di Giovanni Iozzoli
Maria Elena Scandaliato, Arafat va alla lotta, Mimesis, Milano-Udine, 2021, pp. 168, € 16,00
Il nuovo libro di Maria Elena Scandagliato, giornalista che in passato si è occupata di grandi tematiche – dallo stragismo all’americanizzazione della Fiat [su Carmilla] – decide di dare voce ad una “piccola storia”, apparentemente singolare o anonima, quella di Mohamed Arafat, sindacalista di origine egiziana, protagonista nel mondo della logistica di importanti vertenze sindacali. E’ una scelta saggia, perché la vicenda di Arafat può essere considerata il racconto “esemplare” di una generazione in cerca di riscatto: dalla sua biografia si dipanano temi cruciali e suggestioni di grande interesse generale – le nuove migrazioni, il degrado del mercato del lavoro italiano, la qualità della giustizia sociale, delle libertà civili e sindacali, il cui degrado coinvolge tutti, italiani e migranti.
Ogni capitolo di questo libro è una specie di istantanea scattata, più che alla vita “dell’immigrato”, alla società italiana, letta in controluce attraverso le peripezie di Mohamed. E ognuna di queste foto fa giustizia di stereotipi o luoghi comuni, fin dall’inizio della storia: la scelta di questo ragazzo scolarizzato di lasciare l’Africa e affrontare il viaggio verso l’Europa, con 700 euro cuciti nei pantaloni e grandi illusioni nella testa. Arafat racconta con franchezza se stesso: non è un disperato, è figlio di professionisti, non emigra perché segnato dalla miseria estrema; la sua è una scelta di fuga da una società bloccata, asfittica, schiacciata dalla tenaglia del regime di Mubarak e da trent’anni di liberismo imposto dal FMI.
In Egitto non me la passavo male, non ero povero. Sono nato e cresciuto a Mansoura, una grande città lungo il delta del Nilo. Una zona fertile, dove tutti hanno un pezzo di terra da coltivare; dove la fame – almeno quando ero ancora lì – non esisteva. I miei genitori, poi, hanno sempre lavorato, quindi in casa non mancava niente. (…) Anche io studiavo, e quando ho deciso di partire stavo per laurearmi alla facoltà di Servizi sociali. (…) Erano anni in cui la gioventù egiziana fremeva, in cui tutti sognavano di squarciare la cappa del regime di Mubarak, per uscire e respirare. (pag. 21)
E’ la prima riflessione che l’autrice propone al lettore medio: i migranti, malgrado le rappresentazioni mediatiche – tutte villaggi e barconi – non provengono quasi mai dalle “masse affamate” dei sud del mondo. I più poveri tra i poveri non hanno le risorse economiche e personali per migrare, né dall’Africa né da qualsiasi altro posto; a muoversi sono segmenti scolarizzati, spesso provenienti dalle grandi città – proletariato o piccola borghesia che prova a realizzare il salto di condizione in un mondo in cui linee di confine statuali o geografiche (vedi il braccio del Mediterraneo), delimitano due mondi tanto prossimi, quanto assurdamente diversi per diritti e benessere. Se sai che poche centinaia di chilometri “oltre quel confine” c’è il paradiso, che fai? Non ci provi ad attraversarlo?
Il buon credente Arafat, però, si accorge subito che il paradiso in terra non esiste: dopo essere passato dall’inferno libico e aver rischiato la pelle, come tutti, durante l’avventuroso viaggio di approdo in Sicilia, si ritrova spaesato ad attraversare i piccoli placidi purgatori dello sfruttamento rurale in Italia. E a questo punto del racconto, la storia di Arafat passa quasi in secondo piano e al centro della narrazione si colloca la “nostra” storia, il nostro paese, le nostre vite, ciò che siamo diventati, come nazione, quasi senza accorgercene: nel primo impatto con la società italiana Arafat si accorge dell’enorme ipocrisia “sistemica” che regge il mercato del lavoro in questo paese; c’è un enorme bisogno di mano d’opera fresca – pensiamo alla filiera agroalimentare che senza clandestini crollerebbe – ma la si vuole precaria e ricattata, grazie alle leggi come la Bossi-Fini che, più che “cacciare i clandestini”, serve a disciplinarli e renderli utili al sistema Italia.
Le olive, le arance, i casolari abbandonati dove dormire in mezzo ai topi, il padrone che scappa senza pagarti, in una sequenza classica di sfruttamento, truffe e precarietà estrema. Poi l’arrivo al Nord, lasciandosi alle spalle i lussureggianti paesaggi siciliani, così simili all’amato odiato Medioriente, nell’illusione che “il Nord dei capannoni” mantenga le sue promesse di legalità e di meritocrazia. Tra Milano e Piacenza, Arafat fa la conoscenza di un altro tipo di sfruttamento: quello dove non c’è più il caporale a prelevarti in piazza, ma sono le agenzie interinali, le finte cooperative, i consorzi costituti solo per eludere fisco e diritti, a gestire e spremere questa forza lavoro abbondante e preziosa. Qui le buste paga esistono, ma sono irregolari; i contratti si applicano, ma non sono quelli giusti; e dietro i padroncini mafiosi delle cooperative ci sono grandi gruppi multinazionali della logistica.
