di Luca Cangianti
Se stringo gli occhi e guardo lo skyline di Francoforte le torri aliene del capitalismo finanziario svaniscono e il Meno si trasforma in uno specchio d’acqua dorato sul quale riposano vascelli venuti da regioni remote. Immagini simili ricorrono in una poesia di Charles Baudelaire (“Invito al viaggio”). Marcuse ne riprese due versi per descrivere, in Eros e Civiltà, un assetto sociale utopico, ma insito nei potenziali di ragione emergenti: “Tutto, laggiù, è ordine e bellezza, / lusso, calma e voluttà.”
Tali visioni sono il frutto della lettura dell’ultima opera di Giorgio Fazio (Ritorno a Francoforte. Le avventure della nuova teoria critica, Castelvecchi, 2021, € 34,00, pp. 413), un’attenta e aggiornata storia della Scuola di Francoforte, la cui chiarezza non sminuisce la complessità delle tematiche affrontate. La ricostruzione si basa su due piani: l’individuazione di alcuni elementi connotanti il profilo teorico di questi pensatori e una loro segmentazione generazionale. Del primo piano fanno parte: la critica immanente come dialettica tra immanenza e trascendenza, il rapporto, anch’esso dialettico, tra teoria critica e prassi politica, il riferimento a un approccio olistico (più o meno temperato) e a contenuti progressivi iscritti nella tradizione filosofica, il rifiuto della filosofia della storia. Questo profilo filosofico, tuttavia, non è risultato indenne da aporie e contraddizioni che fin dall’inizio hanno dato vita a slittamenti teorici, ripensamenti e cambiamenti d’indirizzo influenzati anche dalle vicende storiche del momento. Alla prima generazione dei padri fondatori (Max Horkheimer, Theodor W. Adorno e Herbert Marcuse), succede così Jürgen Habermas e poi una terza generazione rappresentata dai lavori di Axel Honneth e Nancy Fraser. Infine, con un grande sforzo si sintesi, Fazio offre al lettore italiano una panoramica degli autori e delle autrici più recenti: Wolfgang Streeck, Rahel Jaeggi e Hartmut Rosa. Insomma, un lungo viaggio che parte da Francoforte negli anni ’20 del secolo scorso, attraversa le barricate delle rivoluzioni sconfitte, fa tappa negli Stati Uniti nel dopoguerra e nel ’68 per tornare in Europa a confrontarsi con il boom economico e più recentemente con il neoliberismo.
Le teorie più audaci mi sembrano nottole di Minerva che spiccano il volo da rovine fumanti. Pensi che sia così anche per le autrici e gli autori di cui ti sei occupato?
La Scuola di Francoforte viene fondata nel 1930, quando ormai cominciava a esser chiaro che l’ondata rivoluzionaria aperta con il 1917 russo non aveva portato il comunismo né in Occidente né, al di là della retorica, in Oriente. Da questo punto di vista bisognava fare i conti con le aspettative disattese dalla vulgata marxista della Seconda e della Terza internazionale: lo sviluppo delle forze produttive e la crisi non generavano di per loro la rivoluzione e tantomeno il comunismo, confermando l’insostenibilità di qualsiasi finalismo e determinismo storico. Da questo punto di vista, per lo meno per la prima generazione della teoria critica, quindi, risponderei affermativamente alla tua domanda.
Come affronta il tema della soggettività e della coscienza di classe la prima generazione?
Se lo sviluppo del capitalismo e delle sue contraddizioni non sono sufficienti a generare la rivoluzione, la soggettività antagonista non può costituirsi come mera conseguenza dialettica del suddetto movimento. Anzi, negli anni ’20 e poi negli anni ’30 del secolo scorso si assiste all’emergere di processi di soggettivazione in senso reazionario anche tra le fila proletarie. Per questo motivo Horkheimer e i suoi collaboratori valorizzeranno aspetti “sovrastrutturali” quali la psicanalisi, la socializzazione primaria, l’arte, la religione, lo sport e il divertimento. In mancanza di un’analisi interdisciplinare su questi versanti, secondo i francofortesi, non si potevano spiegare né i processi di soggettivizzazione né la loro inibizione. In questo contesto il ruolo della teoria critica è smascherare i meccanismi ideologici invisibili, mettendo a nudo i rapporti di dominio sociale.
Penso che metafora architettonica presente in Per la critica dell’economia politica sia stata infelice. In quell’opera Karl Marx sostiene che sulla base economica, con la quale vien fatto coincidere il modo di produzione, si erigerebbe una sovrastruttura ideologica. A parer mio, il modo di produzione non può funzionare senza il suo versante immaginario. Quest’ultimo è parte del modo di produzione stesso. Qual era la posizione della teoria critica in merito?
In effetti la prima generazione dei francofortesi cercò di elaborare una teoria della totalità sociale che andasse oltre l’economicismo e ricomprendesse sfere sia economiche che culturali evitando ogni relazione unidirezionale tra elementi cosiddetti strutturali e sovrastrutturali.
