di Iuri Lombardi
Alexander Shurbanov, Dendrarium, A cura di Valentina Meloni. Traduzione di Valentina Meloni e Francesco Tomada, Musicaos Editore, 2021, pp. 202, € 18,00
Se fino a qualche tempo fa la poesia e con essa le relative correnti letterarie si ramificavano in tanti rivoli, significativi o meno, incisivi per il patrimonio culturale planetario, e nello specifico per quanto concerne la letteratura dell’est concentratesi nel grande movimento del Modernismo; oggi stesso siamo consci di una reale tendenza poetica, di un rinnovato e accorato sentimento nuovo e rivoluzionario: la poesia ecologica e i poeti della natura.
Quanto sto affermando in questo inciso d’incipit è riscontrabile nel caso dell’ultima fatica di Alexander Shurbanov, Dendrarium, tradotta dalla poeta Valentina Meloni (Musicaos Editore) e che a mio avviso è destinata a far riflettere se non addirittura ad aprire una breccia per una nuova via.
Nell’uomo – e il poeta ne è sempre la summa e la sintesi- si è svegliata un’attenzione diversa per lo stato delle cose, per la natura. L’uomo, nella stagione della rete, dei traffici illusori, nell’età postindustriale (cioè il tempo della tecnologia, del dopo imperialismo siderurgico, della edificazione dell’io, nel frangente delle democrazie dei media) sente il bisogno di tornare al creato, allo stato nudo delle cose. La poesia – che è sempre portavoce dell’umanità e che vive nel paradosso della rivelazione serbando come sostiene Ungaretti un segreto – si fa carico di questo nuovo sentimento quasi a diventare un serbatoio di prospettive, una fucina dove il poeta come un artigiano crea colombe di pace.
Shurbanov fa proprio questo e nella raccolta tradotta da Valentina Meloni e Francesco Tomada crea una nuova sintesi di pensiero e di parola: edifica il nuovo universo alboreo.
Protagonista della raccolta è infatti proprio l’albero in tutte le sue accezioni e in tutti i suoi generi: betulle, querce, pioppi diventano l’io della nuova poesia. Il poeta torna quindi alla natura, allo stato primigenio delle cose. Il linguaggio stesso diventa sublime e semplice, lontano da ogni retorica o orpello inutile, i testi nel sommarsi tanto da costituire una intera opera funzionano quindi da diario interiore di un uomo che ha la consapevolezza di sé.
L’albero costituisce di fatto un coro di voci liriche, un impero di segni, elargisce un nuovo mondo di rispetto e consapevolezza. Dagli alberi il poeta bulgaro impara il ritmo del tempo, riavvolge come su di un nastro il proprio vissuto, ricrea la propria infanzia, ma in particolare da essi impara l’orientamento. Shurbanov pare infatti orientarsi nel mondo proprio mediante l’approccio alboreo, proprio attraverso questo nuovo mondo. Facendo questo, oltre a suggerirci una nuova possibilità di vita, una inedita forma mentis, se non addirittura una inaugurazione per una civiltà ecologica, compie sul piano ontico una rivoluzione possibile; non solo archivia l’io imperante e imperialista ( che la letteratura ci ha tramandato all’incirca sino dal Medioevo), ma nella caduta l’ego risorge facendosi spazio in una ricreata armonia con il mondo.
Ecco allora che il segreto profondo della poesia tanto affermato da Ungaretti si svela totalmente. Inaugura una nuova primavera di sensi e possibilità e sul piano escatologico e sul piano ermeneutico.
Il poeta diventa quindi un naturalista, un inventore del creato, un botanico per questioni ontologiche più che contingenti. Sul piano ermeneutico il poeta compie una rivelazione da non confondere con lo svelamento.
Ma andiamo con ordine.
In contrasto con l’età postindustriale, quindi con la stagione della folla, della dittatura mediatica la rivelazione non è altro che una autentica lettura ermeneutica del reale. Il poeta, Shurbanov nel nostro caso, indaga nel profondo il binomio uomo-natura e così inizia ad intavolare una poesia oggettiva, che da Eliot a Montale si identifica nell’essenza nominale. Altra cosa è infatti lo svelamento che appartiene alla dittatura mediatica che per una ragione legata al consenso pubblico esplicita una cosa ma non la fa conoscere. Facendo così scompiglia il gioco, apre il ventaglio di carte sul tavolo quindi svela le figure ma nega in questo suo gesto la conoscenza dell’elemento. Ecco allora che la macchina mediatica compie un atto criminale in quanto compie un gesto a metà e facendo così non fa altro che alimentare equivoci e illusioni. Si tratta però di un equivoco permanente non legato ad un singolo presente e che per il protrarsi della sua natura crea continui consensi, intrappola con il suo depistaggio, l’opinione pubblica, il singolo navigante.
Il poeta all’opposto rivela, non solo quindi apre il ventaglio delle carte ma chiama per nome i significati delle figure.
Tutto questo, considerando integralmente lo stato delle cose, l’insieme della sua ermeneutica compie un ulteriore passo verso il plausibile: non solo compie e assassina l’ego oramai vagante, affievolito come una candela, l’io della tradizione più classica, non solo smantella tra la questione ontica imperialista dell’età industriale, ma avanza un evangelo ecologico. La poesia diventa portavoce di una nuova coscienza, si fa nuda e cruda, allontana da sé ogni forma di illusione post-aristotelica. Diventa il mantra di un totem epico. Di un’epica che affonda le proprie radici nel contatto stesso con l’alboreo, con la natura.
Sul piano privato questi testi (che l’edizione curata da Valentina Meloni titola uno ad uno, come si presentano nella loro origine) sono l’azione di un diario che si scrive giorno dopo giorno, di mese in mese, di anno in anno. Un diario di un uomo consapevole della natura e conscio che il proprio esistere è determinato e in sintonia con gli alberi. Si tratta di un diario compiuto, netto che esplicita conscio l’effimero della presenza umana e il perpetuo del mondo vegetale.
A questo scopo, per avere un approfondimento più adeguato, rimando al saggio finale del libro che Valentina Meloni ha scritto con sapienza critica: La verde lingua degli alberi: immaginario, sogno, scure.
Tuttavia, per concludere questa mia breve lettura, desidero spendere due parole riguardo Valentina Meloni che da anni conosco. Il mio pensiero si lega quindi alla sua attività di traduttrice, quasi febbrile, e di riconoscenza per aver tradotto e portato in Italia Shurbanov.
Il mestiere di traduttore in effetti è molto difficile, in particolare tradurre, quindi migrare da una lingua all’altra, la poesia. Si tratta di una difficoltà antica che però è sempre attuale; per fare questo tipo di operazione bisogna conoscere a fondo l’universo della scrittura poetica, della scrittura verticale. Bisogna conoscerne le regole, l’estetica, l’impianto ontico e capirne l’essenza. E su questo Valentina ha fatto un ottimo lavoro, tipico e all’altezza della sua persona. Ma la Meloni ha compiuto un passo che va oltre e che prescinde in toto il discorso della migrazione lingustica. L’autrice romana si fa pioniera, si prende la briga e l’impegno di portare un autore in Italia e ce lo presenta con l’amore di chi inaugura una amicizia, con l’affezione che unge il fuoco sacro delle lettere. Valentina (e scusatemi se la chiamo per nome) diventa una operaia delle migrazioni, una messaggera di incontri: ci presenta Alexander Shurbanov con la speranza di farci incontrare un amico di una generazione.