di Ezio Sinigaglia
[Pubblichiamo qui un estratto dal recente romanzo di Ezio Sinigaglia, Fifty-Fifty. Warum e le avventure Conerotiche, Terrarossa, Bari, 2021, in cui emerge lo spiccato gusto dell’autore per il divertissement linguistico. (P.L.)]
Una mattina, forse perché avevamo fatto più tardi del consueto […], ci trovammo nello stanzone tutti soli. Entrò un giovane padre di famiglia che teneva per mano una bambina di quattro o cinque anni, graziosa, i ricci neri, la carnagione scura e abbronzatissima, gli occhi succosi come more di rovo che si posarono subito, affascinati, sullo spettacolo bianco delle nostre operazioni nello specchio. Apparve ben presto chiaro che non era il padre ad accompagnare la figlia, ma il contrario: la bambina gli era stata affidata forse per mezzora dalla sua sposa, piena di fiducia nel suo vigile amor paterno: ma il gentiluomo doveva rendere una visita indilazionabile alla turca e non giudicò imprudente affidare il suo tesoro riccioluto a due malati d’alto rango come noi. Per favore, le date voi un’occhiata, due minuti? Oh, sure, sir, don’t worry, rispose Fifí con cerimoniose nasalizzazioni, we’ll keep our eyes wide open, no concern at all. La bambina si avvicinò al lavabo, dalla parte mia, e ne strinse tra le dita il bordo, sfiorando il lembo libero del mio asciugamano con il volant di pizzo del suo vezzoso costumino color pesca. Era incerta se guardarci dal vero o nello specchio, se guardare me o Fifí, e le sue more rotolavano come biglie dappertutto. Cosa fate, la baba? Sì, risposi, anzi: le barbe: la mia e la sua. E peché insieme? Per risparmiare tempo, è logico. Lei batté le manine l’una sull’altra e rise, sprizzando succo di more nello specchio: aveva il senso dello humour. Fece girare gli occhi per tutto lo stanzone vuoto così da farmi bene intendere fino a che punto avesse capito che imbrogliavo: un conto è contemporaneamente, e un conto è insieme. Non è veo. Come sarebbe? non è vero?! vuoi darmi del bugiardo? No, buffo, non bugiado! Ah, meno male! La erre non la pronunciava, ma non la sostituiva con nessun altro suono: una elle, un gorgoglìo, un profumo d’erre come quello del finto inglese di Fifí, un vuoto percepibile. No, niente: la saltava. Per il resto parlava con la massima disinvoltura e c’era da domandarsi, ascoltandola, a che cosa diavolo possa servire la erre e perché non se ne faccia a meno da millenni. Forse solo per non offendere i francesi. Strinse più forte il bordo del lavabo, si concentrò ben bene, fece guizzar le more da me a Fifí, dalle nostre facce candide alle due candide facce dello specchio, si sporse un po’ in avanti, si tese verso l’alto e sussurrò: Ma è veo che voi due la fate anche la cacca insieme? Fifí fu di una prontezza impressionante nel rispondere a una domanda difficile come questa, così delicata e indelicata a un tempo. Sollevò dritto nell’aria il suo rasoio azzurro sopra la schiuma bianca delle guance: sembrava proprio una piccola hoover del settimo cielo, concepita per spazzar via le nuvole. È un segreto, bisbigliò, ma a te possiamo dirlo. La bambina immobilizzò le more e la bocca semiaperta su Fifí. Che segheto? Noi – disse solennemente Fifí, in un mormorio cospiratorio di sorprendente forza persuasiva – non facciamo la cacca: siamo angeli! La bocca si spalancò del tutto, un soffio di sbalordimento le uscì di gola e le more presero a schiacciarsi dappertutto, esterrefatte. Fissò Fifí a lungo, poi posò lo sguardo su di me. Pensai che stesse saggiando la verosimiglianza dell’assunto. A me mancavano le paradisiache cozze lucenti di Fifí. Ero l’anello debole. Lei invece aveva deciso che ero il capo. Fece arrampicare le due grosse more, in un baleno, lungo rami d’aria fino a raggiungere le mie castagne nello specchio. Parlò con un filo esilissimo di voce. Siete venuti pe sghidammi? Fifí levò di nuovo, dritto tra le nuvole, il piccolo rasoio azzurro. Come ti chiami? Làa. Lara? chiese conferma Fifí. Sì, Làa!, bisbigliò lei ridendo, sei soddo? Ecco almeno due parole per le quali la erre può far comodo, mi dissi compiaciuto: Lara e sordo: i francesi non hanno tutti i torti. Lara, Lara – prese a ripetere Fifí pensoso, fissando l’immagine capovolta del suo rasoio azzurro –, no, non c’è nessuna Lara nell’elenco. Pfiuiii! fece Lara, sollevata. Ti è andata bene, per questa volta, conclusi io, riprendendo a radermi una guancia. Lara aveva cavato fuori dal suo istinto il tono di voce giusto per parlare con due angeli: un bisbigliare da camera mortuaria. E voi come vi chiamate? è pemmesso dimmelo? Fifí puntò l’estremità più sottile del rasoio azzurro verso di me. Questi – bisbigliò a sua volta, sempre in tono di solenne segretezza – è l’arcangelo Warum, e io sono il suo aiutante, Fefanòth, angelo di seconda classe. Ero più sbalordito della stessa Lara: mi sentii quasi vacillare sotto la ventata del sospetto: si può mai essere tanto convincenti senza essere convinti? Diedi due colpetti d’ala per raddrizzarmi nella mia dignità di arcangelo. Mi raccomando, Lara – dissi in un tono di voce senza bisbiglii, del tutto normale e quotidiano, che dissipò il profumo di camera mortuaria dallo stanzone gentiluomini –: il mio nome è segretissimo. Lei s’incrociò davanti alle labbra due dita della destra e due della sinistra e le baciò, facendo zampillare succo scuro di more verso l’alto. Il padre di famiglia salutò la turca con una gran cascata d’acqua e rese visita a un lavabo. Ci ringraziò per aver tenuto tutti quegli occhi spalancati e prese Lara per la mano. Ora, d’un tratto, era lui ad accompagnare lei. Su, vieni, Lara – disse perciò con paterna severità bamboleggiante –, adesso hai finito di rompere le scatole a questi due signori. Lara, mentre veniva trascinata via, si girò a strizzarci una mora nello specchio e ci mandò due bacini, uno per uno, con la mano libera. Non gli ho otto le scatole, papà, dichiarò a metà strada tra il nostro lavabo e la soglia inondata di luce. Ah, figuriamoci! come se non ti conoscessi! Non gliel’ho otte, ho detto! lòo non ce l’hanno, le scatole, papà! Ah no, eh? e come mai? Non posso dittelo: è un segheto. Ma bene! anche i segreti, adesso!