Da Habermas in poi, le successive generazioni di teorici francofortesi hanno mosso ai fondatori la critica di paternalismo. Perché?
Fino a un certo punto la prima generazione si concepì in continuità con la sinistra hegeliana per quanto riguarda il tentativo di mantener vivi – indipendentemente dalle contingenze – i potenziali di ragione iscritti nella tradizione filosofica: progresso, autonomia, libertà. Lo sviluppo delle forze produttive e del lavoro sociale, con le loro potenzialità emancipatorie, avrebbe realizzato quelle promesse filosofiche e fatto saltare la gabbia dei vecchi rapporti di produzione. Dagli anni ’40, invece, viene meno questa fiducia. Lo stesso sviluppo delle forze produttive diventa il bersaglio della critica della ragione strumentale. Da questo momento in poi, tuttavia, la riflessione dei francofortesi comincia a concepire gli attori sociali come immersi in una “società totalmente amministrata” nella quale gli eventi si svolgono alle loro spalle. La riflessività critica degli attori è totalmente soggiogata con approcci sia autoritari (nazismo e stalinismo) che democratici (crescita salariale, sviluppo dei consumi, integrazione). In questo modo il filosofo critico saliva su una torre d’avorio e vi si confinava irrimediabilmente.
Come viene rivalutata l’agency degli attori sociali dalle generazioni successive a quella dei padri fondatori?
Fondamentalmente si sostiene una sorta di olismo moderato che rifugga dalla tentazione di funzionalizzare ogni comparto sociale: ci sono realtà istituzionali che incarnano norme e valori aprendo spiragli nei quali gli attori sociali possono incunearsi e inscenare conflitti. È per questo motivo che Nancy Fraser sostiene che la teoria sociale dev’essere bidimensionale: accanto alla funzionalità sistemica dobbiamo valorizzare il versante etico incarnato dalle convinzioni dei soggetti sociali e dalle loro cristallizzazioni istituzionali.
Un esempio di questo approccio è costituito dagli studi di Axel Honneth.
Questo pensatore parte dagli studi di storia del lavoro e finisce per affermare che i quadri normativi alla base dei conflitti sociali affondano le radici in subculture focalizzate non solo sulla distribuzione della ricchezza, ma anche sull’onore ferito, sulla dignità sociale negata. In questo modo non si nega il versante funzionalistico degli interessi di classe, ma lo si intreccia con le dinamiche morali, “immaginarie”, della richiesta di riconoscimento.
L’alienazione ha un ruolo centrale nella storia della filosofia e in particolare nel filone hegelomarxista, al quale, pur con alcune eccezioni, si può iscrivere la Scuola di Francoforte. In tempi recenti c’è stata una riformulazione critica di questa categoria.
Immagino che ti riferisca a Rahel Jaeggi che esorta a elaborare un concetto di alienazione più raffinato di quello consegnatoci dalla tradizione filosofica. Si tratta di liberarsi dalla falsa rappresentazione secondo cui il superamento dell’alienazione coinciderebbe con riappropriazioni finalistiche di presunte essenze e con la fluidificazione di tutto ciò che è irrigidito, implicito, non trasparente nella nostra vita. Basandosi su studi filosofico-antropologici di autori come Helmuth Plessner, Jaeggi afferma che la soggettività umana è irrimediabilmente affetta da una scissione costitutiva, da un rapporto di estraneità con sé e con il mondo. Si tratta di qualcosa che non può mai essere definitivamente superato. Insomma, i mostri autonomizzatisi dal nostro inconscio, le cristallizzazioni della ricchezza sociale che ci dominano e immiseriscono, sono destinati a risorgere continuamente. Siamo chiamati a una lotta infinita per riappropriarci di ciò che è nostro, ma l’alienazione non è tanto l’estraneo con il quale confliggiamo, quanto l’interruzione di questo processo di appropriazione e quindi del conflitto.
In questi giorni ricorre il ventennale delle giornate del G8 di Genova. Tu prendesti parte a quel movimento. Il pensiero della Scuola di Francoforte è costitutivamente un pensiero del conflitto e della critica del dominio. Studiarne approfonditamente la storia ha aggiunto qualcosa alla riflessione sull’esperienza del 2001?
Il popolo eterogeneo che vent’anni fa confluì a Genova praticava una politica antitetica alla politique politiciènne degli anni ’90. Si andava oltre il mero formalismo elettorale, si sottoponeva a una critica radicale il patriarcato, il ruolo dei mercati finanziari e del debito pubblico, le politiche migratorie ed estrattiviste. Era una politica che voleva ripensare i modelli di civiltà, quelli che Habermas chiamava grammatiche della vita e che Marcuse esortava a scardinare con una rivoluzione culturale creatrice di una nuova sensibilità, una soggettività non amputata, capace di ritessere una trama di relazioni vitali con gli altri umani e con la natura. Tutto il sangue versato e l’orrore di violenza scatenatosi in quei giorni contro i manifestanti non possono cancellare quei bisogni, quelle aspirazioni e quel potenziale di ragione.