di Francisco Soriano
“Avevo previsto questo orrore”, affermava Bahman Mohasses in un documentario biografico realizzato da Mitra Farahani, poche settimane prima dalla sua scomparsa avvenuta nel 2010. Il più grande scultore persiano di tutti i tempi è stato un intellettuale poliedrico, complesso, controverso e irripetibile nel panorama artistico non solo iraniano. Pittore, regista teatrale e traduttore di opere letterarie, Mohasses ci ha lasciato in eredità opere di incredibile bellezza, ormai rare, e per questo ricercate instancabilmente da appassionati d’arte contemporanea. Negli ultimi anni della sua vita Mohasses attuò un piano di distruzione sistematica delle sue opere: fu la rappresentazione di un lento suicidio artistico come risposta all’invincibile ottusità del regime degli ayatollah. Un orrore che ha generato non solo morte e dissoluzione, ma annichilimento della grande bellezza persiana anche in termini di memoria per un paese come l’Iran con il suo inestimabile patrimonio culturale.
Oltraggiare l’arte e le basi valoriali della cultura di un popolo era per Mohasses l’anticamera di un inferno inevitabile. Dopo la rivoluzione islamica le autorità religiose progettarono la quasi totale distruzione di tutte le sue opere disseminate per il Paese: questo comportamento criminoso avrebbe determinato nell’artista un dolore incommensurabile. Forse non tutti avevano previsto quanto potesse accadere dopo la svolta khomeinista della Rivoluzione: la censura e la morale religiosa avrebbero preso il sopravvento contro ogni forma d’arte in dissidio con il credo rivoluzionario e sciita duodecimano. Nulla a che fare con i fauni danzanti di Mohasses, alle prime luci del giorno, partorite dal prisma dell’alba al cospetto delle ellissi dei suoi mastodontici archetipi dotati di grazia inattesa. Grazie a questo artista meraviglioso creature fantasmagoriche guizzanti dalle acque di un mare morto e piatto come uno specchio, si ergevano a vivificare lo splendore della Persia. Con l’obiettivo di gettare discredito umano e professionale su un personaggio così importante, le grigie autorità religiose tentarono la diffamazione e le delazioni, strumenti puntuali e ineffabili dei regimi autoritari. Bahman Mohasses fu additato di essere un omosessuale sodomita, dunque perseguibile secondo la sharia a pene e punizioni gravissime. Il tentativo fu di oscurare la sua dignità di artista e professionista. La vera accusa era, tuttavia, quella di aver svolto un ruolo di gestione (durante il periodo di potere dello shah Pahlavi), nelle politiche culturali e artistiche del Paese e di aver prodotto un’arte blasfema e degenerata tipicamente riconducibile ai valori occidentali. Una colpa imperdonabile per coloro i quali avrebbero voluto cancellare ogni traccia del passato tanto da proporre, per fortuna senza riuscirvi, la distruzione delle monumentali tracce di Persepolis. La mancanza di uno spirito fondato sul rispetto della persona e dei diritti umani ha provocato indiscriminatamente (e continua a farlo), vittime nel giornalismo e nelle università, così come nel mondo dell’arte e della cultura, nella cosiddetta società civile, nonostante la vivacità e la tempra resistente di migliaia di donne e uomini iraniani che, indomiti, combattono per la libertà di espressione.
