di Gioacchino Toni
Constatato come l’immaginario intrattenga da sempre un rapporto privilegiato con la violenza e come quest’ultima, attraverso la produzione di immagini, si riconfiguri continuamente assumendo una strategica e fondativa valenza sociale e persino politica, Alessandro Alfieri, nel suo recente volume Video web armi. Dall’immaginario della violenza alla violenza del potere (Rogas, 2021), mette in connessione il circuito massmediale contemporaneo con i concetti di violenza, immaginario e potere riflettendo sulle modalità con cui tali termini entrano in relazione col nucleo originario del potere costituito.
Ricorrendo ai cultural studies, alla filosofia, all’antropologia e alla sociologia, Alfieri attraversa dunque l’immaginario e i nuovi media per affrontare la questione della sovranità che, come sempre, continua a fondarsi, in maniera più o meno palese, sulla detenzione di arsenali ed eserciti.
La disamina prende il via dalla «violenza dell’immagine della violenza» a partire da alcuni esempi derivanti dal linguaggio videomusicale e pubblicitario che palesano come la violenza esibita sia diventata negli ultimi decenni un efficace strumento di seduzione commerciale ed ideologica. Il linguaggio del video musicale, ad esempio, sembra a volte tentare di recuperare l’impatto dello shock originario edulcorato dall’abitudine percettiva per finalità diverse rispetto a quelle tratteggiate a suo tempo da Walter Benjamin: lo shock oggi sembra rivelarsi funzionale alla dimensione consumistica per la su capacità di colpire la sensibilità e sedurre.
Se l’attrazione nei confronti della dimensione mortifera, propria di quel sex appeal dell’inorganico che per Benjamin era la cifra dell’allora nascente pseudo-cultura capitalistica e consumistica della moda, era assunta come deposito di immagini dalle quali attingere per determinare l’effettiva e acritica confluenza di arte e mercato, negli anni Sessanta Warhol volge il suo interesse alle catastrofi e a fatti violenti de-soggettivizzati, in una continuità concettuale inquietante: la pop culture e la violenza sono una il risvolto dell’altra, due facce della stessa medaglia che si alimentano reciprocamente in un gioco di corrispettivo occultamento e negazione eternamente rilanciata (p. 41).
Al pari della violenza propria dell’immagine che, come ha sostenuto Gilles Deleuze occupandosi del concetto di “affezione”, colpisce e destabilizza lo statuto di credenza del soggetto spingendolo alla riflessione e al dubbio, anche l’immagine della violenza che domina il circuito mediatico del web e della programmazione della TV generalista determina reazioni fisiologico-percettive e psicologiche sul fruitore. In questo caso, però, sostiene Alfieri,
non giunge alla stimolazione del pensiero che invece resta anestetizzato, passivo, spento, lasciando totale campo libero (come nella pornografia) alla reazione irriflessiva e meccanica.[…] È manifestazione di totale subordinazione all’immagine, che a quel punto perde anche le specificità proprie dell’immagine; essa non è più immagine, perché non è lì per qualcosa che vada al di là dal mero godimento perverso […]. Spesso si tratta di un violenza senza tensione, perché è completamente sviluppata, sfrenata, a-dialettica; potremmo sostenere che più la violenza domina come contenuto l’immagine, meno quest’ultima potrà esprimere una violenza della prima specie, ovvero un’autentica “tensione”; più l’immagine decide di scaricare la tensione decidendo di mostrare “di più”, di mostrare “tutto”, di puntare a contenuti di ovvia riuscita, più essa abdica alla sua funzione di affezione, di apertura di senso, di motore del pensiero. (pp. 46-47).
Si tratta pertanto di un’altra «violenza dell’immagine» su cui ha insistito Jean Baudrillard, una violenza che diviene «sinonimo di appiattimento e di simulacrizzazione radicale del mondo: è la violenza dell’immagine che si impadronisce della realtà, ma senza rendersene conto scompare appena terminato il “delitto perfetto”» (p. 47).
A proposito del rapporto tra cultura pop e violenza, Alfieri nota che il linguaggio pop può sia essere di per sé violento che rivelarsi lo scenario dell’esibizione di una violenza che viene così amplificata ed estesa.
