di Gioacchino Toni
Federica Castelli, Comunarde. Storie di donne sulle barricate, Armillaria, 2021, pp. 160, € 12.00
«Mi interessa dare voce alle esperienze e alle pratiche radicali agite dalle donne che hanno dato vita alla Comune di Parigi del 1871: le loro parole, i vissuti, la loro incredibile passione politica. Il mutamento totale di immaginario politico che hanno innescato, a volte assieme e a volte in contrasto con i propri compagni. Nel farlo, voglio cercare di mantenere lo sguardo fisso sui loro corpi, sulle esperienze materiali, le pratiche collettive, focalizzandomi sul rapporto tra corpi, politica e spazio urbano e sulle differenti modalità del conflitto agite da uomini e donne. Questa visione – incarnata, sessuata e attenta alle dinamiche di genere – dà l’occasione per guardare a un’esperienza, solo apparentemente lontana nel tempo, a partire da una prospettiva inedita e feconda» (pp. 11-12).
È con queste motivazioni che Federica Castelli percorre le strade parigine di fine Ottocento trasformate dall’esperienza della Comune in quella che Lefebvre ebbe a definire come, prima di ogni altra cosa, «una grandiosa festa», un’esperienza collettiva in cui una città intera si è fatta organismo vivente.
Rispetto all’esperienza del 1848 ed alla centralità assegnata al «cittadino in quanto lavoratore» ripresa, almeno formalmente, da numerose repubbliche democratiche successive, nell’esperienza della Comune, sostiene l’autrice, la centralità del lavoro come elemento politico e di cittadinanza viene abbandonata nella convinzione che la soggettività politica derivi dall’azione comune e non dal lavoro. «Durante la Comune viene rifiutata la distinzione moraleggiante tra lavoratore e ozioso, “colui che non produce ed è un parassita della società”. L’ozio è anzi innalzato a valore antiborghese. L’emancipazione passerà per altro, non per il lavoro. Allo stesso tempo, si avvia un ripensamento del lavoro fuori dalle distinzioni borghesi, in primo luogo quella tra arte e lavoro produttivo»1.
La Comune pone al centro dell’agire politico la dimensione relazionale, estetica, corporea, così come il piacere del vivere e immaginare assieme. Intende la politica come insieme di pratiche di autodeterminazione, tra autonomia e autorganizzazione della vita sociale quotidiana. Cerca l’emancipazione politica collettiva, l’abbandono dell’idea del governo come attività per specialisti, […]; mira alla costruzione collettiva di nuovi immaginari, nuove relazioni tra i soggetti e nuove modalità di azione politica; cerca la bellezza nella vita quotidiana, la creazione di nuovi spazi e temporalità, una cultura diversa e condivisa, per la creazione di una società più giusta non in virtù di decreti, leggi o norme calate dall’alto, ma attraverso un cambiamento completo del quotidiano, una rivoluzione del modo di considerare i tempi e gli spazi quotidiani, il linguaggio e le identità2.
L’autrice affronta l’universo comunardo ponendosi alcuni interrogativi. Se l’esperienza della Comune ha saputo rovesciare l’immaginario borghese prospettando una società nuova, si può dire altrettanto a proposito dei rapporti di genere? Perché in tante rivoluzioni la libertà e la giustizia hanno finito per valere soltanto per alcuni soggetti riconosciuti come detentori della cittadinanza? Perché al termine di una lotta condotta collettivamente le donne vengono emarginate dalla scena pubblica? Perché quella femminile tende spesso ad essere vista come una partecipazione non direttamente politica ma di mero supporto all’azione maschile?
Nonostante siano numerosi gli studi riguardanti la Comune parigina, ancora pochi sono quelli dedicati alle comunarde e ai rapporti di genere di questa esperienza. Molte comunarde, sostiene Castelli, consapevoli «che i diritti da soli sono parziali e provvisori, sempre a rischio, e che forniscono una libertà formale che deve accompagnarsi a reali cambiamenti della società e delle relazioni di genere3, non hanno lottato per diritti politici e ciò le ha rese quasi invisibili agli occhi di molte femministe liberali.
Un tratto peculiare dell’azione politica di molte di queste donne è il non perdersi in ideali astratti di uguaglianza e giustizia, ma calare le loro lotte e aspirazioni nel concreto, nel reale, nella sua pluralità, nelle differenze e nelle diseguaglianze che lo contraddistinguono. In base allo stesso approccio, non aspirano all’acquisizione di semplici diritti politici ma si concentrano sui problemi sociali ed economici che incidono sulle vite materiali delle donne, lavorando sui processi e sulle relazioni concrete più che sul piano istituzionale. Inoltre, le comunarde sanno che una società giusta dovrà basarsi (anche) sull’emancipazione delle donne, e che è opportuno articolare e tenere conto delle profonde connessioni tra capitalismo e patriarcato come fattori di dominio e oppressione4.