A questo punto, la storia di Arafat diventa il romanzo di formazione di un sindacalista – il percorso di un nuovo modo di fare sindacato che unisce la riscoperta degli antichi strumenti del mestiere, alla conoscenza istintiva ed esperienziale della composizione di classe e delle moderne filiere del valore. Questo nuovo sindacalismo ha una sua innocenza un po’ selvaggia; non ha storia, non ha passato, non si trascina dietro il carico pesante e paludato delle complicità e delle moderazioni confederali; i protagonisti sono i proletari degli hub della logistica, che, proprio come Arafat, all’improvviso, per una specie di disvelamento, intuiscono la portata straordinaria della loro forza: non sono (solo) merce, sono soprattutto classe operaia e in quanto tale in grado di padroneggiare e disarticolare il ciclo dello sfruttamento. La prima assemblea di Arafat è una rivelazione:
La sala era stracolma, le sedie erano tutte occupate, e anche in piedi non c’era posto. Per prima parlò un italiano, che fece un breve discorso per introdurre l’argomento. Poi, sul palco presero la parola i lavoratori. Quando li vidi là, in cima, con il microfono davanti alla bocca, mi assalì un timore sottile, una specie di agitazione. (…) Quando iniziarono, rimasi a bocca aperta. Prima parlò un nigeriano (…), poi un sudamericano. Le loro parole erano nette, sicure: andavano dritte al punto senza inutili fronzoli. “Sfruttamento”. “Lotta”. “Dignità”, dicevano forte. E non si trattava solo di soldi, di tirare a campare fino alla fine del mese. Si trattava di rispetto, di diritti, di vedersi riconosciuti come uomini tra gli uomini. Come lavoratori, non come immigrati. Poi parlavo di “unità”. Ecco da dove viene la loro sicurezza, ragionavo, mentre uno scroscio di applausi sembrava sollevarli dal palco. Non erano soli. Non erano singole facce contro i padroni. Erano decine di lavoratori, compatti, che si aiutavano l’un l’altro: una catena di braccia per bloccare i magazzini, per non far uscire nemmeno un pacco di latte o di zucchero, prima di aver ottenuto quel che chiedevano. Non avevo mai visto degli immigrati muoversi e parlare a quel modo. Ero abituato a gente ricattata, impaurita, a uomini ricacciati all’infanzia, traditi da una lingua straniera che li rendeva deboli, incapaci di capire e di difendersi. (pag. 122)
Quindi, quando i “poveri migranti” si riconoscono classe, là scatta la scintilla della consapevolezza di forza, diritti, bisogni. Arafat diventa “sul campo” uno dei leader di questo nuovo sindacalismo di base, mobile, eclettico, radicale, più simile all’esperienza dei wooblies americani che alla classica sindacalizzazione del fordismo europeo. Il giovanotto venuto dall’Egitto – come migliaia di suoi colleghi moldavi, ghanesi o magrebini – impara a stare con la schiena dritta davanti alle gerarchie di fabbrica, a leggere contratti pirata e buste paga bugiarde; a parlare con la stampa e i consolati; a organizzare campagne di scioperi e picchetti che mettono il dito sull’unico nervo scoperto della moderna organizzazione capitalistica del lavoro: la frenetica velocità di circolazione delle merci.
Un libro vivo, da leggere e da raccomandare, anche per chi è a digiuno di cose sindacali. La storia si chiude con il racconto di una vertenza importante, alla TNT di Piacenza, che tra il 2011 e il 2012, cambiò molte cose nei magazzini italiani, per l’effetto “imitativo” che produsse in tutta la filiera. Manca un capitolo virtuale, però, quello che l’autrice non ha fatto in tempo a scrivere: Mohamed Arafat è stato arrestato il 10 marzo di quest’anno, su richiesta della Procura di Piacenza che gli ha riconosciuto un ruolo di guida nelle lotte di questi anni. E il grande magazzino TNT-Fedex che ha fatto da incubatore alle lotte del settore, è stato chiuso poche settimane dopo l’assalto giudiziario, lasciando a casa 300 famiglie. Questo per dire che nelle maledette storie italiane, non c’è mai l’happy end. O forse il vero lieto fine è la formazione di una nuova generazione di attivisti sindacali di cui il torbido mondo della logistica, pur con tutte le complicità giudiziarie e istituzionali, farà fatica disfarsi. Se i tempi editoriali lo avessero consentito, senza dubbio questo libro sarebbe stato dedicato ad Adil Belakhdim, ammazzato il 18 giugno davanti ai magazzini Lidl di Bandrate: un altro figlio di questa generazione indomita, che non si rassegna e non arretra, dentro l’eterna palude italiana.