di Marc Tibaldi
Luca Queirolo Palmas, Federico Rahola, Underground Europe. Lungo le rotte migranti, Meltemi editore, pp. 479, € 25,00.
Ricordate l’anticonformista Jeremiah Dixon in Mason & Dixon di Thomas Pynchon quando interviene contro gli schiavisti? O Louise Michel che, deportata in Nuova Caledonia dopo il periodo rivoluzionario della Comune di Parigi, solidarizza con le lotte degli indigeni? Se non confondete finzione e realtà storica ma siete coscienti della forza di entrambe, allora siete pronti per leggere Underground Europe. Lungo le rotte migranti (Meltemi Editore, pp. 479, euro 25,00) di Luca Queirolo Palmas e Federico Rahola. I due ricercatori e attivisti – fondendo i piani di studio e di lotta – in questo libro vogliono leggere il viaggio e il movimento dei migranti fuoriuscendo dall’idea della vittima, del soggetto passivo, della pietà, della carità, guardando invece la dimensione della lotta che sta dentro ogni situazione di frontiera, ma anche la dimensione dell’incontro, della fuga attiva. È un libro duro, crudo, ma anche intenso ed emozionante. Un saggio con interi capitoli scritti con grande forza narrativa. Questo libro rievoca un passato sotterraneo con l’ambizione di scrivere una “storia del presente”, scrivono gli autori “a innescarla hanno contribuito due romanzi recenti: La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead e Exit West di Mohsin Hamid. Entrambi, con strategie diverse, raccontano in modo affascinante l’esodo, il viaggio, la violenza, la speranza e la disperazione che accompagna i soggetti on the run”.
Il libro è diviso in tre parti. La prima ambientata negli Usa, è la premessa storica e “teorica” alla fuga costituente dei migranti, sulle tracce di un libro che raccoglie i racconti delle fughe degli schiavi dal sud segregazionista attraverso la “ferrovia sotterranea”, potente mito fatto di immaginazione e solidarietà, pubblicato nel 1855, si tratta di A North-side view of Slavery. The refugee: narratives of fuggitive slaves in Canada, di Benjamin Drew, fervente abolizionista, scrittore, giornalista, attivista. La seconda parte “invita a proiettare la storia ottocentesca sul presente europeo, interrogando il lessico della governance delle migrazioni, i dispositivi confinari e l’accoglienza messi in atto per arginare, selezionare e incanalare la mobilità migrante; e invitando a leggere la Borderland Europe puntellata da campi di accoglienza/detenzione, muri e filo spinato nella filigrana di un’Europa sotterranea intessuta di accampamenti informali, zone di transito…”, ma anche di lotte, solidarietà, esperienze e speranze, costruzioni, condivisioni.
La terza parte si caratterizza per un’”etnografia multisituata”, con i caratteri dell’inchiesta, che scava il fuori campo del viaggio, esplorando ciò che, nonostante i sofisticati mezzi di controllo, rende possibili i movimenti intorno e all’interno di regimi confinari come quelli di Calais, Ceuta, Ventimiglia, Patrasso, Atene, Pozzallo… snodi che possono essere letti come trappole ma anche come crocevia e passaggi della ferrovia sotterranea europea.
Importante per la comprensione sia teorica che militante del libro è questa nota degli autori: “Questa luce sul passaggio, scegliamo a tratti di smorzarla: perché la storia che raccontiamo è essenzialmente sotterranea, perché l’efficacia della mobilità undocumented si fonda sull’invisibilità delle pratiche che la rendono possibile, perché contro i fari panottici puntati addosso ai migranti on the run occorre rivendicare un diritto all’opacità, all’ombra”.
George Jackson scriveva dalla prigione: “è possibile che io fugga, ma durante la mia fuga cercherò un’arma”. È una citazione usata da Gilles Deleuze per sostenere la sua idea di fuga come creazione. “Creare delle linee di fuga, perché fuggire significa tracciare una linea, delle linee, tutta una cartografia. Si scoprono dei mondi solo in una lunga fuga spezzata”. Si fugge dalle potenze fisse che vogliono trattenerci… Cercare un’arma non significa necessariamente un’arma da fuoco, ma creare reti di solidarietà e strappi nella rete del potere, individuare alleati, attendere, mimetizzarsi, prepararsi alla nuova fuga. È ciò che fanno i migranti.