Evitando di sovrapporre le istanze dei femminismi contemporanei alle lotte delle comunarde, «se per femminismo si intende il rifiuto delle diseguaglianze tra uomini e donne e il desiderio di lavorare su queste relazioni sovvertendone i presupposti»5, allora, sostiene l’autrice, queste donne possono essere dette femministe. Lungi dal focalizzarsi su alcune donne “eccezionali” oscuranti tutte le altre, l’autrice preferisce «parlare delle donne comunarde, delle loro relazioni, dei loro vissuti e dei loro corpi anche quando restano senza nome»6.
Queste comunarde si sono dovute confrontare con più di un nemico, ed uno di questi è sicuramente l’immaginario ottocentesco con cui si sono trovate a fare i conti, un immaginario che, come sempre è avvenuto del resto, non si colloca soltanto dall’altra parte della barricata. Nell’immaginario borghese del periodo l’idea dominante di cosa sia una donna oscilla tra poli contraddittori: «da una parte la donna idealizzata, che nutre e cura; la donna pura, casta, moralmente superiore. Dall’altra, l’essere demoniaco, pericoloso, bestiale, irrazionale e primitivo, che la società patriarcale deve contenere e civilizzare»7. Per la società ottocentesca spetta all’uomo controllare questa natura femminile.
Nell’immaginario borghese di fine Ottocento, le donne delle élites sono caratterizzate da una certa ‘assenza di emozioni’ che deriva dal controllo esercitato socialmente sui loro ‘ardori’, mentre le donne della classe operaia sono sessualmente sempre disponibili, voraci, perché nessuno vigila sulla loro natura erotica e carnale. In un connubio di sessismo e classismo, le donne della classe operaia sono da considerarsi donne ‘perdute’. La donna è natura ed emozione. Va controllata. […] Questa visione porterà gli stessi comunardi a forti contraddizioni, nella cui analisi occorre tenere conto della grande influenza tra loro delle teorie sociali elaborate da Proudhon, di cui è nota la netta chiusura nei confronti della questione politica delle donne8.
Le comunarde agiscono una rottura totale nei confronti di tale immaginario mettendo in discussione le gerarchie e le ideologie di genere dominanti rendendo «la lotta comune un’occasione per attraversare i confini di classe e genere che limitano i loro comportamenti pubblici e privati […] Per la prima volta denunciano che la diseguaglianza e l’antagonismo tra i sessi costituiscono le basi del potere»9. Se il mondo cambia col suo immaginario, allora occorre agire sulle relazioni, sull’educazione dei bambini e delle bambine a una società altra, più giusta ed equa in cui le differenze non siano fonte di gerarchia.
Soprattutto tra le comunarde di provenienza proletaria è percepito chiaramente il nesso tra sfruttamento economico, lavorativo e subordinazione all’interno dell’ambito famigliare, dunque è diffuso un sentimento antiborghese ed uno spiccato anticlericalismo. Buona parte delle donne di estrazione operaia, sostiene Castelli, «desiderava partecipare alla lotta condivisa per amore della Comune, per sostenerla attivamente e non solo per supportare i mariti o i fratelli lavorando come infermiere o come cuoche cantiniere nei battaglioni maschili. Per queste donne, e per alcuni uomini, la difesa militare della Comune era qualcosa di universale, oltre i ruoli di genere»10.
se nei giorni della semaine sanglante donne e uomini combattono fianco a fianco sulle barricate, se i versagliesi non fecero distinzioni di sesso nel trucidare o arrestare comunarde e comunardi, è anche vero che, fino a poco prima del pericolo, la questione della partecipazione attiva delle donne alla lotta e alla difesa armata era stata un nodo problematico e controverso11.
