di Franco Pezzini
(per la puntata precedente, cfr. qui)
- Vite parallele (1)
Ma interrompiamo per un momento la narrazione di Johnson, per notare alcuni aspetti poi riproposti con diversa frequenza nelle avventure delle women in piracy.
A partire dallo spazio concesso dal narratore a vicende preliminari che con la pirateria non c’entrano affatto, tra amori, truffe, battaglie e temporanei riconoscimenti di status, fino a configurare per ciascuna biografia la vera e propria prima parte di un dittico (le vite delle due sono da Johnson presentate in sequenza, prima Mary e poi Anne). Si è citata Moll Flanders, ed è appunto con stile e sapori del romanzo picaresco che Johnson ‘giustifica’ narrativamente l’anomalia di un paio di ingressi femminili nel mondo dei pirati. Una formula, questa dell’ampio preambolo in terraferma, che talora vedremo riproporsi ancora nel cinema – dove la carriera della bella piratessa potrà conoscere il prologo di altre vicende (tra zingari, ladri di strada, eccetera) più o meno avventurose.
Un secondo elemento presente in entrambe le vite descritte da Johnson riguarda il topos del travestimento, da sempre testatissimo motore narrativo ma insieme ricco di implicazioni simboliche. In linea generale, Mary e Anne proseguono «una sotterranea tradizione di travestimento femminile, profondamente radicata e diffusa in tutta Europa, ma soprattutto nell’Inghilterra della prima età moderna, in Olanda e in Germania. Il travestimento era usato principalmente, pur se non esclusivamente, dalle donne proletarie»[16], e i casi delle Nostre ben esemplificano le due ragioni principali del fenomeno, la necessità economica (Mary) e il desiderio di amore e avventura (Anne)[17]. Il travisamento è anzi protratto a tal punto nel tempo – specie nel caso di Mary – da assurgere a stile di vita, ponendo al lettore domande sugli stessi profili identitari dell’eroina: ma in ogni caso le peculiari situazioni descritte da Johnson diverranno una sorta di generico e imprescindibile calco per infinite possibili avventure di epigoni (basti pensare a quando, nel secondo film di Pirati dei Caraibi, Elizabeth si traveste da mozzo per raggiungere la Tortuga).
Se d’altra parte la società piratesca rappresenta per sua natura una sorta di mondo alla rovescia, Mary ed Anne – che non sono, ricordiamolo, principesse guerriere o armatrici in cerca di vendetta, ma figure ‘comuni’ tra popolo e borghesia – ne costituiscono una sorta di cartina al tornasole col ribaltamento di ogni attesa sociale, a partire da quelle relative al ruolo ‘giusto’ della donna.
Da un lato, si torna così al tema della confusione sessuale, e vedremo come da questo fronte le vicende delle due ragazze – prima parallele, poi finalmente incrociate – conoscano sviluppi abbastanza curiosi, per come almeno li presenta Johnson: col risultato di un intreccio intrigante che ricalca le avventure classiche di camuffamenti e agnizioni, e insieme sfida il lettore a immaginare contesti storici più plausibili.
Ma dall’altro, proprio questo elemento di sovversione sessuale traghetta sottotesto al tema erotico, con tutto il frisson che comporta: le avventure di Mary sia con la «gentildonna francese» sia in uniforme maschile e il nesso travestimento / azione / libertinaggio nella vita di Anne condurranno presto a una vicenda a due, dove la componente pruriginosa verrà anzi rafforzata dalla stessa dialettica caratteriale tra la pudica Mary e la libera Anne. Anche questo elemento conoscerà sia pur liberamente sviluppi nei posteri femminili al cinema.
Il che però conduce al fronte più generale delle relazioni delle piratesse coi partner maschili. L’amore di Mary per il commilitone, e le passioni di Anne, in particolare per lo spiantato James e il capitano pirata Rackham, sono giocati su una sovversione dei ruoli: la donna che si finge uomo e combatte, che si ribella alla struttura familiare, che aderisce a una struttura sociale a sua volta sovversiva, muove in una dimensione di spiazzamento e di conflitto almeno potenziale anche con l’ordine maschile ‘riconosciuto’. E su questo rapporto di amore e conflittualità verso i partner maschili – variamente declinata – dovremo tornare nell’esame delle riletture su schermo.
