Intervista a cura di Luca Baiada
Diamine, sono nato nel 1936, o quando, se no? L’omo si sfoga, ’un c’è verso. Mamma era giovane, ogni italiano aveva una sciarmutta, due, tre. La parola minorenne qui ’un c’era. Venga, venga, ma attento a dove mette i piedi, ho fatto l’orto.
Le sciarmutte vietate? Sì, all’italiana. E poi, via, in ogni conquista c’è la preda, come nel Grand Tour dei signori. Goethe a Roma aveva una ragazzetta, Rousseau a Venezia manteneva una bimba di undici anni, diceva che gli sonava il pianoforte. La verità prude, eh? «E lascia pur grattar dov’è la rogna». Certo, ho un dantino rilegato, lo scordò qui babbo e lo tengo sul canterano. Ogni tanto sciacquo i panni in Arno anch’io. Aisha! Aisha, karkadè per due e poi vattene in cucina!
Mi danno del bugiardo? A me che voglio bene a tutti? De Benedetti, per esempio, mi fa venire i lucciconi. Ha trattato così male «Repubblica», «l’Espresso» e «Limes», che ’un gli è rimasto nulla. Un quotidiano organo ufficiale delle persone intelligenti, un settimanale che parlava di scandali quando «Playboy» era indeciso fra le parole e le fotografie, e una rivista col titolo in latinorum. Sicché: ogni giorno in maschera da cittadini, una volta a settimana chiacchieroni e tutto l’anno reazionari. E sull’assortimento, ci fai un fiocco col riprillo.
Il mi’ babbo? ’un lo vedevo mai. Stava fra giornali e salotti ammodo. Ma guardi, se Lei crede di venir qui a fare un pettegolaio, può tornarsene in Italia. I miei diritti hanno le loro ragioni.
Sono l’erede. Sono pronto a qualsiasi esame. Le analisi del DNA le avete inventate voi. Una volta tanto, andranno a pro di un affricano. Che sono l’unico, è più facile crederlo che negarlo: diamine, Lei pensa che quell’omo rinsecchito, vecchio anche da giovane, amabile come un cignale e largo come Stenterello, spezzasse il cuore alle dame? A Fucecchio – un borgo grande come un tucul ma diviso in due clan – gli garbavano le sassaiole fra quelli del monte e quelli del piano: «insuesi» e «ingiuesi». In Affrica venne a sfogarsi e scappò. Da ammogliato, burrasche. E dopo, la compagna che preferiva sui ginocchi era l’Olivetti. Altri figlioli, ’un ce n’è di sicuro. Se qui riesco a fare il vino e l’olio? o perché lo dovrei dire a Lei?
Parliamo del carattere. Non si vedeva? I modi ferrigni di una zitella, gli occhi strabuzzati peggio del duce, sempre a pungere e lisciare, più nascondino d’una serpe. E stia attento, perché qui viene il bello. Il giornalismo di babbo era fatto di divagazioni, di lingua sciolta, era un libro di stroncature e adulazioni, un discorso allusivo. Le sue battute lasciavano il segno, ma solo sui deboli, come coltelli senza manico che feriscono chi li impugna, a meno che abbia le mani guantate di ferro. Halima, non c’è bisogno che pulisci qui, ora! spazza e dai il cencio di là!
Le sue inchieste arrivavano sull’uscio del fastidio. Il trucco era lasciar capire che si sa molto, rivelare qualcosa, come un filo piccino picciò, che il giornalista potrebbe tirare, se gli garbasse, per far venire fuori il gomitolo. Allora si fa carriera: io so, tu sai che potrei dire, ruzzo, mi cheto e te mi paghi. Ci vogliono fiuto, parola abile, contatti, passato disinvolto, memoria da elefante. Ho detto il trucco era, ma alla precisa: il trucco è. Dire e non dire, dare e non dare. Assaggi un cantuccino, prego. No, le briciole le metta qui, poi ci governo le galline.
Certo, i fatti d’Ungheria nel ’56. A maggior ragione, un capolavoro. Budapest era insorta, la stampa borghese voleva una rivolta per il mercato. Babbo fu furbo: avanti la verità, essere il primo, avanguardista del giornalismo della guerra fredda: i ribelli erano comunisti contro il Cremlino, libertari e contrari al blocco sovietico. Spiazzò tutti. In gamba, non c’è che dire. Fece intendere che sapeva e lo riconobbero. Chi sa dire davvero, davvero sa tacere. Fermo, non dia nulla al gatto, ché altrimenti non piglia i topi.
