la sessualità in scena anche molto cruda – per un pubblico adulto, si legge nelle indicazioni di vendita –, le finestre sui lati in ombra della personalità di Sade debitamente dischiuse (come sulle sue camere segrete, dal contenuto non esattamente tranquillizzante): il Marchese non è ancora l’abbrutito autore delle 120 giornate di Sodoma e di altri scritti debitori della lunga carcerazione, ma come ovvio la storia d’amore in scena presenta alcune peculiarità legate al protagonista, le sue oscenità e “pratiche rivoltanti”, l’ombra di altre donne e la presenza sessuale dei valletti. Che però non escludono, tra scontri verbali e idilli, la vertigine di una relazione unica e di una speciale tenerezza con l’amica divina protagonista.
Tutto verrà interrotto da una brutale manovra di polizia dell’ispettore Marais, volto bigotto e invidioso di un Ordine i cui connotati purtroppo conosciamo: per Sade inizia una lunghissima carcerazione, undici anni tra Vincennes e la Bastiglia, interrotti da altri undici anni arruolato e poi di nuovo imprigionato dalla rivoluzione (e rischia la ghigliottina per il suo moderatismo, rifiutando come giudice di avallare condanne a morte – chi lo giudica un mostro dovrebbe ricordarlo), quindi gli ultimi tredici internato a Charenton. Milli, che ha fatto tutto il possibile per lui, è morta di tisi ad appena quarant’anni, senza rivederlo. Chi vada a La Coste (oggi Lacoste, occitano La Còsta), a visitare i ruderi del castello tra cui sorge una suggestiva statua di Sade – due braccia conserte unite da un pilone a una testa imparruccata, chiusa in una gabbia – dedichi a Milli un pensiero.
Affascinante, nel romanzo, anche e specificamente il rapporto con la dimensione degli spazi di cui parlava Brodesco: il castello a tratti claustrofobico (La Coste ispirerà Silling), la prigione da cui Donatien è evaso e che incombe – come il manicomio – sul suo futuro, il teatro che permette di rileggere il suo passato.
Che Milli e Donatien fossero legati da un rapporto sessuale o invece soltanto platonico ai nostri fini importa poco. Esistono affetti, saldati in contesti diversi, che per profondità sappiamo saranno per sempre: come fu il loro, poi tragicamente separati da distanze e muraglie. Per quanto amiamo le parole, pretendere di uniformare con un nome di specie questo tipo di legami, quasi Linneo tassonomizzasse anche lì, è spesso abbastanza inutile. L’autrice ne offre una lettura romanzesca – o, se si preferisce, mitica, nel senso di portare a galla in modo emblematico e paradigmatico i nodi di un rapporto d’amore – che tuttavia non perderebbe valore a una diversa lettura dei fatti. Quel dialogo intensissimo ci fu, e molto dello scambio epistolare torna qui sceneggiato negli scambi tra i personaggi. Riporta sempre l’autrice:
Mi piacerebbe che dalla mia storia trasparissero gli elementi meno riconoscibili dell’anima sadiana, opposti alla cupezza e pesantezza che gli attribuiscono i suoi scandalizzati detrattori: l’umorismo, il profondo senso di giustizia, la verità, e quella specie di magia che percorre tutta la sua scrittura, da qualunque parte la si legga.
E mi piacerebbe che le mie parole, pur narrando di grandi sfortune e sofferenze, avessero il brio festoso di una musica d’epoca.
Obiettivi che la qualità di scrittura di Claudia Salvatori ha senz’altro permesso di raggiungere.