di Sandro Moiso
Nemmeno ai tempi delle lotte più dure e determinate degli anni Sessanta e Settanta era comparsa in un comunicato di un comitato o di un collettivo di fabbrica una parola o un’incitazione così forte e battagliera. Ma oggi, dopo che la definizione di insorgenti o insurgentes e insurgent nelle sue varie declinazioni linguistiche e politico-militari è stata utilizzata negli ultimi vent’anni di guerra globale per indicare coloro che, per qualsiasi motivazione (occupazione militare del proprio territorio da parte di una potenza straniera o di un’autorità non riconosciuta, proteste contro il caro vita o le conseguenze della globalizzazione e della prima epidemia globalizzata usata come strumento repressivo e di ristrutturazione socio-economica), hanno “osato” ed osano resistere e ribellarsi contro un modo di produzione la cui protervia e fame di plusvalore richiede da tempo uno stato di guerra civile permanente contro gli interessi vitali della specie, il verbo “insorgere” viene impugnato da chi di quella protervia e sete di profitto era destinato ad essere soltanto vittima designata.
La parola, un tempo proibita e ancora oggi oltraggiosa se proveniente da chi dovrebbe soltanto subire, chiude il bellissimo ed efficace comunicato del collettivo di fabbrica Gkn di Firenze in cui, in poche ma sintetiche righe, si condensa l’analisi di ciò che sta per succedere a tantissimi lavoratori italiani; lavoratori che, oltretutto, fino ad oggi erano stati abituati a sentirsi o pensarsi come “garantiti”. Una situazione che era fin troppo facile prevedere fin dai primi mesi della pandemia e ancor più con la farsa del “blocco dei licenziamenti”, destinato soltanto nella sua fumosa applicazione a calmare le acque di una probabile ribellione sociale diffusa nei confronti dei provvedimenti e delle conseguenze riconducibili alla “lotta alla pandemia”.
Una situazione ambigua, denunciata qui sulle pagine di Carmilla e poi negli articoli raccolti nel testo collettivo L’epidemia delle emergenze1, destinata a rinviare soltanto una ristrutturazione produttiva, industriale e sociale che si è presentata sin da subito come inevitabile conseguenza della gestione politica-economica della pandemia in cui, più che la cura e la salute dei cittadini, è sempre risultata fondamentale, fin dai giorni della Val Seriana e dei morti della Bergamasca e del Dpcm che finse soltanto di fermare le attività produttive (qui), la salvaguardia degli interessi del capitale e l’incremento dei suoi profitti e della produttività del lavoro.
Oggi, grazie anche alla melina dei sindacato confederali e dei loro rodomonteschi leader alla Landini, quelle facili previsioni si rivelano in tutta la loro drammatica e spietata realtà. Però, come la storia della lotta di classe ci ha insegnato tante volte, in caso di necessità la classe operaia dimostra la sua capacità di cogliere nell’immediato (oltre che sulla propria pelle) il reale sviluppo e le reali prospettive delle contraddizioni insite nel modo di produzione dominante, non accontentandosi di stanche e scontate manifestazioni del sabato pomeriggio a Roma, come quelle promosse dai sindacati contro la fine del blocco dei licenziamenti, e porre il dito nella piaga, proprio là dove fa più male, soprattutto per i cantori della pace e della collaborazione sociale interclassista.
Così, mentre un autobus di tricolori trionfanti della nazionale di calcio percorreva le strade della capitale visitando le residenze di un potere politico che gli era riconoscente soprattutto per il servizio reso promuovendo l’unità nazionale dei poveracci, i compagni operai del Collettivo di fabbrica della Gkn cercavano e promuovevano una ben diversa forma di vicinanza e solidarietà. Dal basso, di classe, contro il mostro del capitalismo per cui il loro licenziamento, come hanno ben colto gli estensori del comunicato, non rappresenta affatto un’eccezione o un caso specifico (qui).
«Se sfondano qua, sfondano da tutte le parti. Perché siamo una grossa azienda e siamo organizzati. Immaginatevi aziende piccole e meno organizzate». Il general intellect prodotto dalla riflessione collettiva e dall’esperienza “sul campo” coglie immediatamente le caratteristiche dello scontro che sta per aprirsi. A tutto campo e non soltanto con le multinazionali straniere che, al massimo, possono funzionare da apripista come era già successo una settimana prima con il licenziamento dei 152 operai della Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto in Brianza, anche qui per mezzo di una e-mail, ma con tutto il ciarpame capitalista del governo di unità nazionale e del suo Ministro del Lavoro che, nutrito a base di salviniane bistecche d’orso e scadenti film western, non ha saputo dire altro che: «Vogliamo il West, non il Far West». Concentrando in sette parole tutta la filosofia socio-economica e politica leghista.
Hanno ragione i compagni del Collettivo a citare Stellantis e non soltanto perché l’attività produttiva della Gkn è direttamente collegata a quella del gigante dell’auto.
