di Paolo Lago
Emiliano Dominici, Gli anni incerti. Canzone di fine millennio, effequ, Firenze, 2020, pp. 364, € 18,00.
Nel recente romanzo di Emiliano Dominici, Gli anni incerti, molto probabilmente, è lo spazio a divenire protagonista e narratore, un vero e proprio “spazio temporalizzato, in cui si percepiscono la storia pubblica, le storie individuali, i conflitti: un paesaggio urbano fortemente polifonico”1. Lo spazio, quindi, diviene una sorta di interlocutore privilegiato per noi lettori, si espande e si racconta, sotto la lente della stratificazione temporale che ne mostra i cambiamenti, come bene ha dimostrato, riguardo alla letteratura, Silvia Albertazzi con il suo saggio dal titolo In questo mondo, ovvero quando i luoghi raccontano le storie. La letteratura, del resto, ha trasformato molto spesso lo spazio in cui le storie vengono ambientate in vero e proprio protagonista: si potrebbe pensare alla Londra di Dickens, alla San Pietroburgo di Dostoevskij o alla Brooklin di Auster, oppure, in ambito italiano, alla Ferrara di Bassani, alla Roma di Pasolini e, relativamente alla narrativa contemporanea, alla Milano di Alessandro Bertante, oggetto di un vero e proprio esperimento di “geopoetica”, ovvero di “riscrittura creativa dei fenomeni naturali e del territorio”2.
Emiliano Dominici punta la sua lente narrativa su Livorno, sua città d’origine. Ne Gli anni incerti, a maggior ragione, si può affermare che sia lo spazio a narrare la storia perché, appunto, questa comincia prima della nascita dei protagonisti, dal loro concepimento, secondo una strategia narrativa adottata, in forma sperimentale, già da Laurence Sterne col suo Tristram Shandy, che inizia infatti dal concepimento del protagonista. Jerry, Giulia e Guido, all’inizio non sono ancora nati: e se il primo nasce a New York e la seconda ad Assisi (a Livorno nascerà solo Guido), sarà proprio Livorno la città che li vedrà riuniti, come un vero e proprio luogo ‘prenatale’, in quanto le loro famiglie sono tutte originarie della città toscana. Significativo è poi il fatto che tutti e tre nascano lo stesso giorno, il 22 giugno 1969, a rimarcare un sottile legame astrale che li unirà tutta la vita. La città può essere considerata come un “luogo prenatale” nel quale vigeva la logica simmetrica di unione col ventre materno, simmetria poi perduta, secondo le teorie di Ignacio Matte Blanco, uno psicanalista cileno, interessante continuatore di Freud. Del resto, il desiderio di simmetria perduta, fin dal mito platonico narrato da Aristofane nel Simposio (in principio gli esseri umani erano androgini poi tagliati in due da Zeus), ha sempre caratterizzato sia il linguaggio erotico che quello mistico: dalla coppia di innamorati divisa e poi ricostituita dei romanzi greci fino a Juan de La Cruz e John Donne3.
Livorno è perciò il luogo in cui vigeva l’unità perduta e nel quale i tre personaggi, mossi reciprocamente da attrazione non solo affettiva ma anche erotica, cercheranno di ricrearla. Quello livornese si configura come un vero e proprio “spazio temporalizzato” che si muove attraverso il tempo. La storia prende infatti avvio nel 1969 e si dipana fino al 2001, realizzando un affresco di storia italiana. I personaggi sono lambiti, direttamente o indirettamente, da momenti significativi degli ultimi decenni del novecento: l’autunno caldo del 1969 (che Vittorio, padre di Guido, da operaio vive in prima persona partecipando a diverse manifestazioni a Pisa), la bomba di Piazza Fontana, lo sbarco sulla Luna, l’omicidio di Pasolini (la cui notizia, ascoltata in televisione, provoca il pianto di Alberta, madre di Jerry), gli anni di piombo, il ‘riflusso’ e il disimpegno degli anni Ottanta, le manifestazioni studentesche degli anni Novanta (il movimento della Pantera, vissuto dai tre ragazzi studenti all’università di Pisa) fino soltanto a intravedere la contestazione di Genova 2001.
