di Alessandro Barile
Una delle dimensioni umane sconvolte dalla modernità è sicuramente quella artistica. Il ruolo e la funzione sociale dell’arte escono traumatizzate dal confronto con la scienza, con le tecniche, con la progressiva secolarizzazione che la scoperta del mondo porta con sé. Come ammoniva Brecht, l’uomo «ha inventato microscopi per trasformare in un caos una normalissima goccia d’acqua che suscitava un’impressione d’armonia». E se fino ad un minuto prima dell’invenzione del microscopio l’arte funzionava adeguatamente a risolvere il mistero di quella goccia d’acqua, dopo ha progressivamente perso aderenza con l’esigenza umana di spiegarsi la realtà. Il caos del mondo, evocato dall’arte, veniva illustrato dalla scienza. Fuori di metafora, se l’arte è una forma di autocoscienza dell’uomo, è chiaro che la scienza ne mina inesorabilmente lo statuto. Come continuare a stupirsi di fronte alla profondità della natura, e dell’uomo che ne è parte, di fronte a un libro che ne illustra l’esatto funzionamento? Di fronte a una scienza che scioglie l’enigma e lo traduce in numeri, in solidi fatti, sperimentabili, riproducibili? Un dilemma che attraversa il dibattito artistico da almeno tre secoli a questa parte. Queste ed altre problematiche sono trattate da un veloce pamphlet divulgativo di Cesare De Seta, Grammatica delle arti. Forme e spazio storico dell’espressione artistica (Salerno editrice, 2021, pp. 139, 10,90 euro), che ha il merito di ragionare su di una dimensione dell’uomo oggi sacrificata, anzi letteralmente espulsa, dal novero delle conoscenze variamente valorizzabili (o monetizzabili): fatti salvi gli addetti ai lavori, chi oggi potrebbe provare interesse ad un confronto vero con la storia dell’arte? È questo, d’altronde, il tema che conclude il ragionamento di De Seta, su cui torneremo.
Ma la crisi dell’arte ha a che vedere anche con il modello conoscitivo che il progresso scientifico porta con sé, non sappiamo quanto necessariamente: per sua natura, l’arte riconduce ad unità ciò che nella realtà si presenta apparentemente irrelato. Il fenomeno in forma di frammento trova nella figura artistica la sua radice sistematica ed essenziale. Il mezzo, per dirla à la Manzoni, è l’interessante (cioè la metafora artistica), ma il soggetto è il “vero”, cioè la verità, la realtà. Ciò che resiste, nell’espressione artistica, è la sua vocazione universalistica spezzata dal razionalismo scientista che oggi investe la società (“epistocrazia” l’ha definita Stefano G. Azzarà), naturale specchio dell’irrazionalismo anti-scientifico di no-vax e creduloni assortiti. L’universalismo artistico non solo riporta ogni fenomeno particolare alla sua realtà organica («il vero è l’intero», direbbe Lukàcs sulla scia della Fenomenologia hegeliana), ma nel farlo segna anche i confini tra ciò che l’uomo è e ciò che l’uomo fa nella (e della) sua storia. Le due cose non coincidono, nonostante ciò che ha ripetuto per un cinquantennio abbondante il neoidealismo storicista oggi apparentemente in disuso. Lo statuto dell’arte attiene dunque all’universale, ciò che rimane valido nel tempo e nello spazio. Questo fatto, come detto, diverge platealmente con la natura teoretica del progresso scientifico attuale, che oltre a risolvere i rebus dell’uomo, migliorandone l’esistenza, tende gnoseologicamente a spezzare l’unità della realtà, suddividendola in “campi del sapere”, costruendo sommatorie di parzialità, di “discipline” tra loro non comunicanti, figuriamoci se organiche. Un modello che maschera i suoi problemi nelle scienze “dure”, ma che demolisce l’essenza stessa delle scienze umane e sociali. Un secolo di lavoro volto a «frantumare le barriere disciplinari», per dirla col De Seta, viene travolto in questi anni dalla costruzione di nuove e più alte delimitazioni conoscitive, che settorializzano e segmentano un processo conoscitivo che non può che essere in ultima istanza “sovradisciplinare”. Le discipline, ovvero le scienze, con le loro metodologie acquisite, sono necessarie, ma la conoscenza della realtà nel suo insieme si situa solamente all’incrocio di queste. Arte e Zeitgeist sono oggi in contrapposizione, a tutto svantaggio di un linguaggio che soffre anche di una sua costitutiva inattualità.