No, guardi: su codesto, gnorri. La storia del telegramma, quella la trova in L’orgia del potere di Mario Guarino. Babbo riuscì davvero, alle Poste centrali, a fermare un telegramma spedito per disguido? Il telegramma che avrebbe svelato alla prima moglie di Berlusconi la relazione con Veronica Lario? Primo, Le ho detto niente pettegolaio. Secondo, che i giornalisti facciano molti mestieri non è un segreto. Vada a chiedere a Eugenio Scalfari i suoi rapporti con Lino Iannuzzi o perché trattò Antonio Ingroia a quella maniera. Oppure vada a scoprire come ha fatto Renato Farina, l’agente Betulla, a continuare a lavorare. Poi riveda i battibecchi tra Gad Lerner e Giuliano Ferrara, quando si danno le dita nell’occhi e le pedate negli stinchi su Berlusconi e Agnelli. A proposito di Ferrara, gli chieda come fece ad avere in anticipo l’articolo di Antonio Tabucchi destinato a «Le Monde». E già che c’è, si rigoda Marco Travaglio su Berlusconi, dopo averne detto peste e corna. Cosa c’è, Nyala? Non hai finito, all’acquaio? Vai e lustra ammodo, lesta!
E per colmo di burletta, i giornalisti gridano contro i traffici e i privilegi degli altri. Se ne rammenta, di quel libro? La casta di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, che ne vendettero e ne vendettero e a me nulla mi dettero. Come se non si conoscessero i nepotismi, le ambizioni, la fregola, le bizze, la prosopopea del giornalismo italiano. Ma lo sa che Paolo Mieli da moccioso promise a sua madre di diventare il direttore del «Corriere della sera»? Volitivo, il bimbo, eh? Poi vai a vedere le famiglie, e ne trovi pochi sopportati dalla moglie. Sì, c’è anche qualche buon marito, fra i giornalisti: qualche marito in tailleur, con la permanente e il rossetto che cola di sudore.
Ma sia chiaro: dei quattrini che Berlusconi diede a babbo quando uscì dal «Giornale», io non ebbi neanche un centesimino. Comunque, a guadagnarci non fu punto il cavaliere. Babbo rifece filotto come in Ungheria, fu il migliore sul campo, con più di ottant’anni sul groppone. Da un giorno all’altro, campione della libertà di stampa, a reti unificate. Lui che tanti anni prima si era ridotto a Telemontecarlo, per smoccolare che in Italia c’era il comunismo. Sì, codesta è panzanella, ne vuole un cucchiaino? Il pane secco lo fo ammollare a buio, quando controllo che tutte abbiano rigovernato ammodo, queste pigrone sciabisolche. Qui ’un si butta via nulla.
Dicevo, non è un caso, se «il Fatto Quotidiano» prese babbo per bandiera. Se lui fosse rimasto con Berlusconi, gli antiberlusconiani non avrebbero avuto la loro immaginetta da capezzale. Corro troppo? No, è l’aria dell’Affrica: è Lei, che ha corti il fiato e la vista: la stampa italiana ha un debito col mio babbo. Per aver seguito l’esempio? Bah, sì e no. Per averlo usato e tradito, direi: lui sapeva scrivere, inventava bene e ti scodellava una prosa scoppiettante che scànsati. E ora? Si vergognano tanto del loro chiacchierume, che danno spazio al sondaggista, all’esperto, al profondo conoscitore, all’analista, al politologo. I giornali son tutti uguali, tutti in favella dormitiva: o battutame trito e rivogato, o litanie struggine da mortorio. Minestre riscaldate e senza sale; brodo di zucca e vin di bozzacchioni. Un po’ per diritti d’autore, un po’ per danni, devono pagare, e io sono l’erede.
Cosa ci farò coi quattrini, lo so io. Qualità, diamine, assortimento, igiene. Clientela pulita, commercio onesto. Di chi… ehm, voglio dire di che cosa, è affar mio. Per le persone di volontà, c’è sempre posto. E riserbo garantito, niente trappoloni per la gente di riguardo; per intenderci, niente trattamento Marrazzo, via: che a incastrare quel citrullo furono più i politici e i giornalisti che le guardie. Insomma, la merce l’ho già, e non tutta usata, anche fresca da rinnovare, bella soda. Bisogna far partire l’organizzazione. E che debbano pagare uno con la pelle scuretta, buon pro, a me mi fa un baffo. Pagheranno uno che si comporta da persona educata. Faizah, portami le pianelle! Pillaccherona, sei sorda?!
Sulla Toscana, non fo il nesci. La toscaneria caricaturale va bene per le cartoline degli alberghi marca agriturismo, tutti uguali e finti come i discorsi di Matteo Renzi. Al fondo c’è un argento vivo battagliero, e non è un caso, se i due campioni della contesa, della linguacciutaggine, del bastiancontrario, vivi anche da morti, sono toscani: babbo e Oriana Fallaci. Anche il sardo Gramsci, dalla galera ammirava Machiavelli per far dispetto al papa. Ha capito? No?! Allora è duro di comprendonio! Mettiamola così: prendi il cinismo di Machiavelli e la schiena comodina di Guicciardini, mettici sopra l’estro di Curzio Malaparte e l’arroganza di Alessandro Pavolini, insudicia ogni cosa con un Risorgimento mancamentato dal fascismo, e avrai una voce toscana di successo. Ma di giochi di parole non mettercene troppi, altrimenti ti ritrovi alla Leopolda, con un bastraone che crede di rottamare tutto e perde il referendum e il governo in un colpo solo. Aisha! Questo karkadè è un troiaio! Fallo rifare da Zeina o da Kadida!