L’autrice si sofferma sulla molteplicità delle posizioni in ambito femminile a partire da alcuni nomi noti di attiviste. «Il femminismo di Paule Mink (1839-1901) è centrato sulla libertà individuale, focalizzato sulla differenza femminile contro l’idea di eguaglianza tra i sessi, neutralizzante e omologante. Coniuga questa impostazione con un anarchismo non collettivista, un’idea decentrata di autorità, una visione in cui libertà e uguaglianza, sia per gli uomini che per le donne, siano ben bilanciati»12. André Léo (1824-1900) «si muove su piani decisamente diversi. La sua posizione parte dal collettivismo socialista e femminista legato alla lotta per i diritti, che la porta a immaginare la nuova società come fondata sulle libertà individuali e raggiunta tramite l’uguaglianza. […] Per la giornalista e scrittrice, le donne devono avere diritti ed essere libere non in quanto donne ma in quanto esseri umani»13. Elisabeth Dmitrieff (1851-1918) «ha una visione marxista e associazionista, che punta alla nascita di una federazione politicizzata di cooperative di produttori-proprietari per liberare le donne e gli uomini lavoratori dalle oppressioni di genere e di classe»14. Louise Michel (1830-1905) «è profondamente anarchica, si dedica soprattutto a lavorare per il cambiamento passando attraverso il piano simbolico della parola, dei discorsi che infervorano i clubs e delle azioni eclatanti, simboliche che restano negli immaginari collettivi»15. «Victorine B. (Victorine Brocher, 1839-1921) cancellerà sé stessa e il proprio essere donna in nome dell’idea di Repubblica […] Si fa anonima per farsi interprete di tutte le donne che, identificate come pétroleuses, sono state condannate alla violenza, allo stigma, all’esilio»16.
Ad essere tratteggiate sono anche le diverse organizzazioni femminili attive nell’esperienza comunarda come l’Union des femmes pour la défense de Paris et les soins aux blessés fondata da Elisabeth Dmitrieff e Nathalie Lemel, associazione rivoluzionaria composta soprattutto da donne lavoratrici, unica organizzazione femminile a ricevere aiuto e riconoscimento dal governo della Comune a differenza dei clubs femminili a cui non viene nemmeno concesso spazio sulla stampa comunarda. Tra le tante realtà sorte all’epoca, la studiosa si sofferma sui comitati di quartiere come il Comité des femmes de la rue d’Arras e il Comité de vigilance de Montmartre, che intrattiene pessimi rapporti l’Union, che a sua volta struttura comitati di quartiere, accusata di voler monopolizzare l’azione delle donne.
Nel volume viene dedicato spazio anche alle rappresentazioni dell’azione delle donne durante la Comune di Parigi; se la letteratura ad essa favorevole, sia all’epoca che successivamente, ha sostanzialmente ignorato le donne o ne ha discusso sbrigativamente e superficialmente, gli oppositori hanno tendenzialmente presentato queste donne come selvagge, malvagie, contro natura.
Come era accaduto alle donne della Rivoluzione francese anche le comunarde si videro improvvisamente circondare da numerose produzioni iconografiche, racconti e leggende sul loro conto. […] Tali rappresentazioni avevano un tratto ricorrente: il rimando al loro sesso e al loro corpo come, in fin dei conti, elemento di derubricazione. Sia le cronache favorevoli che quelle avverse all’esperienza comunarda sono accomunate da questo processo, che lascia scomparire di fatto la specificità dell’azione delle donne nascondendola dietro ad altri fattori (tradizionalmente ritenuti non politici) e riconducendo ancora una volta l’esercizio della cittadinanza femminile alla natura riproduttiva e sessuale delle donne, togliendo valore (e realtà) al loro contributo alla lotta collettiva.17.
Il corpo delle donne risulta centrale nella produzione dell’identità nazionale ottocentesca. Il celebre dipinto La libertà che guida il popolo (1830) di Delacroix è uno egli esempi più noti in cui il corpo femminile veicola contenuti come «l’identità nazionale, la fedeltà alla Patria, la difesa della Nazione, la cittadinanza, la rappresentanza politica»18; tutto l’Ottocento è disseminato di un’iconografia del corpo femminile di volta in volta esaltato o presentato come abietto, sessualmente vorace e demoniaco.
