di Gioacchino Toni
Nicholas Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, (a cura di Anna Camaiti Hostert, prefazione di Giancarlo Grossi), Meltemi, Milano, 2021, pp. 422, € 24,00
Nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, quando le tecnologie digitali, i media interattivi, i sistemi di realtà virtuale e di visione aumentata iniziavano a riscrivere quel rapporto tra visione e realtà che, sebbene tutt’altro che immutato nel corso dei secoli, avrebbe condotto ad una trasformazione la cui portata era stata forse soltanto parzialmente percepita, negli ambienti accademici cresce il bisogno di non limitare gli studi a qualche specificità mediale o allo statuto di alcuni tipi di immagine ma di estendere il campo di interesse all’intero spettro degli eventi visivi focalizzandosi magari sulle strategie con cui la vita quotidiana viene messa in immagine.
È di fronte a quella che già sul finire dello scorso millennio si presentava come una vera e propria proliferazione inarrestabile del visivo, alla consapevolezza dell’insufficienza degli strumenti di cui si disponeva per comprendere e governare la trasformazione in atto e all’urgenza di creare nuove tattiche focalizzate sul visuale come luogo in cui si creano e dibattono i significati, che si è sviluppata la visual culture. Tra gli esponenti di spicco nell’ambito di tale approccio figura Nicholas Mirzoeff di cui recentemente è stato riproposto in italiano, dopo alcune precedenti edizioni, la sua celebre Introduzione alla cultura visuale (Meltemi, 2021) stesa allo scadere del vecchio millennio.
«La nostra vita ha luogo sullo schermo», sostiene Mirzoeff, la quotidianità è vissuta sotto la sorveglianza di telecamere, i ricordi sono affidati a strumenti di cattura delle immagini, il lavoro e il tempo libero – ammesso si tratti ancora di due ambiti distinguibili – sono imperniati sui media visivi, mai l’esperienza umana è stata «più visuale e visualizzata» di ora. Questo è il contesto già percepibile sul finire del Novecento. «In questo turbinio di immagini, vedere è molto più che credere. Non è solo una parte della vita quotidiana, è la vita quotidiana stessa» (p. 41). Sono parole di Mirzoeff anche se sembrano uscite da Videodrome (Id., 1983) di David Cronenberg, film che, in ampio anticipo rispetto alla serie televisiva Black Mirror (Id., dal 2011 – in produzione, Channel 4; Netflix), ricorrendo ad una marcata instabilità enunciativa, si proponeva come film-riflessione sulle potenzialità e sulle aberrazioni insite nel desiderio di consumo tecnologico [su Carmilla].
La prima parte di Introduzione alla cultura visuale spiega come la logica formale Settecentesca, con qualche anticipazione nel secolo precedente e prolungamento nei primi decenni del successivo, abbia aperto la strada alla logica dialettica dell’immagine nell’epoca moderna, a sua volta messa poi in discussione dall’avvento dell’immagine virtuale nell’ultimo scorcio del Novecento.
L’immagine tradizionale obbediva a regole proprie, che erano indipendenti dalla realtà esterna. Il sistema prospettico, ad esempio, si basa sull’osservatore che esamina l’immagine da un unico punto di vista, usando soltanto un occhio. Nessuno effettivamente fa questo, ma l’immagine risulta coerente al suo interno, e perciò credibile. Mentre la pretesa della prospettiva di rappresentare la realtà perde terreno, il film e la fotografia creano un rapporto nuovo, diretto con la realtà, così da farci accettare la “verità” di quello che vediamo nell’immagine. […] La prospettiva cercava di rendere il mondo comprensibile per quella figura che si trovava nel punto specifico da cui era stata tracciata la prospettiva stessa. Le fotografie offrivano una mappa visuale del mondo molto più democratica. Oggi, l’immagine fotografica o filmica non indica più la realtà, perché tutti sanno che può essere manipolata dai computer senza che nessuno se ne accorga ((p. 51).
La virtualità dell’immagine contemporanea sembra invece produrre una crisi del visuale:
il postmodernismo segna un’era in cui le immagini visive, e la visualizzazione di cose che non sono necessariamente visive, hanno subito un’accelerazione così drastica che la circolazione globale dell’immagine è diventata fine a se stessa, svolgendosi a grande velocità nella Rete. Il concetto di immagine-mondo non è più in grado di analizzare questa situazione mutata e in via di mutamento. La straordinaria proliferazione di immagini non può essere racchiusa in un’unica immagine per essere osservata dall’intellettuale. La visual culture, in questo senso, è la crisi dell’overload informativo e visivo nella vita quotidiana e cerca di trovare il modo in cui lavorare all’interno di questa nuova realtà (virtuale). […] la visual culture esplorerà le ambivalenze, gli interstizi e le aeree di resistenza, nella vita quotidiana postmoderna, dal punto di vista del consumatore (p. 54).
Mirzoeff si proporne pertanto contribuire alla ricostruzione delle modalità con cui la visualità ha finito per assumere centralità nella vita moderna. Allo studioso non interessa però andare alla ricerca delle “origini” della visualità moderna nel passato; il suo obiettivo è piuttosto quello di giungere a «una reinterpretazione strategica della storia dei moderni media visivi concepita collettivamente, piuttosto che frammentata in unità disciplinari come cinema, televisione, arte e video» (p. 59). Non è lo specifico mezzo ad interessare la visual culture, quanto piuttosto l’evento visivo, cioè l’interazione tra il segnale visivo, la tecnologia che origina e supporta quel segnale, e l’osservatore.