Il valore utopico-critico viene paradossalmente recuperato all’interno della produzione videomusicale, che si dimostra essere uno dei veicoli più potenti di influenza dell’immaginario collettivo, specie giovanilistico; il videoclip musicale infatti, fin dalla sua epoca d’oro, dove è stato in grado di fondare un’autentica grammatica formale, per giungere a una fase di maturazione consolidata negli anni Novanta e Duemila, non è solo una celebrazione iconica e autoappagante dello spettacolo che alimenta se stesso. Meglio ancora, spesso la forza di fascinazione si sgancia dalla seduzione adottando soluzioni visive e stilistiche più sofisticate, oblique, mettendo dialetticamente in evidenza il meccanismo stesso di seduzione e liberando la fruizione dall’ingenuità caratteristica degli anni Ottanta (p. 65).
L’indagine sul videoclip musicale proposta da Alfieri verte proprio sulla differenza tra queste sue due stagioni, quella relativa al trionfo edonistico caratteristico degli anni Ottanta e quella che ha preso il via nel decennio successivo e che arriva fino ad oggi, in cui il videoclip musicale, pur restando legato a meccanismi di spettacolarizzazione, ha saputo trovare nuove soluzioni estetiche che hanno consentito di potenziare e rilanciare «il valore seduttivo che il corpo del performer può assumere, rinnovando il suo significato anche in un approccio violento» (p. 69).
È sull’universo del web che si focalizza la seconda parte del volume. Consapevole di come la cultura moderna abbia sempre operato per individuare, quando non istituire direttamente, ambiti in cui direzionare e scaricare l’ira accumulata, Alfieri individua proprio nel web l’ambito contemporaneo privilegiato in cui scaricare ira e violenza agita verbalmente e digitalmente rivolgendosi all’azione, dunque all’etica, segnando il passaggio da un immaginario percepito e fruito ad uno agito e partecipato.
La violenza dell’immaginario è una violenza gestita, ammansita da surrogati che garantiscono il mantenimento degli equilibri sociali, ma che continua a vibrare “sotto al coperchio”. Il web diventa un’ulteriore forma di gestione dell’ira accumulata, che però definisce il passaggio all’azione e perciò stesso alla responsabilità etica: non si tratta più solo di fruire della violenza più o meno palesata nella produzione audiovisiva, ma di partecipare attivamente – anche se “non troppo” (p. 95).
Oltre a rilanciare e far circolare immagini della violenza o immagini violente, infatti, la rete intensifica «il piano della violenza sul piano della partecipazione attiva degli utenti». I social, sostiene Alfieri, che sembrano rispondere al desiderio dell’individuo contemporaneo di limitare al minimo l’imprevedibilità, tendono a convogliare l’ira trasfigurandola in maniera apparentemente meno aggressiva, rivelandosi «spazi privilegiati di quell’arena dell’odio del web che è violenza negativa per eccellenza» (p. 105).
L’immaginario collettivo, l’ideologia più esplicitamente politica ma anche quella più sottile e sofisticata che agisce in maniera subliminale nell’orizzonte massmediale e nella cultura di massa, agisce nel passaggio tra ira e odio, e poi rafforza la propria presenza orientando l’azione violenta. Come uno schema trascendentale, l’immaginario intende tradurre l’ira prima che essa possa arrivare a mettere in questione l’autorità, oppure se vuole sovvertire l’autorità lo schema intende direzionare l’ira per pilotarla. Scaricare l’ira, ammaestrarla, direzionarla: ancora oggi questa è la sfida di ogni agenzia amministrativa che trova nella sfera dei mass-media l’assetto tecnologico più appropriato a tal fine (pp. 108-109).
In particolare lo studioso si sofferma sulla strategia massmediale dell’Isis individuandovi un vero e proprio cambio di paradigma: se lo spettacolare attacco alle Twin Towers era stato pensato sul medium televisivo, gli episodi di terrorismo consumatisi in Europa tra il 2015 e il 2017 si sono invece basati sulla parcellizzazione, sull’invisibilità, su una diffusione quasi impalpabile del terrore che ha fatto ricorso ad una violenza elementare e brutale capace di palesare la vulnerabilità dei corpi.
Se l’11 settembre era un evento, strutturato profondamente secondo le logiche della trasmissibilità massmediale e dello spettacolo, il terrorismo europeo è apparso più disseminato, perché alla logica della trasmissibilità televisiva si è passati a un differente medium di riferimento che è il web, più nello specifico i social network, basati sulla comunicazione immediata. Il terrore si è fatto più puro perché non mediato, e alle immagini della catastrofe, chiare e viste a ripetizione, è subentrata una moltitudine di immagini precarie, mosse, dove a dominare è più l’invisibilità che il palesamento del terrore (p. 138).