In Undeground Europe due sono i concetti-bussola importanti: da una parte l’idea di “rotte” e dall’altra l’idea di “coalizione”. Rotte come spazio carsico, per lo più illegalizzato, ma che viene continuamente costruito e abitato, un modo per far vedere quanto dentro questi percorsi, dentro questo spazio che viene prodotto. L’Europa oggi può apparire come un’enorme trappola, ma diventa anche un crocevia affollato sotterraneo e questa immagine può rovesciare quella di superficie di uno spazio sigillato, inespugnabile. “Dentro questo spazio vedevamo la nostra posizione, non solo come osservatori, ma anche come soggetti politicamente coinvolti. Vedevamo formarsi dei gruppi composti da soggetti politicizzati ma molto diversi tra loro: parliamo di migranti, richiedenti asilo, soggetti in transito ingabbiati, intrappolati”, sostengono gli autori. Questi gruppi eterogenei aiutavano a costruire queste rotte e ad abitare lo spazio. Le due immagini che emergevano, in base a queste due parole, erano quelle sì di una border land, di una zona di frontiera colonizzata da dispositivi di confine, ma dall’altra la possibilità di un’altra dimensione, di un’altra idea, di un’altra immagine sotterranea che permetteva il movimento e intanto abitava questa trappola, trasformandola in un crocevia. Questa è l’idea di fondo di Underground Europe, un lavoro che vuole apportare una dimensione costruttiva attraverso l’immaginazione e la rilettura dello spazio delle borderlands europee, non unicamente attraverso la lente della necropolitica che esiste, ma raccontando anche l’effervescenza, la fantasia, la politica. Quando Rahola e Queirolo Palmas riflettono sui linguaggi che vengono utilizzati dai migranti per raccontare le loro storie, nel momento in cui vanno di fronte ad una Commissione, segnalano che c’è sì il linguaggio della vittima, però esistono anche altri linguaggi che sono assolutamente fondamentali. C’è soprattutto il linguaggio dell’avventura: per molti giovani africani il viaggio è avventura piena di curiosità e voglia di scoprire; poi c’è il linguaggio della guerra, perché la frontiera in qualche modo è una cosa dura, che fa male, si riproduce attraverso la violenza delle istituzioni alla quale occorre contrapporre un altrettanto disciplinata autorganizzazione per poter aumentare i tassi di successo. Nei campi che stanno a ridosso delle recinzioni di Ceuta e Melilla, troviamo tutto un linguaggio militaresco che costruisce però la possibilità stessa per i migranti di passare dall’altro lato. Il libro prova a scavare e a vedere le possibilità, le tattiche, le strategie e anche i percorsi di immaginazione politica che nascono stazione dopo stazione e attraverso gli incontri che generano prefigurano anche la possibilità di un’altra Europa, così come la ferrovia sotterranea nella guerra civile americana, aveva portato all’abolizione della schiavitù.
Sandro Mezzadra, che a questi temi ha dedicato saggi fondamentali, tra cui il pionieristico Diritto di fuga, pubblicato da Ombre corte esattamente vent’anni fa e ancora oggi punto di riferimento teorico sul nodo migrazione-cittadinanza-globalizzazione, pone al centro del dibattito la determinazione soggettiva dei movimenti migratori, l’insieme di comportamenti e immaginari che fanno della migrazione un movimento sociale, nella situazione contemporanea, in cui il progressivo travolgimento di ogni ostacolo alla libera circolazione di merci e capitali convive con la moltiplicazione e il riarmo dei confini contro profughi e migranti. Proprio Mezzadra, in una recensione sul Manifesto, segnala che in Underground Europe il termine che ricorre insistentemente per definire alleanze e convergenze che lasciano intravvedere la ferrovia sotterranea in Europa è “coalizione”: studenti Erasmus e scout, collettivi noborder e centri sociali, volontari Ong, cattolici di base, medici, infermieri… sono tra i soggetti (con una egemonica presenza femminile) che si impegnano a garantire il passaggio.
“Per noi l’opposizione nasceva dalla natura stessa di quel luogo”, si legge invece in Nemici di ogni frontiera. La lotta contro i Cpt nel Salento, un libro interessante pubblicato dalle Edizioni Anarchismo nel 2020, che racconta le lotte avvenute tra il 2001 e il 2007 contro quelli che allora venivano chiamati Centri di permanenza temporanea, in particolare quello di San Foca, in provincia di Lecce. Gli autori scrivono: “anche un altro aspetto, oggi molto presente nelle lotte contro i Cie (oggi Cpr), all’epoca non è stato per noi centrale, ed è quello del rapporto con chi subisce l’internamento. Per noi l’opposizione non nasceva dalle pessime condizioni di vita che vigevano al suo interno o dalla violenza di chi lo gestiva – condizioni pure, inevitabilmente, pesavano – ma dalla natura stessa di quel luogo. Eppure, nonostante la mancanza di rapporti, se non sporadici, tra noi fuori e loro dentro, ciò non ha impedito che si sviluppasse una lotta comune. Comune, non una lotta assieme, perché non c’è dubbio che i fastidi che si progettavano e si concretizzano fuori andavano inevitabilmente a dialogare con le rivolte e le evasioni che si realizzavano dentro. In un non combinato dialogo a distanza, i fili delle lotte si annodavano, andando a comporre una unica e più estesa opposizione al Centro”.