Ciò detto sulle Avventurose Due, è però interessante avviare almeno una rapida comparazione coi topoi della saga di un’altra piratessa emblematica del nostro immaginario, e cioè proprio la Jolanda di Salgari: e immediata emerge la distanza tra il profilo di questa giovane aristocratica e quello delle più modeste colleghe che lo scrittore conosce (forse) troppo tardi, e comunque liquida nel modo citato. D’altra parte è un po’ tutto il contesto di Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, apparso a puntate su rivista nel 1904 e in volume nel 1905, con gli occhi al Femminile italico del secolo precedente – eroine da opere liriche e da romanzi neri, combattenti garibaldine, angelicate patriote e martiri – a distare dall’immaginario avventuroso e picaresco, pragmatico e disinibito delle storie di ragazzacce anglosassoni del Settecento: e se il cinema finirà con l’ibridare i tratti di Jolanda con quelli di Mary e di Anne, una lettura comparata degli scritti di Johnson e Salgari è almeno interessante.
Jolanda appare all’ottavo capitolo del romanzo che la vede protagonista: una scelta che permette di costruirne in absentia un ritratto colmo di attese, collocandolo all’interno di un tessuto di elementi essi pure destinati a una ricca serie di calchi e riproposizioni. Al posto dell’intreccio di derive familiari e sociali di Mary & Anne, qui troviamo la memoria di un eroe-padre defunto e la presenza protettiva dei suoi vecchi amici, ‘giustificando’ l’anomalia di un’eroina femminile attraverso la chiave del sequel di una precedente saga maschile; e in parallelo, a motore della vicenda, non può mancare il ricordo di un nemico che lascia un minaccioso erede (a ricondurre magari a un’altra eroina, stavolta in nero, la Milady di Alexandre Dumas père, col suo erede vendicatore). Anche da un punto di vista ambientale, dunque, non occorre un ampio preambolo picaresco fuori zona: con piglio letteralmente cinematografico (sceneggiatura veloce, vivaci movimenti di macchina, uso abilissimo dei caratteristi) Salgari ci porta da subito nel mar dei pirati tra esotismo documentaristico e avventuroso sfondo storico.
Caratteristiche più autonome di una filiazione letteraria del personaggio sono invece altre, pure emergenti nei primi sette capitoli: la prima presentazione di Jolanda la vede come damsel in distress, prigioniera dei villain, per di più in un monastero e anzi nei suoi recessi più gotici (la cripta); e, sempre come nel gotico, il cattivo non solo mira a proprietà immobiliari (si pensi al vampiro Varney del celebre penny dreadful eponimo, 1845-1847), ma tenta di scippare quelle della ragazza (come il cattivo Montoni in The Mysteries of Udolpho di Ann Radcliffe, 1794).
Quando dunque, all’ottavo capitolo, Salgari fa apparire l’eroina in scena, la sua carta d’identità è ormai definita e si può concederle un degno ingresso – con una sontuosità negata alle due colleghe anglofone. Dopo una catabasi dei suoi amici nelle tenebre piranesiane del monastero e uno scontro armato con le guardie che la sorvegliano, Jolanda appare in «un’alcova, le cui tende rosse, con ricamo d’oro sbiadito dal tempo e dall’umidità, erano abbassate»: dove non troviamo soltanto una copia italica e tardiva delle eroine radcliffiane liberate da prigioni e monasteri, ma una donna-tesoro custodita in un tabernacolo – questa preziosità di Jolanda verrà esaltata a ogni piè sospinto nel corso del romanzo – e un’immagine sacralizzata di sessualità ancora intatta, sorta di giardino conchiuso cui l’eroico Morgan guarderà devotamente ammirato fino agli ultimi ovvi sviluppi. Lo stacco dall’orizzonte sessuale di Mary e Anne è evidente.
Questo del resto è l’aspetto di Jolanda:
Era una bellissima fanciulla, di quindici o sedici anni, alta e flessibile come un giunco, dalla pelle pallidissima, quasi alabastrina, con la tinta che ricordava suo padre, il Corsaro Nero, con due occhi grandi, d’un nero intenso; con lunghe palpebre che lasciavano cadere sul viso la loro ombra.
I capelli, neri come l’ala di un corvo, li teneva sciolti sulle spalle, legati solamente presso la nuca da una piccola fila di perle.
Indossava un semplice accappatoio bianco, con guernizioni di trine e un sottile ricamo d’oro sulle larghe maniche.
E poco dopo – badiamo a questo dettaglio, si rivelerà importante – «[s]i gettò sulle spalle una lunga mantiglia di seta nera con pizzi di Venezia, prese un grazioso cappello di feltro scuro adorno d’una piuma nera».