Gli spazi ‘temporalizzati’ sono fondamentalmente due: Livorno e New York. Jerry nasce nella metropoli americana (a Central Park, durante un concerto dei Grateful Dead) e questa assume una rilevante importanza narrativa già nei momenti iniziali, in cui la madre Alberta la percorre in lungo e in largo insieme al bambino. Livorno è il luogo in cui i tre si incontrano e stipuleranno la loro eterna amicizia. Allora, nella prima parte del romanzo ci scorre sotto gli occhi una Livorno fine anni Sessanta e inizio anni Settanta. La sapiente scrittura di Dominici sembra dipanare sotto i nostri occhi un vero e proprio “film dell’impossibile”, secondo una definizione offerta da Carlo Cassola: la trasposizione narrativa di un quadro o di una stampa popolare ma anche, si potrebbe aggiungere, di una fotografia dell’epoca. Le vie, le piazze e le case di Livorno sembrano animarsi di vita propria come se, plasticamente, emergessero da una foto a colori di quegli anni, insieme alle persone che le popolano, insieme ai loro abiti, alle loro abitudini e alle loro automobili. Però – si badi bene – la narrazione dell’autore non appare semplicemente cronachistica, come se fosse la pura e semplice trasposizione letteraria di un quadro (come nell’antica ekfrasis), ma si presenta intrisa di vita, della vita quotidiana che sempre uguale si ripete, dei problemi e degli affanni della gente comune, dei dolori ma anche delle gioie e delle felicità che possono scaturire da un semplice sguardo. È soprattutto l’anima più popolare di Livorno che emerge dalle pagine di Dominici, dei quartieri più schietti e genuini che egli stesso ama di più.
La storia si espande fin quasi ad affrescare una saga familiare, di quella grande famiglia allargata costituita da genitori, parenti e amici dei tre protagonisti (e, nel corso della narrazione, vedremo una tipologia di famiglia ben lontana da quella ‘tradizionale’ perché una famiglia è costituita da chiunque si voglia bene), rappresentata graficamente come tante piccole stelle in una pagina iniziale del libro, a adornare il triangolo i cui vertici sono costituiti da Jerry, Giulia e Guido (il numero tre, come immagine di unione perfetta, ricorre infatti spesso nel corso della storia). Fra quelle piccole stelle incontriamo anche Capitalismo, il coniglio domestico della famiglia di Guido. Vittorio, da buon comunista, non ha esitato un attimo a scegliere il nome del piccolo animale:
Quando è stato il momento di scegliere il nome, a Vittorio è venuta un’idea: «È brutto? È cattivo? Mangia tutto? Allora lo chiamiamo Capitalismo». Così, quando il coniglio fa le sue cacatine nel soggiorno, Antonella lo apostrofa con «Brutto, Capitalismo!». O quando mangia l’insalata dell’orto, gli urla «Capitalismo, ingordo!». Quando lo sorprende nel letto dei bambini, lo scaccia con uno scappellotto e un «Capitalismo, sparisci!». Ogni volta che sente la moglie gridare contro il coniglio, Vittorio sorride, pensando di avere avuto una buona idea (pp. 47-48).
La narrazione, però, non mette solamente in scena una saga di tipo familiare ma anche, come già accennato, uno spaccato di vita italiana, rispecchiata nel microcosmo livornese. Questo aspetto, probabilmente, è evidente nel sottotitolo del romanzo, Canzone di fine millennio che, rimandando alla musica (un po’ sullo stile di un grande modello come la Pastorale americana di Philip Roth, il cui titolo rimanda a una composizione musicale), vuole trasmettere l’idea di composizione, di lungo canto poetico che appare come un omaggio alla propria terra.
Bisogna anche dire, comunque, che la musica è assai presente nell’intero racconto: dalle canzoni ascoltate dai personaggi fino, a livello formale, agli stessi titoli delle parti in cui è diviso il libro, ripresi, ad esempio, da frasi di canzoni di Nada, De Gregori, Battiato, dei Nirvana e dei R.E.M. L’impianto polifonico del libro (a creare, appunto, un “paesaggio polifonico”) è dato anche dai numerosi riferimenti all’arte, alla letteratura e al cinema. Quest’ultimo emerge soprattutto nel momento in cui Guido, all’università, seguendo il corso di Storia del cinema, si appassiona a molti registi contemporanei. Durante l’occupazione dell’università, nel Dipartimento di Storia delle Arti e dello Spettacolo viene allestita una rassegna sulla Nouvelle Vague e i protagonisti sono attratti, non a caso, da Jules e Jim (1962) di François Truffaut. Guido, Giulia e Jerry si identificano nei personaggi del film e nelle loro incessanti scorribande all’insegna del triangolo erotico che li unisce. E, a tale proposito, si potrebbero ricordare anche i protagonisti di Bande à part (1964) di Jean-Luc Godard che, fra le loro scorribande attraverso Parigi, compiono anche una corsa nelle sale del Louvre, sequenza citata da Bernardo Bertolucci in The Dreamers (2003).
Perché, alla fine, anche Guido, Giulia e Jerry sono tre sognatori che non si sono fermati di fronte alla realizzazione dei propri sogni, accettando di essere se stessi fino in fondo: la pittura per Guido, lo studio della letteratura per Giulia, le Scienze per Jerry. Fino al sogno più difficile e probabilmente più importante, quello di mantenere intatta un’amicizia che è molto di più, che di volta in volta si trasforma in fraternità, eros, amore, affetto, attrazione sessuale. E, per capire davvero se, alla fine, sono riusciti a realizzare questo sogno, non resta altro da fare che inerpicarsi attraverso l’avvolgente e intrigante narrazione de Gli anni incerti.