Curiosamente l’immaginario occidentale che storicamente ha inteso dare immagine alla divinità e al trascendente, in tempi recenti si è invece mostrato in difficoltà nell’affrontare con l’immagine le grandi tragedie che l’hanno toccato, da Auschwitz all’11 settembre. La cultura occidentale sembra divenire iconoclasta quando si trova di fronte alle vittime amiche, «come se nella modernità ogni messa in immagine non potesse non venire assorbita all’interno della logica dello spettacolo, oltraggiando così la sofferenza e il dolore» (p. 140). Tale questione è trattata anche da Mauro Carbone nel suo saggio L’uomo che cade. L’inizio di una controtendenza iconoclastica nella svolta iconica? in Maurizio Guerri (a cura di), Le immagini delle guerre contemporanee (Meltemi, 2018) trattato precedentemetne all’interno della serie Guerrevisioni su “Carmilla” [qua].
Quello occidentale non è però l’unico ribaltamento che contraddistingue la contemporaneità. Un immaginario iconoclasta come quello dell’Isis ha finito non solo col far ricorso alle immagini per rivolgersi al nemico ma anche per attrarre e arruolare forze fresche lavorando sulla costruzione di una fascinazione dall’estetica hollywoodiana per la lotta armata portata nelle città occidentali.
Il web resta l’orizzonte che dà senso all’azione terroristica: alla diretta televisiva imperniata sulla visibilità dell’evento subentra il terrore per ciò che viene trasmesso e condivido sui social, video traballanti, poco chiari, scuri, che intensificano l’imprevedibilità del terrore e della violenza. È come se il web, da arena dell’odio gestita dalle autorità in sostituzione alle altre arene del passato, in assenza di una visione dell’immaginario tipicamente occidentale si sia riversata nell’azione concreta e omicida nel terrorismo. Perciò non un terrorismo cyber o digitale, ma reale, intensificato però dal linguaggio della condivisione del web. Gli attentati dell’Isis annunciano così il terzo passo, quello relativo alla fuoriuscita dell’immaginario per una reale adozione delle armi (p. 144).
Nell’ultima parte del volume l’autore giunge ad affrontare direttamente la questione delle armi a disposizione del potere. Il principio della sovranità, anche quando questa si vuole popolare e democratica, ha una derivazione violenta e ciò si palesa tutte le volte in cui si inceppa il sistema e viene meno fiducia nei confronti delle istituzioni. In quel caso «ciò che viene alla superficie è quel fondo abissale tenuto celato e latente – e perciò stesso più efficace per quanto inattivo e in “stato di riposo” – che sosteneva indirettamente il potere garantendo a esso la sussistenza”» (p. 146).
Se un tempo la violenza tendeva a declinarsi esplicitamente nell’impedimento dell’azione, oggi sembra manifestarsi anche accettando l’azione individuale e la libertà. Nonostante il processo di positivizzazione della società neoliberista tenda ad indicare come riprovevole ogni forma di violenza, il potere non esita ricorrervi in quanto la violenza non scaturisce esclusivamente dalla negatività dell’Altro ma anche da «un eccesso di positività». Sarebbe interessante, sostiene Alfieri, riflettere sul ricorso a una «violenza legittima» in grado di opporsi a una «nonviolenza autoritaria».
Dopo aver dedicato numerose pagine alle riflessioni di Walter Benjamin e di Hanna Arendt circa il rapporto tra violenza e potere, oltre che alla distinzione tra Rivolta e Rivoluzione proposta da Albert Camus, Alfieri si concentra su come il potere si trovi a confrontarsi con la violenza nei momenti di crisi, ed è proprio quando esso viene meno che necessita di ricorrere al suo braccio armato per mantenere l’ordine. Se «il potere pertiene all’immaginario e ai media», sostiene Alfieri, «la violenza è più vicina alle armi anche se non sovrapponibile con esse: le armi infatti possono restare simboli, come accade nelle celebrazioni nazionali dei reparti militari. Quando le armi vengono usate, allora un potere è al tramonto: deve rinnovarsi, inasprire la propria ferocia magari, oppure lasciare spazio al nuovo potere» (p. 159).
Piuttosto che l’idea di «violenza negativa» tratteggiata da Giorgio Agamben, a dover essere indagata oggi, sostiene ancora Alfieri, è la «violenza positiva», basata sull’inclusione e sul conformismo del consenso: «la nuova violenza si oppone alla violenza negativa, pertiene maggiormente alla logica dello spettacolo e soprattutto alla totale libertà di azione e di scelta. Non c’è più costrizione, ma principio di assoluta spontaneità e autonomia demandate direttamente all’agente, come appare chiaro nell’orizzonte dell’assoluto progressismo rappresentato dalla sfera del web» (p. 160).