di Fabio Ciabatti
Jasper Bernes, Comunismo e logistica, Red Star Press, 2020, pp. 96, € 9,00
A cosa serve la teoria? Secondo la visione “didattica” propria di una parte significativa del marxismo novecentesco, dovrebbe armare la coscienza proletaria e indirizzarla verso un agire corretto. A questa concezione si può opporre, sulla scia di Marx, l’idea che la teoria sia un aspetto dell’auto-formazione del proletariato, un elemento che può accelerare “l’auto-chiarificazione delle lotte e dei desideri di un’epoca”. Seguendo Frederic Jameson, si può aggiungere che la riflessione concettuale, più che una serie di prescrizioni, consiste in una mappatura problematica necessaria per far fronte allo smarrimento che tutti quanti proviamo, in quanto soggetti individuali, trovandoci impigliati nella “grande rete comunicazionale, globale, multinazionale e decentrata” del capitale postmoderno. La teoria dovrebbe inoltre esaminare e delucidare i nuovi orizzonti che ogni ciclo di lotte, vittorioso o sconfitto che sia, è in grado di aprire. Quando la lotta raggiunge un certo livello il pensiero può ritornare sulla pratica suggerendo una linea d’azione che restringe il ventaglio delle opzioni possibili.
Questa discussione sul ruolo della teoria fa da premessa al breve testo di Jasper Bernes, Comunismo e logistica, pubblicato da Red Star Press a cura del collettivo editoriale Danze Macabre. Si tratta in realtà di uno scritto di circa 10 anni fa che cerca di dare risposte ad una serie di questioni che nascono dalla partecipazione dell’autore al blocco effettuato da Occupy Oakland nel porto della città californiana nel novembre 2011. Tra gli attivisti, infatti, una serie di domande sono sorte spontaneamente: quali compagnie vengono colpite direttamente o indirettamente dal blocco? che rapporto c’è tra i blockaders, molti dei quali disoccupati o sottoccupati, e i portuali fortemente organizzati? che relazione tra il blocco, pratica che prolifera dopo la crisi del 2008, e lo sciopero che invece sembra scemare?
Se è chiara la connessione tra importanza del porto e processi di globalizzazione, secondo Bernes bisogna dare una profondità storica a questa consapevolezza precisando che questi processi nascono dalla crisi degli anni Settanta. A fronte della caduta del tasso di profitto si sviluppano tecniche per accelerare i tempi di rotazione del capitale: se il ciclo che va dalla produzione alla vendita delle merci si accorcia il profitto prodotto nella medesima unità di tempo si accresce anche se per ciascuna rotazione il tasso di profitto è minore.
La logistica è appunto l’infrastruttura che, basandosi sulla velocità e la sincronizzazione dei tempi, consente di realizzare un’integrazione funzionale tra fornitori a monte e gli acquirenti a valle nell’ambito di filiere produttive internazionalizzate; è il tessuto connettivo di una nuova forma organizzativa delle multinazionali a livello planetario basata sulla centralizzazione (del comando) senza concentrazione (del processo produttivo in un medesimo impianto). La logistica
è il potere dinamico di coordinare e sincronizzare, il potere di congiungere e di separare i flussi; di accelerare e rallentare; di variare il tipo di merce prodotta, così come il suo punto di origine e di destinazione; e, infine di raccogliere e distribuire informazioni sulla produzione, sulla distribuzione e sulla vendita delle merci appena vengono immesse sul mercato.1
In breve “La logistica è l’arte della guerra del capitale” nell’ambito della concorrenza intercapitalistica e interstatale e, allo stesso tempo, “una delle armi chiave nella decennale offensiva globale contro i lavoratori”. Infatti,
Una delle ragioni più importanti da cui scaturiscono l’estensione, la complessità e la lubrificazione di queste supply chains planetarie è che esse … permettono al capitale di ricercare i salari più bassi in qualsiasi parte del mondo e di mettere i proletari gli uni contro gli altri.2
La ristrutturazione logistica, dunque, indebolisce la posizione dei lavoratori all’interno del luogo della produzione, rendendo più problematico lo sciopero, e al contempo fa sì che il processo di valorizzazione sia maggiormente vulnerabile ad azioni, come il blocco, che sono in grado di interrompere il flusso delle merci.
Se “la logistica è il progetto di mappatura cognitiva proprio del capitale stesso”3, prosegue Barnes, dal punto di vista dei blockaders si può immaginare una contro-mappatura che consenta di individuare e sfruttare i “colli di bottiglia” per rendere più efficace lo strumento del blocco. Oltre al valore pratico questa contro-logistica potrebbe averne uno “esistenziale”: la capacità di raffigurare la singola azione accanto ad altre e all’interno di una sequenza politica che, avendo un passato e un futuro, può aprire un nuovo orizzonte di possibilità.
Questo orizzonte è, secondo Bernes, diverso da quello associato al classico antagonismo proletario novecentesco. L’estrema opacità del sistema attuale, infatti, rende difficile pensare un’autogestione dei mezzi di produzione non solo per la difficoltà di raffigurarsi la propria posizione all’interno di un sistema altamente complesso, ma anche per l’impossibilità di identificare tale posizione come fonte di dignità e di soddisfazione. Ma c’è di più. L’attuale sistema può essere gestito solo come totalità e ciò apre a due ordini di problemi. In primo luogo un suo utilizzo alternativo richiederebbe una breve sequenza di rivoluzioni vittoriose a livello sufficientemente globale, mentre è molto più realistico pensare a un processo storico ben più lungo e articolato in cui singole aree geografiche si emancipano dal giogo capitalistico. In secondo luogo la riconfigurazione per un uso non capitalistico del sistema della logistica integrata a livello planetario creerebbe un abisso tra “l’amministrazione delle cose” e “l’autogoverno dei produttori”: la pianificazione centrale, a questo livello, si configurerebbe necessariamente come tecnocratica e/o autoritaria.