De Seta parla di «scissione fra conoscenza dell’arte e conoscenza scientifica», ma dato che la conoscenza non può che essere una sola (non possono coesistere due verità), ecco che la conoscenza artistica, quell’insieme di simboli estetici messi in forma di manufatto, di disegno, di musica o di parola, dilegua il suo statuto conoscitivo, o quantomeno lo riduce, lo circoscrive. Tutto ciò si riflette non solo sul ruolo sociale dell’arte, ma anche sui suoi molteplici linguaggi espressivi, che si scompongono necessariamente (anche l’arte è soggetta al suo decorso storico che la aggancia al resto dell’evoluzione sociale) ma che non riescono più a ricomporsi pienamente. Per un verso si evolvono in altri linguaggi, in linea con i tempi e il progresso tecnologico (che intercede anche con la formazione del gusto); per altri disperdono dietro di sé frammenti di significato, stabilendone una decadenza. L’arte, più che in “crisi”, è segnata da una lenta e inesorabile decadenza, e le opinioni di chi si ostina a relativizzare il tutto (Omero è uguale a Balzac che è uguale a Scurati eccetera, cambiano solo i gusti medi sociali e tra tre secoli Eco avrà lo stesso valore di Virgilio) non convincono mai fino in fondo (sebbene anch’essi contengano una parte, magari piccola, di verità da non banalizzare). Ma se l’arte vive questo declino, non si sa quanto inarrestabile, la “storia dell’arte” ne vive uno ancor più drastico, materia espulsa dal novero degli interessi formativi della scuola italiana. È su questo punto che insiste, nella seconda parte del volumetto, l’autore, giustamente preoccupato del contributo che può ancora dare la storia dell’arte alla formazione dell’individuo, non solo dello studente. In tal senso viene rilevato il mancato incontro della materia con le evoluzioni e le acquisizioni a cui le altre scienze sociali, e in primo luogo la ricerca storica, sono andate incontro in questi decenni. Insomma, mentre altrove le singole discipline si facevano permeabili ai contributi delle conoscenze più o meno inerenti, la storia dell’arte si è andata paradossalmente chiudendo a questo apporto, rimanendo tutto sommato uguale a se stessa – nel suo insegnamento – a modelli sedimentati ormai da un secolo. Se la «funzione di una rinnovata storiografia è quella di ricomporre in unità ciò che alla fonte era unito», dice giustamente De Seta, la storia dell’arte si è ipostatizzata su di un paradigma “autore-capolavoro” alquanto datato e collegato a quella storia evenemenziale (dove qui l’avvenimento è l’opera) giustamente criticata e superata (ma oggi ahinoi oggetto di nuova fortuna). Le soluzioni proposte non sembrano, però, all’altezza dei problemi sollevati. Se la storia dell’arte deve ibridarsi con la storia sociale, divenire essa stessa storia sociale dell’arte, l’orizzonte non può risolversi nel dare «il giusto peso al particolarismo della nostra storia», come indica De Seta, come se il particolarismo fosse un dato da coltivare più che un difetto da condannare. Gli apporti della storia sociale e della microstoria, convocati a supporto di un nuova forma d’insegnamento, non possono tradursi in una storia dell’arte circoscritta all’ambiente di studio, come pure clamorosamente suggerisce ancora De Seta (per cui uno studente siciliano dovrebbe studiare l’arte siciliana, di conseguenza uno studente di Messina unicamente la storia dell’arte messinese, e così via). Non si reagirà al declino solleticando gli istinti particolaristici del nostro tempo, ma rafforzando la natura universale dell’arte, un linguaggio che, studiato, avvicina l’uomo all’uomo, e non lo definisce in provincie d’appartenenza.