I dirigenti della multinazionale inglese proprietaria della Gkn hanno chiaramente esplicitato che i profitti in Italia sono troppo bassi ergo che i salari dei lavoratori italiani, per ora, sono ancora troppo alti per rendere competitiva e profittevole l’attività produttiva della fabbrica fiorentina, mentre la ditta situata nella provincia di Monza, produttrice di cerchioni per camion della Volvo e della Iveco oltre che per le moto Harley Davidson, pur italianissima e associata a Confindustria, non ha avuto nemmeno bisogno di fare ciò. Si licenzia come e quando si vuole e basta!
Stellantis N.V. (in olandese: naamloze vennootschap, società per azioni) è un’impresa multinazionale di diritto olandese produttrice di autoveicoli. Nata dalla fusione tra i gruppi PSA e Fiat Chrysler Automobiles, la società ha sede legale ad Amsterdam, sede operativa a Lijnden e controlla quattordici marchi automobilistici: Abarth, Alfa Romeo, Chrysler, Citroën, Dodge, DS Automobiles, FIAT, Jeep, Lancia, Maserati, Opel, Peugeot, Ram Trucks e Vauxhall. Il gruppo ha siti produttivi, di proprietà o in joint venture, in ventinove Paesi situati tra Europa, America, Africa e Asia.
Il gruppo, secondo The Wall Street Journal, è il terzo produttore di auto al mondo per vendite, secondo gli ultimi dati del 2019; secondo dati di vendita più aggiornati il gruppo è il sesto nella classifica mondiale dei produttori di autoveicoli: ciò a causa della crisi di vendite in Europa per via della pandemia di COVID-19 e del relativo sviluppo delle vendite in Cina dove il gruppo è più debole della concorrenza. Le capacità produttive di Stellantis sono diverse a seconda del gruppo di provenienza infatti, gli stabilimenti di FCA funzionano in media al 55% della capacità in Europa e quelli di PSA al 68% mentre in Nord America, gli stabilimenti di FCA funzionano in media al 75%, secondo quanto affermato da un analista di una società di ricerche in ambito automobilistico (LMC Automotive Ltd).
Il consiglio di amministrazione di Stellantis è composto da undici membri: cinque nominati da FCA e dal suo azionista di riferimento Exor, cinque dagli azionisti di riferimento di PSA e infine dall’amministratore delegato del nuovo gruppo, Carlos Tavares, già precedentemente presidente e direttore generale di PSA. I poteri esecutivi sono congiunti tra John Elkann (presidente, già presidente esecutivo di FCA e della holding della famiglia Agnelli, Exor) e Carlos Tavares (amministratore delegato). I principali azionisti del gruppo, alla data di conclusione della fusione sono:
Exor – 14,4%
Famiglia Peugeot – 7,2% (con opzione per salire fino all’8,5%)[69]
Stato francese (attraverso la banca pubblica d’investimento “Bpifrance”) – 6,2%
DoExor N.V.ngfeng Motor Corporation – 5,6%
Tiger Global – 2,4%
UBS Securities – 1,6%
The Vanguard Group – 0,96% 2.
Se il lettore dovesse sentirsi stremato e, perché no, anche un po’ annoiato dai dati qui riportati, dovrebbe comunque tener conto che gli stessi, ripresi direttamente da quelli forniti dalla società, ci rivelano e confermano come la stessa ex-italianissima FIAT si sia tramutata, prima con Marchionne e poi con la fusione con PSA (Peugeot) in una multinazionale che di italiano mantiene soltanto gli stabilimenti con la capacità di funzionamento più bassa (55%), in un contesto di competizione fortissima per il controllo del mercato mondiale dell’auto. Se a questo aggiungiamo che le due ditte che hanno aperto le danze dei licenziamenti lavoravano entrambe per il gruppo o sue consociate (come Iveco), non occorre essere dei meteorologi per capire come soffierà il vento per i dipendenti della maggiore impresa del settore metalmeccanico e automotive ancora dislocata in Italia.
Questo ci preannunciano i compagni del Collettivo e questo ci preannuncia il vacuo cianciare governativo sui licenziamenti e il Far West. Questo ci preannuncia, infine, il clima da guerra civile che il capitale è andato instaurando in tutto il mondo con la globalizzazione e la successiva gestione della pandemia globalizzata3.
Cui la risposta non può essere altra che quella proposta dagli operai della Gkn: lo sciopero generale, la realizzazione di una pagina di solidarietà alla vertenza (che potrebbe, ad avviso di chi scrive, trasformarsi in un luogo non soltanto virtuale di incontro e autorganizzazione per tutti i lavoratori che saranno toccati dalle inevitabili crisi aziendali future e dai licenziamenti in blocco), il rifiuto dei discorsi sugli indennizzi e sugli ammortizzatori sociali (che nascondono soltanto la passiva accettazione delle scelte delle aziende, multinazionali o meno che siano) e la scelta dell’insorgenza anticapitalista. Di massa, spontanea e allargata a tutti i settori e i lavoratori toccati da una crisi la cui gestione è destinata a trasformare in profondità il volto del tessuto economico e sociale italiano ed internazionale.