Quando il corpo delle donne di cui si parla non è quello della Madre Patria, ma di donne in carne e ossa, la questione cambia […] soprattutto se si parla di donne della fazione avversaria. In questo caso non solo la donna in rivolta è una strega, come durante la Rivoluzione francese, ma è anche lascivia, lussuria, desiderio sfrenato. […] Per i detrattori della Comune le sue partecipanti erano incarnazione del disordine e dell’assenza di ogni regola, di devianza e orrore. In un gesto molto poco dispendioso nell’immaginario del patriarcato ottocentesco, per questi uomini le donne comunarde diventano il simbolo dell’insurrezione stessa e dei suoi mali. Per questi uomini, l’azione reale delle donne durante la Comune rimane totalmente invisibile. Le pratiche, le alleanze, le rivendicazioni, le elaborazioni teoriche non esistono. Esistono solo gli eccessi di rabbia, la violenza per le strade, l’orrore del loro agire ‘illogico’ e ‘bestiale’. […] Il comportamento bestiale, irrazionale e violento delle donne durante la Comune viene attribuito a un difetto morale legato all’attivismo militante. Da una parte, le donne della classe operaia hanno una ‘naturale’ mancanza di moralità, legata alle condizioni ‘depravate’ in cui socialmente vivono. Dall’altra, le donne di classe borghese che hanno abbracciato l’idea comunarda hanno abbandonato il loro giusto posto, e la moralità, per lasciarsi trascinare nella depravazione. In queste rappresentazioni è molto marcata l’associazione tra classe e sessualità. […] Dunque, se da una parte il conflitto di classe sposta lo stereotipo della donna proletaria dalla cruda e selvaggia sessualità verso l’immagine della donna pericolosamente violenta e ripugnante, allo stesso tempo la donna borghese in rivolta, libera dai vincoli sociali, diventa una donna che seduce e irretisce e, soprattutto, una ‘femmina’ sessualmente disponibile. Potremmo quasi dire che è come se avesse perso la protezione della proprietà privata borghese. Fuori dal controllo dell’autorità maschile, queste ‘femmine’ cadono vittime di influenze nefaste, vengono sviate con facilità, portando devastazione e scompiglio nell’ordine basato su precise gerarchie di genere e di classe. La loro presenza nello spazio pubblico rappresenta un affronto alla centralità della domesticità (e della proprietà) e della separazione tra classi e generi19.
Oltre le narrazioni che vogliono le comunarde come donne senza freni, sguaiate, sanguinarie e bestiali si diffonde anche l’immagine delle pétroleuses, donne descritte come streghe ingannatrici accusate di distruggere col loro fare incendiario gli stessi ideali comunardi.
Fu così che le donne che chiedevano di difendere Parigi con gli uomini divennero il simbolo della violenza – e della malvagità – della Comune. Questa rappresentazione non pesava tanto sulle eroine delle barricate, che erano un’eccezione rispetto al proprio sesso e quindi quasi sante e martiri. Furono le donne ‘comuni’ come le cantiniere a farne le spese. In base a questa accusa, le donne di Parigi colte sole in strada venivano arrestate: bastava a volte che avessero un paniere con sé. Il mito delle petroliere contribuì a creare un clima di violenza contro tutte le donne che si aggiravano per la città20.
L’immaginario misogino ottocentesco abita però entrambi i lati delle barricate: da entrambe le parti si ritrovano le medesime retoriche e gli stessi pregiudizi nei confronti delle donne, che siano versagliesi o le proprie compagne. L’immaginario dell’epoca è permeato da una comune incapacità di vedere nelle donne soggetti politici. Da entrambi i lati si ha la tendenza a celebrare donne ideali che ben poco hanno a che fare con le donne reali. Anzi, sostiene Castelli, l’edificazione delle prime si presta a ratificare ruoli e gerarchie.
I compagni comunardi vacillano, indecisi, tra l’esaltazione e la derubricazione, tra l’orgoglio e il timore. I commentatori celebrano le singole, i poeti le idealizzano. I borghesi negano loro l’umanità, dipingendole come un’orgia di belve. I versagliesi le uccidono, le condannano, le deportano. Sante, puttane, furiose, sanguinarie, bestie, streghe, virago. Eppure, nonostante questa fittissima cortina innalzata su di loro dallo sguardo maschile, le comunarde oggi possono dirci e insegnarci davvero moltissimo21.
Castelli dedica la conclusione del volume ad una riflessione circa l’essere comunarde oggi proprio a partire da come tra le barricate parigine di fine Ottocento le donne abbiano «messo in questione l’impostazione patriarcale dell’agire rivoluzionario, sia aprendo spazio per una nuova immagine della donna nelle rivoluzioni a seguire, sia mettendo in luce le contraddizioni della lotta condivisa»22. Una riflessione circa il cosa significhi essere comunarde oggi, sostiene l’autrice, non può che partire dalla consapevolezza di «come la lotta contro un nemico comune, contro lo stesso potere, non comporti automaticamente la liberazione dei sessi, ma anzi rischi di riprodurla all’infinito, all’interno dei gruppi, dei movimenti, dei partiti e delle case che si condividono con i propri compagni di lotta»23. Le storie delle donne che si sono battute per la Comune parigina mostrano la trasversalità del patriarcato e come «gli uomini, ma in generale i soggetti egemoni, anche quelli più rivoluzionari, quelli mossi dai più puri ideali di giustizia, non siano sempre pronti ad abbandonare i privilegi che la società, anche quella che stanno tentando di abbattere per istituirne una nuova, attribuisce loro»24.