Edicola Edizioni, Ortona 2021 pagg. 272 € 18.90
(Nel 1961 si stabilì in Cile una colonia nazista. Colonia Dignidad, oggi Villa Baviera, era una comunità di fatto impenetrabile, raccolta attorno allo Zio Paul, leader carismatico che amava circondarsi di una corte di bambini e adolescenti chiamati “sprinters”. Solo con l’apertura dei primi casi giudiziari, molti anni più tardi, si iniziò a portare alla luce gli inquietanti segreti della colonia: collaborazionismo con il regime di Pinochet, un modello di setta, pedofilia, somministrazione di droghe, tratta di persone, traffico di armi.
Una sceneggiatrice interessata al caso e una colona che non ha mai lasciato Villa Baviera si trovano a incrociare le loro ricerche. L’incontro fra le donne, che sembrano cresciute in due mondi paralleli, innescherà un progressivo svelamento della verità, unica possibilità di senso e di guarigione. Il testo ha una forma ibrida, l’autrice usa il romanzo, il reportage, il resoconto storico, la graphic novel coi disegni di Rodrigo Elgueta. Di seguito pubblichiamo un estratto. MB)
Nel caso di Dignidad, c’erano tanti mostri in circolazione, ed erano in vista, in superficie. Su questo aveva ragione il mio amico produttore, quando diceva che la storia della colonia aveva tutti gli ingredienti per diventare un film. Per identificarli bastava leggere i titoli delle (poche) notizie uscite in Spagna sulla questione: legami con il nazismo, collaborazionismo con la dittatura di Pinochet, un confuso e ignoto modello di setta, tratta di persone, oscure reti internazionali legate al traffico di armi e un ultimo, e se possibile ancora più scabroso, elemento: la pedofilia.
Anche se non avevo mai scritto una sceneggiatura in vita mia, avevo accettato la proposta. “Ce la farai benissimo: se hai scritto dei libri, una sceneggiatura sarà un gioco da ragazzi,” mi aveva detto il mio amico produttore. I due libri che avevo scritto erano, in realtà, una guida su commissione su come guadagnarsi da vivere scrivendo in cento modi diversi, e qualche voce di un’enciclopedia del rock latinoamericano.
Le notizie che avevo raccolto nel corso dei miei primi anni di ricerca, uscite su alcuni giornali stranieri all’inizio del 1999, parlavano della scoperta di un sotterraneo che confermava ciò che già in molti sapevano: la colonia era stata un centro di tortura e prigionia durante la dittatura. In quel periodo il leader della setta, lo Zio Paul, era latitante, accusato di abusi sui minori, un eufemismo per dire che aveva violentato i figli dei coloni tedeschi e anche i bambini cileni che aveva sequestrato. Quanto a Pinochet, si trovava agli arresti domiciliari a Londra, in attesa della sentenza sulla sua possibile estradizione in Spagna o sul suo rientro in terra cilena.
La scoperta di quella sala delle torture da cui erano passati, e in cui erano stati assassinati, almeno trentotto oppositori del la dittatura aveva segnato l’inizio di una ricerca d’informazioni più sistematica, che mi aveva portata indietro nel tempo, fino alla fondazione della colonia nel 1961 e alle prime fughe di coloni, che avevano denunciato, senza che nessuno li degnasse di attenzione, le atrocità che avvenivano lì dentro. La matassa aveva decine di fili, sempre più intricati e deliranti.
Pochi anni dopo la sua fondazione, Colonia Dignidad aveva chiuso le frontiere al mondo, trasformandosi in uno Stato dentro lo Stato. Governati da un sistema quasi feudale, i suoi abitanti vivevano di agricoltura e allevamento, lavorando in condizioni disumane (e gratuitamente) per il loro padrone, lo Zio Paul. All’interno della colonia, il padrone era onnipotente e decideva il destino di tutti i suoi servitori. Uomini e donne non potevano vivere insieme; non si celebrava nessun matrimonio senza il consenso del leader, e i figli erano separati dai genitori. Nessuno poteva circolare liberamente fuori dai confini della colonia. Gli abitanti non avevano alcun documento d’identità. E nemmeno accesso a televisione, radio o giornali. Molti dei coloni venivano trattati con farmaci, percossi, castigati, e persino sottoposti a esperimenti nell’ospedale del villaggio. Ogni giorno, tutti loro dovevano confessarsi con lo Zio Paul e denunciare i loro compagni.