Bahman Mohasses nacque a Rasht, cittadina del mar Caspio, nella parte nord del Paese alle porte del dominio russo sull’Asia centrale, nel 1931. Già adolescente aveva imparato i primi rudimenti dell’arte pittorica dal maestro Seyyed Mohammed Habib Mohammadi, artista di antica scuola russa. Trasferitosi con la sua famiglia a Teheran, Bahman cominciava gli studi all’Accademia di Belle Arti, entrando a far parte dei maggiori circuiti artistici del tempo e aderendo alla “Anjoman-e Khorous Jangi”, fondata da Jalil Ziapour. Divenne per un breve periodo di tempo direttore del settimanale letterario e artistico “Panjeh Kohroos”. In quel tempo un importante movimento d’avanguardia vivacizzava il mondo culturale iraniano, scuotendo l’ambiente in una dialettica molto accesa fra i propugnatori della tradizione e i nuovi esponenti della poesia e dell’arte persiana. Nima Yooshij e Sohrab Sepehri furono i riferimenti più in vista di questa nouvelle vague insieme a Houshang Irani e Gholamhossein Gharib. Gli intellettuali e gli artisti del tempo non intendevano cancellare indiscriminatamente le ferree regole della metrica poetica e dei valori artistici nelle arti figurative dell’antica tradizione: si adoperavano affinché nuove ellissi di pensiero e di tecnica artistica rinnovassero le stantìe geometrie del passato anche in termini di canoni estetici, ritenuti antiquati nei confronti delle mutate esigenze e dinamiche della realtà sociale e politica. La storia della Persia è sedimentata da meravigliose soluzioni artistiche, filosofiche, letterarie: ricchissima di implicazioni e riferimenti millenari viveva, in quelle fasi convulse degli assetti geopolitici, pressioni e contraddizioni enormi. Nella vita politica del Paese l’avvento di Mohammad Mossadeq diede serie speranze di un risorgimento economico e sociale che purtroppo naufragò prestissimo a causa del colpo di stato ordito dagli Stati Uniti, ancora una volta principale attore destabilizzante di un’area geografica spesso minata da una miriade di antagonismi e di conflitti cronici. Da quel momento in poi la politica di nazionalizzazione del petrolio non si arrestò e l’opera riformatrice dello shah Reza Pahalavi prestò il fianco alle sue abnormi contraddizioni: la scelta di modernizzare il Paese secondo un modello sociale occidentale trovò l’opposizione di religiosi, conservatori e di un solido fronte composto da forze di ispirazione comunista guidato dal partito Tudeh, soprattutto contro l’intransigenza monarchica e la sua repressione in disprezzo dei diritti umani. Saranno queste forze coalizzate che condurranno l’Iran fino alla dolorosa rivoluzione popolare del 1979 che si trasformò, in breve tempo, in una deriva khomeinista con una visione di futuro e di società sostanzialmente conservatrice e autoritaria.
Nel 1954 Bahman Mohasses si trasferì a Roma, nella culla dell’arte e della bellezza. Il suo peregrinare in cerca di approfondimenti, confronti e dialettica artistica lo portò in viaggio in tutta Europa, fino alla definitiva permanenza in Italia, studiando all’Accademia delle Arti di Roma. Le sue mostre collettive e personali si moltiplicarono presto, alla Biennale di Venezia, a Parigi, a San Paolo, nelle maggiori città del mondo, dove il successo e i riconoscimenti premiarono la sua creatività e il fascino di un modernista rimasto profondamente persiano. Non una contraddizione in questa tensione fra passato e futuro, già sostanziatasi anni prima nell’opera di Sadeq Hedayat con il suo carico di dolorosa nostalgia. Le progressive denunce dello scrittore furono lo specchio di un Paese che non voleva guardarsi nei suoi aspetti peggiori: corruzione, clientelismo, moralismo e populismo, deriva autoritaria e mancanza di rispetto per le dissidenze. In fondo come sosteneva lo stesso Mohasses, era bastato cambiarsi l’abito e trasformarsi a turno in inquisitori, torturatori, sobillatori. Negli anni Sessanta Mohasses ritornò in Iran, persuaso dall’idea che si fondava sulle aspettative che ci sarebbe stato nel suo paese un nuovo Rinascimento, moderno, con quella creatività e profondità che solo il mondo persiano sapeva interpretare. Uomo di cultura straordinario non si arrese alla quotidianeità, né al suo incline spirito alla ricerca della forma scultorea perfetta. Poliedrico e avvolgente nelle sue deduzioni, nella ricerca di aspetti teorici su cui fondare la sua estetica, si dedicò anche alla traduzione: opere fenomenali in piena armonia con la sua sensibilità, sempre riconoscibile per la sua fulminante e dissacratoria ironia nei confronti degli insensibili, degli incolti del potere, degli audaci mediatori profeti del clientelismo più becero. Scrittori come Luigi Pirandello, Curzio Malaparte, Jean Genet e l’amatissimo Eugene Ionescu trovavano in lui la sintesi del paradosso, dell’incredibile, dell’assurdo. Nelle sue sculture e affreschi il messaggio è chiaro: lo spirito del ribelle che ha preferito condannare le sue opere all’oblio autodistruttivo. Non bastarono i mitici minotauri in lotta fra mostri veri, uomini e potere, a dissuadere l’artista dalla loro cancellazione. Mohasses fu in realtà un iconoclasta, proprio lui che aveva partorito forme strabilianti e corpi nudi in bella espressione, falli, danze eretiche e irriverenti personaggi dalle risate incontenibili, come la sue, anche durante le interviste e le battute fra amici.