Posto che qualsiasi società rivoluzionaria non potrebbe prescindere dall’utilizzo dei mezzi di produzione nella configurazione ereditata dal capitale, si pone il problema di quali tra questi mezzi possano essere effettivamente riconfigurati per una produzione non capitalistica. La tecnologia attuale, infatti, incorpora in sé non soltanto l’imperativo della produttività, ma anche quello del comando dispotico sul lavoro; la distribuzione attuale dei mezzi di produzione è il portato di una divisione internazionale del lavoro gerarchicamente definita; il sistema produttivo è orientato alla soddisfazione della domanda solvibile (dunque connotata da un punto di vista di classe) e non dei bisogni della grande maggioranza dell’umanità. La conclusione cui giunge Jasper Bernes è che “l’instaurazione del comunismo richiederà, come fattore di sopravvivenza primaria, un massiccio processo di disconnessione dalla fabbrica planetaria”.4 Rimanere collegati alle catene globali del valore significherebbe infatti restare incatenati alla produzione per il profitto: sarebbe cioè necessario mantenere un’economia votata all’esportazione portata fatalmente a scimmiottare, per rimanere competitiva, la dinamica dell’accumulazione capitalistica, come già accaduto per l’URSS.
Se l’obiettivo è la disconnessione, sostiene l’autore, si può ritenere che le tattiche messe in campo nella contemporaneità – le rivolte estemporanee, il blocco, l’occupazione dello spazio pubblico – ben lungi dall’essere il frutto immaturo di una coscienza di classe ancora acerba, esprimono la comprensione, per quanto al momento solo intuitiva, del fatto che la ristrutturazione “logistica” del capitale ha messo fuori gioco un intero repertorio strategico.
Le conclusioni di Bernes sono interessanti e al tempo stesso problematiche. Lo smarrimento individuale di cui si parlava all’inizio è connesso, tra l’altro, a una conformazione ancora frammentaria dei conflitti che rende più difficile per la teoria tornare sulla pratica per restringere il ventaglio delle opzioni possibili affermando, per esempio, la prevalenza di forme di lotta come il blocco sulla pratica dello sciopero. Piuttosto che individuare una possibile gerarchia tra le future modalità di conflitto è probabilmente più utile indagare le connessioni tra la sfera della produzione e quella della riproduzione, tenendo comunque fermo che tutte le forme di dominio e di oppressione del mondo contemporaneo sono subordinate alla brama inesauribile di profitto del capitale. La sfera della riproduzione, infatti, da una parte può contribuire significativamente alla costruzione della soggettività dei lavoratori e dello loro lotte (per es. offrendo risorse materiali e ideologiche o fornendo luoghi di aggregazione e mobilitazione) e, dall’altra, costituisce essa stessa il terreno per una molteplicità di conflitti, anche in considerazione di un’accumulazione capitalistica sempre più devastante nei confronti delle condizioni della produzione (ecosistemi, lavori di cura, ambienti urbani ecc.).
In questo contesto, tornare all’analisi di classe, come suggerisce il collettivo Danze Macabre nella postfazione, può essere senz’altro utile per venire a capo della frammentazione cui oggi assistiamo. Ricominciare a indagare il sostrato dei cosiddetti interessi materiali quale principio di intellegibilità della psicologia delle classi è certamente opportuno per non soccombere di fronte allo smarrimento provocato dall’apparente caoticità dei comportamenti individuali che il capitalismo “postmoderno” spaccia per suprema libertà. Bisogna però precisare una cosa: l’“individuo-Persona” (termine adoperato dagli autori della postfazione), con la sua pretesa di incondizionata autodeterminazione, non è una mera illusione, ma un feticcio, nel senso marxiano del termine. Esso ha perciò una sua consistenza “sensibilmente sovrasensibile” (per dirla ancora con Marx) contro cui ci scontriamo quotidianamente.
Il vecchio sindacalista citato da Giovanni Iozzoli in un suo recente articolo su Carmilla (vedi qui) ci ricorda che l’intervento nei luoghi di lavoro è da sempre stato assorbito per il 90% da micro-vertenze e altre piccole rotture di scatole, ma che nei decenni passati questa prassi minuta e quotidiana era collocata, per la coscienza comune, in un orizzonte storico e collettivo di emancipazione. Un orizzonte che oggi è andato in gran parte perduto, “liberando” gli individui dai legami soggettivamente significativi con i gruppi sociali di appartenenza e lasciandoli immersi in un eterno presente. Il rapporto tra individuo e classe, insomma, è tutt’altro che scomparso, ma è non è più così immediato come poteva apparire in passato.
Per questo oggi sono importanti riflessioni teoriche, come quelle di Bernes, che cercano di ridefinire un orizzonte storico a partire dal contatto diretto con momenti collettivi di conflittualità, mettendo in relazione la soggettività e l’immaginario antagonisti con la conformazione oggettiva del capitale, anche quando alcune conclusioni ci possono lasciare insoddisfatti. Detto altrimenti, oggi più che mai abbiamo bisogno di quella “interazione permanente” tra teoria e prassi di cui parlava Adorno, un autore che sembrerebbe agli antipodi dell’orizzonte problematico qui evocato. Nel pensiero realmente dialettico, sosteneva il filosofo francofortese, “non c’è prima un compiuto sistema teorico, da cui si traggono poi “conclusioni pratiche”, ma solo quando si ha a disposizione la teoria bell’e pronta, in tutta tranquillità. Al contrario, a tutti i livelli di questo pensiero, si accendono scintille che fanno contatto tra il polo estremo della riflessione teorica e il polo estremo del comportamento pratico”.5