È proprio così – con questo non combinato dialogo, con questo intreccio di coalizioni, complicità e solidarietà, con diverse pratiche e strategie – che si crea la “ferrovia sotterranea” per lottare, fuggire e provare a creare un altro mondo.
Nota a margine. La casa editrice Meltemi, che ha pubblicato Underground Europe, ha recentemente tradotto e mandato in libreria anche Comunismo e questione nazionale. Madrepatria o Madre Terra di Michael Löwy. Il testo è un tentativo abbastanza inquietante e buffo di riproporre la rivendicazione nazionale – e addirittura lo stato-nazione seppur stemperato dall’internazionalismo – come terreno di lotta al capitalismo. L’autore rivisitando gli scritti di molti teorici marxisti che hanno affrontato l’argomento durante l’’800 e il ‘900 cerca un collegamento tra via nazionale al comunismo e l’ecologismo, l’antirazzismo, il femminismo, le esperienze solidaristiche… un patchwork che vorrebbe valorizzare la complessità ma che in realtà cerca una soluzione riduttivista e semplicistica per affrontare e combattere il capitalismo transnazionale. Non si può combattere i nuovi meccanismi di dominio e governance con concetti arrugginiti del passato. La molteplicità, la produzione di nuove soggettività, la tendenza alla diversificazione creata dal meticciamento e dall’ibridazione sono la vera risorsa della diversità contro le nuove forme di sovranità, di dominio e di controllo. Non lo sono invece le vecchie e presunte identità, culture, lingue che necessitano di codificazioni e istituzionalizzazioni per fingere di avere qualche vitalità. La tendenza alla diversificazione del meticciamento toglie ogni alibi ai teorici dell’omologazione, alla fobia dell´assimilazione, ai nostalgici delle comunità originarie. È quindi controproducente, se non dannosa, l´utilizzazione “progressista” o “ribelle” di politiche e concetti legati a progetti nazionalisti, localisti, etnici, territorializzati. Di conseguenza, la difesa ambientale e il particolare sono preservabili non da improbabili comunità radicate, ma dalla sensibilità ecologica planetaria, che in quanto planetaria è nomade e proprio in quanto nomade interessata ad ogni luogo. La territorializzazione identitaria, anche se portata avanti con intenti apparentemente progressivi, obbliga all´affermazione conservatrice della soggettività, da qui la necessità di smascherare i territorialismi (siano essi “nazionali” o “locali”) e nuovo razzismo differenzialista, cioè quel razzismo che in nome della difesa delle diversità non si definisce come tale. Di contro, ogni progetto di immaginazione creativa non sottomessa, legato a quello che qualcuno chiama ancora arte, userà lingue meticce e culture nate dall´ibridazione, farà riferimento alle ricchezze del pianeta, non più a una tradizione nazionale o territoriale.
Affrontare il capitalismo transnazionale sul suo terreno non è cosa semplice, significa che i movimenti egualitari dovranno funzionare con collegamenti e connessioni planetarie se vogliono essere efficaci.
Insomma se una cosa ci insegnano le ferrovie sotterranee è che è necessaria una globalizzazione dal basso, per riprendere un concetto di Mezzadra, o una pratica e sensibilità planetaria e di classe. Sembra necessario ricordare la portata sovversiva degli scritti di Abdelmalek Sayad, sia rispetto alle teorie della migrazione sia rispetto alle potenzialità politiche dell’azione dei migranti una volta che quest’ultima venga liberata dalla tirannia dell’“ordine nazionale” e dalle determinazioni coloniali che continuano a segnare quell’ordine sotto il profilo dei rapporti di potere a livello globale. Lo “sguardo dell’autonomia” che emerge dagli scritti di Sayad è un contributo prezioso sotto il profilo politico, permette di cogliere e valorizzare i momenti di autonomia che segnano i movimenti migratori contemporanei. Si tratterà di sviluppare condizioni che consentano alla loro autonomia di incontrare altre “autonomie”, altri movimenti con cui costruire coalizioni capaci di riqualificare la libertà e l’uguaglianza al di là della miseria dell’“ordine nazionale”.