Nel corso della trattazione Mirzoeff nota come l’esperienza del sublime, del piacere nel dolore derivante dal tentativo fallimentare dell’immaginazione di rappresentare l’irrappresentabile, si adatti alla visualizzazione inarrestabile e ubiqua postmoderna intenzionata a catturare l’intera esistenza compresa quella che ancora sfugge al visibile, conducendo così, come sottolinea Giancarlo Grossi nell’introduzione, la visione tanto al suo apogeo quanto alla sua crisi. A proposito dei processi di visualizzazione, Mirzoeff individua tre paradigmi: tradizionale, moderno e postmoderno.
Il primo si fonderebbe sulla prospettiva rinascimentale, «un sistema di organizzazione percettiva dello spazio coerente in sé stesso ma slegato tanto dalla realtà quanto dall’effettivo funzionamento fisiologico della visione umana» (p. 14). Il secondo andrebbe a coincidere con l’avvento della fotografia e del cinema, sistemi in grado di carpire e registrare gli eventi del passato per poi presentarli come attuali mentre l’avvenuta “presenza” dell’evento funge da causa e da referente delle loro immagini. Con l’avvento del digitale la relazione dell’immagine con il reale si farebbe invece decisamente problematica potendo l’immagine essere “costruita” prescindendo da enti esterni. In tale statuto della visione, scrive Grossi nella prefazione, «a essere espulsa è la stessa possibilità del sublime: i dati non possono più infatti sottrarsi alla visualizzazione e, al contempo, l’eccesso di immagini rende sempre più intricata una comprensione immediata dell’evento » (p. 15).
Il voluminoso libro, a riprova di come Mirzoeff affronti complessivamente l’evento visivo, è suddiviso in tre parti distinte seppure per certi versi intrecciate: la prima, di estremo interesse, è dedicata alla “visualità” e qua vengono passate in rassegna le specificità della cultura visuale incentrata sulla prospettiva rinascimentale, dunque dell’epoca cine-fotografica e, infine, della nascente epopea del virtuale (la sezione più bisognosa di aggiornamenti). La seconda parte, dedicata alla “cultura”, presenta una serie di acute riflessioni relative a produzioni audiovisive su questioni di ordine transculturale e identitario. L’ultima parte è invece dedicata alla visual culture all’interno del rapporto “Globale/Locale” a partire dal “caso Diana” che ha a lungo infestato i media audiovisivi inglesi ed internazionali.
La visual culture proposta da Mirzoeff rispondeva a un’urgenza tattica: quella di ritrovare il senso delle immagini in un contesto culturale dominato da una visualizzazione tanto imperante quanto paralizzante. È questa stessa impostazione a riconoscere come alla mutevolezza di paradigmi, contesti, tecnologie e rappresentazioni debba corrispondere, di necessità, una continua rimodulazione degli strumenti interpretativi dell’evento visivo. Vent’anni dopo, in un orizzonte radicalmente mutato, rimanere fedeli al metodo di Mirzoeff significa comprendere quali siano i paradigmi di visualizzazione dominanti oggi e quali le tattiche più efficaci per renderne conto (p. 15).
Così scrive Giancarlo Grossi nella prefazione al volume. Tante, davvero tante, cose sono cambiate da quando è stato steso il testo: nel frattempo la cultura visuale ha subito la sorprendente portata omologante della globalizzazione, si è data un’accelerazione nel processo di convergenza mediale forse inaspettata un paio di decenni fa, la serialità televisiva e le sue modalità narrative si sono sviluppate secondo modalità diverse da quelle indagate dall’autore, i social media hanno proiettato la vita sociale degli individui sempre più atomizzati all’interno di uno schermo popolato da “immagini-ambiente” che separano e connettono con il mondo, l’interattività dell’immagine attorno a cui si imperniava il ragionamento sulla realtà virtuale a fine anni Novanta ha nel frattempo lasciato il posto al concetto di immersività.
Alla luce del “progetto tattico” di Mirzoeff di «creare nuovi strumenti di alfabetizzazione visiva per gestire strategie di visualizzazione» (p. 19) viene da interrogarsi, alla luce della repentinità dei mutamenti, circa la reale possibilità di fornire in tempo utile strumenti di lettura critica del visuale prima che tutto cambi nuovamente. Torna allora alla mente l’efficace paragone proposto dallo studioso Andrea Rabbito [su Carmilla] tra la situazione dello spettatore al cospetto delle “nuove immagini” e quella di un surfista costretto contemporaneamente a concentrarsi per mantenere l’equilibrio e ad assecondare le onde. In effetti si è in una situazione in cui l’eccessiva attenzione all’analisi critica delle immagini rischia di compromettere il necessario lasciarsi trasportare da esse al fine di trarne godimento ma l’assecondarne il flusso comporta il rischio di accettare passivamente la nuova cultura visuale. Se tentare di “guardare da fuori” l’attuale sistema visuale è impraticabile, resta da trovare il modo per esserne al contempo parte di esso, godendo del godibile, e contro, nel contrastare quanto occorre contrastare. Insomma, nel domandarsi “Che fare?”, a maggior ragione ora, occorre contemplare anche il visuale.