I suoi occhi azzurri ci scrutavano incessantemente e, con una certa audacia ci penetravano, dissolvendo ogni nostra più intima difesa. Fu così che lo conobbi e incontrai a Teheran, più volte, nel 2007: energico ed elegantissimo con la sua immancabile sigaretta.
Ero giunto nel suo appartamento nella zona nord del capoluogo fra gli strepitii infernali di una sega elettrica e un odore acre di bruciato. Quando fui all’interno della sua abitazione rimasi sconvolto dalla scena, per me apocalittica: il maestro aveva finito di distruggere alcuni essais in bronzo e ferire a morte con un taglierino alcune tele ancora esposte alle pareti. Non compresi subito che cosa stesse accadendo: Bahman Mohasses mi fece accomodare e mi chiese se gli avessi fatto il piacere di trasportare i resti delle sue opere in un cassonetto dell’immondizia, scatenandosi in una fragorosa risata. Era un uomo delicato nella sua affabile tristezza di artista ferito, disilluso, sconvolto dallo spettacolo indegno che il suo Paese offriva nei confronti di chi lo aveva rappresentato nel mondo, ma sotto vessilli ben diversi. Rimanemmo alcune ore in cui i silenzi si alternavano in amare riflessioni, splendide vittorie, ancora sconfitte. Con ironia e raffinato sarcasmo non smetteva di parlarmi della sua scelta di distruggere ogni sua testimonianza e si lamentava di non poterlo fare nella totalità perché forse non gli sarebbe rimasto troppo da vivere. Bahman Mohasses era uno dei sopravvissuti alla falce manichea della rivoluzione, che ha condannato i propri figli e li ha fagocitati escludendoli da ogni forma di dissenso, tacciandoli di essere controrivoluzionari e sabotatori.
Visionario ed esteta Mohasses rimane un personaggio irripetibile. La scelta di escluderlo dalla storia artistica e culturale del Paese è un’infamia che non ha prodotto gli effetti desiderati. Schiere di giovani iraniani e artisti di ogni luogo ricordano e studiano l’opera di questo grande scultore. Il mancato rispetto dei diritti artistici e umani è un crimine incancellabile. I contenuti valoriali delle sue opere sono quelli di un uomo con uno sguardo proteso al futuro, nonostante le visioni oscure e profetiche di una deriva che gli uomini, con la loro forza distruttrice, ciclicamente attuano con sistematicità brutale. Alcune sue opere insieme a quelle di Francis Bacon e Pablo Picasso, artisti a cui maggiormente si ispirava, sono conservate (per le tematiche che rappresentano) negli scantinati del Museo d’Arte Moderna di Teheran che possiede la più grande raccolta di opere d’arte moderna al di fuori dell’Europa e degli Stati Uniti. Ricco di spunti di riflessione è il documentario di Mitra Farahani “Fifi Howls from Happiness”. Come incipit del film in cui lo stesso Bahaman Mohasses è talvolta voce narrante, egli cita un verso emblematico del celebre scultore Marino Marini: “Si costruì, si distrusse / un canto desolato restò nel mondo”. È una frase che ben descrive l’ellissi esistenziale di quest’uomo, testardo quanto onesto, impermeabile a qualsiasi forma di mediazione, ricatto, ipocrisia.
Le sue figure si alternano ancor oggi in danze eleganti, forme mai effimere allo sguardo degli uomini, mentre si intravedono tracce di colore su tele dismesse dalle pareti bianchissime di un chiarore silenzioso e dolorosissimo. Scarne e dense di pathos ci interrogano su questo assurdo trionfo del Male su ogni cosa, dissidio di ogni essere umano. È il momento in cui l’uomo subisce umiliazione, svilimento, si domanda della perdita della propria dignità: l’arte è eterna come il demiurgo che l’ha generata.