Gli unici a godere di qualche privilegio erano i gerarchi, una corte costituita da sei o sette famiglie che portavano avanti le attività economiche della colonia. Oltre all’agricoltura (coltivazione di frumento, principalmente, ma anche di frutta e ortaggi di ogni tipo) e all’allevamento, gestivano due ristoranti fuori dalla colonia, uno sulla strada di Chillán e uno a Bulnes. Per un periodo sfruttarono persino le miniere di titanio e uranio che si trovavano all’interno della proprietà. Durante la dittatura si dedicarono al traffico di armi (nel 2005 nella colonia è stato ritrovato il più grande arsenale d’armi privato mai confiscato in Sudamerica). In aggiunta ai terreni e alle case, poi, è probabile che avessero diversi conti bancari in paradisi fiscali, su cui tuttora nessuno ha indagato.
Colonia Dignidad era, fino a pochissimo tempo fa, un recinto con cancelli d’accesso sorvegliati e una rete di tunnel e nascondigli sotterranei stipati di esplosivi e armi. I suoi aerei volavano senza chiedere il permesso alle autorità cilene. Le sue guardie inseguivano con cani addestrati chiunque cercasse di fuggire, e il loro terrorismo si estendeva anche fuori dalle proprie frontiere: alcuni fuggitivi vennero inseguiti fino alla capitale cilena. Fino al 1997, e nonostante le numerose denunce, né la polizia né i giornalisti erano mai riusciti a entrarvi.
Il 10 marzo del 2005, dopo una persecuzione mediatica intrapresa dalla giornalista Carola Fuentes, la polizia scovò in una casa a Tortuguitas, un paese a circa sessanta chilometri da Buenos Aires, il latitante più ricercato di tutto il Cile: il leader di Colonia Dignidad, lo Zio Paul, lo Zio Permanente, come lo chiamavano alcuni.
Avevo consegnato al mio produttore un rapporto dettagliato su tutti questi avvenimenti: date, fatti, protagonisti. Un rapporto sintetico e preciso, che non lo annoiasse. E gli avevo specificato che non volevo scrivere la storia del “caso”, o dei molti casi, di Colonia Dignidad. C’erano già diversi libri e una decina di documentari – oltre a qualche film di fantasia – pieni di dati fedeli, cronologie meticolose, inchieste dettagliate. Non volevo riportare informazioni che erano già state trasmesse in televisione, al cinema, nei giornali e nei libri. Mi interessavano di più le storie intime dei coloni, un punto di vista quotidiano, una vicenda piccola che portasse alla luce la loro vita di tutti i giorni lì dentro. Al di là della terribile realtà in cui erano rimasti immersi, al di là delle torture a cui erano stati sottomessi, dei lavori forzati, delle droghe con cui venivano ammansiti, io volevo sapere (e raccontare) come avevano vissuto e che cosa aveva comportato per loro crescere del tutto isolati: come pensa e come vede il mondo una persona cresciuta senza televisione, senza giornali, senza notizie, senza poter camminare per strada; una persona che non è mai andata a un concerto o al cinema o a una festa o a un museo, qualcuno che non ha mai avuto soldi suoi né ha mai aperto un conto in banca, che non ha mai comprato un libro, mai affittato una casa; gente che ha solo una vaga idea del colpo di stato, che probabilmente non sa che c’è stata una guerra in Bosnia; qualcuno a cui non dicano niente le sigle OAS, ONU, FMI, il salario minimo, internet, la posta elettronica; persone senza esperienze di vita come i fidanzamenti, la scuola, i matrimoni, la famiglia, i compleanni; persone che non si sono mai godute un viaggio o un giorno libero. E soprattutto, mi interessava sapere come gli ex-coloni avessero affrontato il processo di reinserimento in una società “normale”. Come si era sentito chi era riuscito a fuggire e aveva visto il mondo quasi per la prima volta, e come vivevano quell’esistenza senza la “sicurezza” e l’“ordine” promessi dalla colonia. Di questo, nessuno parlava mai.