Quanto a Mondadori e gruppo «Repubblica», a maggior ragione. Partiamo dall’inizio della ricolonizzazione, fra l’assassinio di Enrico Mattei e la prima crisi petrolifera. Abbia pazienza, sa, ma io ragiono da qui, dall’Affrica. Dagli anni Sessanta la mafia ricicla denaro nel mattone e nell’industria, intanto la manifattura automobilistica condivide la spartizione del potere e cambia il volto dell’Italia. E il giornalismo? Poche eccezioni messe alla zitta nel sangue, e si adegua. Poi arrivano la droga e il suo riciclaggio nelle televisioni private. Col lodo Mondadori c’è una prima resa dei conti, attraverso la corruzione di magistrati. Il resto segue, ne conviene?
Che adesso si mescano lacrime di coccodrillo perché i padroni dei giornali ingavonano tutto in un mucchio, anche con un colosso multinazionale dell’automobile, Le pare tanto strano? È lo stesso aggeggiare, rimescolando le carte del mazzo. Siamo alle solite. E i giornalisti italiani, dentro i fatti, ci dovrebbero ficcare bene l’occhi; invece ci mettono le mani, il portafogli e le mutande. A quella maniera, faranno sempre un giornalismo smanaccione, arraffino e mutandaio.
Poi, vede, si fa presto. Quando venne in Affrica nel ’35, mi’ padre scrisse che la guerra era una villeggiatura, un premio agli italiani dato da Mussolini il «gran babbo». E ora? I giornali son pieni di figli di papà, il potere parla un linguaggio paternalistico che ohimmei, il giornalismo ha voglia di padre padrone e tratta i lettori come bimbetti. È il granbabbismo del mio babbo che ha fatto scuola. Il colonialismo ha ipotecato la comunicazione, e io non dovrei ipotecare i giornali?
Non mi parli della strage del Padule di Fucecchio, adesso. Sì, sì, quei dugento contadini ammazzati nel ’44. Ma non creda di saper tutto, Lei, perché c’ha fatto un libriccino. Babbo vedeva il mondo da vicino e da lontano. Mi segua. Nel ’37 ci fu la rappresaglia italiana qui, a Debra Libanos. Fu proprio di maggio, come ora, ero piccino e m’andò bene, poteva toccare anche a me. A Graziani gli s’era fatta la bua a una gamba, e ammazzarono migliaia di etiopi, anche i monaci. La più grave strage coloniale di cristiani, in questo continente, la fecero i cristiani di Roma. Allora, quando babbo seguì il processo su Fucecchio, nel ’47 per il «Corriere d’informazione», che poteva dire? che i tedeschi non dovevan fare in Toscana quello che gli italiani avevan fatto qua? E dopo, quando nel ’98 andò a testimoniare al processo di Theo Saevecke, che aveva comandato le SS a Milano mezzo secolo prima?! Ma andiamo!
Il processo Saevecke, sull’eccidio a Milano nel ’44, usciva dall’Armadio della vergogna, l’archivio sulle stragi naziste che a Roma era rimasto nascosto all’opinione pubblica, nei locali della magistratura militare, fino al ’96. Non mi segue? Ah, ma allora Lei non sa un accidente! A Milano i tedeschi avevano catturato e liberato babbo, e anche Ferruccio Parri, e anche Mike Bongiorno. O chi c’era, a Milano? Saevecke! Nel dopoguerra, Parri è l’antifascismo perbene, Mike Bongiorno fa la televisione perbene e babbo il giornalismo perbene. La vedo groggi. Si accorge ora, che il perbenismo italiano postbellico era passato per i comandi delle SS? Il giornalismo non è un mestiere per gente schizzignosa.
Il mio giudizio sul governo di Mario Draghi? È così tecnico che ha bisogno delle consulenze del McKinsey, ma così politico che ’un si deve dire se è destra o sinistra. E poi, giù, ’ndiamo: il giornalismo si divide fra chi a Draghi gli porta l’acqua con l’orecchi e chi lo critica per finta. E anche questo, non dimostra il credito di babbo? Allora, i diritti sono miei. Il governo è quello ideale, in questo momento. Il problema è quanto dura, questo momento, perché nel momento in cui lo dico, il momento potrebbe essere passato. E non scriva che sono polemico, guardi che sono un Montanelli anche se non c’è sul passaporto.
La mia ipoteca su tutte le redazioni, a cancellarla non ci penso né punto e né poco. Io sono l’erede, da quella notte in cui una sciarmutta diede un po’ d’amore a un fascista. Per lui, un momento tenero in una vita di stizza e d’aceto.
Aspetti, le regalo un ovo. Lo prenda. No, giù codeste ditacce! Ecco: questo piccino.