Nonostante Jolanda appaia impavida sotto il fuoco avversario e non tema di consigliare a Morgan, per salvare «tante vite umane», la propria consegna ai nemici («Sono una donna e non faranno a me verun male»[18]), si noti che vale anche per lei lo statuto classico delle donne del tardo Ottocento, tenute all’oscuro degli aspetti importanti delle vicende al fine di ‘proteggerle’: i pirati-cavalieri a lei devoti non si comportano insomma in modo troppo diverso dagli ammazzavampiri-cavalieri dello stokeriano Dracula (1897) verso Mina Harker, e questa situazione di silenzio peloso si prolungherà nel tempo, come necessità più volte ribadita, lungo il corso del romanzo. Impensabili, va da sé, ‘protezioni’ del genere per Mary & Anne, che la dimensione del segreto la gestiscono in proprio quale elemento di integrazione.
Se in effetti fino al capitolo undicesimo Jolanda è la classica donna da proteggere e salvare, al dodicesimo il suo intervento – sola voce e presenza, anche se ha la spada in pugno – basta a capovolgere la situazione dello scontro:
Il momento era terribile e lo scoraggiamento cominciava ad impossessarsi di quei forti e ruvidi uomini del mare, quando, improvvisamente, una voce metallica ed imperiosa, che ricordava i comandi taglienti del Corsaro Nero, si levò sul ponte della Folgore, dominando il rimbombo delle artiglierie e le urla dei combattenti:
– Su, uomini del mare!… All’abbordaggio!…
Tutti si erano voltati, dimenticando per un istante che gli spagnoli stavano sopra di loro e che li fucilavano.
Jolanda di Ventimiglia, tutta vestita di nero, come usava suo padre, con una lunga piuma pure nera infissa nei capelli ed una spada nella destra, era comparsa sul ponte della Folgore, fra il fumo delle artiglierie, e additava ai corsari la fregata.
– Su, uomini del mare!… – ripeté, con quell’accento che sapeva ritrovare suo padre nei momenti più terribili. – All’abbordaggio! La figlia del Corsaro Nero vi guarda!…
Una situazione che poco dopo verrà commentata così dai protagonisti:
– Io!… – esclamò la fanciulla sorridendo. – Mi sono rammentata della frase che mio padre lanciava, quando spingeva i suoi uomini all’abbordaggio e l’ho pronunciata. Una cosa che qualunque altra donna avrebbe potuto fare.
– No, signora – rispose Morgan, con insolito calore. – Un’altra donna non avrebbe avuto il coraggio di esporsi al fuoco d’una così grossa fregata e si sarebbe ben guardata dal lasciare la sua cabina. Solo voi, nelle cui vene scorre il sangue del più grande eroe del mare, avreste potuto fare ciò che avete fatto. Abbiate, signora, la riconoscenza mia e quella dei miei uomini.
Il coraggio di Jolanda è insomma per Morgan – e in fondo per Salgari, e per gli stessi lettori – una sorta di fatto genetico. Ma è interessante notare che Jolanda si fa copia del genitore, «tutta vestita di nero, come usava suo padre, con una lunga piuma pure nera infissa nei capelli ed una spada nella destra». Un colpo d’occhio còlto nella confusione della battaglia, e che sembra non comportare da parte di Jolanda un vero e proprio cambio d’abito: a parte che non si capisce dove in quel frangente potrebbe aver recuperato altri vestiti, la ragazza ha plausibilmente addosso quelli già descritti, la «lunga mantiglia di seta nera con pizzi di Venezia» e il «grazioso cappello di feltro scuro adorno d’una piuma nera», che nell’emozione del momento appaiono trasfigurati in quelli dell’antico capo. Ma è interessante notare come questa trasformazione momentanea in uomo – non ne verranno raccontate altre – verrà recepita in infinite illustrazioni e copertine, che mostreranno Jolanda magari combattente sulla nave (e anche questo manca) negli stessi abiti del Corsaro Nero: un ennesimo travestimento da uomo dal valore ormai del tutto simbolico.
[16] Rediker, Canaglie di tutto il mondo, cit., pp. 121-122.
[17] Una terza ragione può essere ravvisata nella volontà di far perdere le proprie tracce: per esempio un’altra piratessa, la già citata Jacquotte Delahaye attiva attorno al 1660, per sfuggire a chi le dava la caccia avrebbe finto la propria morte mantenendo un’identità maschile – si dice – per anni.
[18] Cap. undicesimo. I capitoli di Jolanda non sarebbero numerati, ma ai fini della nostra analisi e della più agevole percezione dell’ordine degli episodi citati si utilizzerà un’indicazione numerica.