di Franco Pezzini
Anna Berra, Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola, pp. 126, € 19,50, Gremese, Roma 2021.
Nel 2003 usciva per Garzanti un romanzo molto divertente e di elegante scrittura, un giallo erotico-ironico che l’editore scelleratamente sceglieva di titolare L’ultima ceretta, invece che – come voluto dall’autrice Anna Berra – Bevimi. Facendo così perdere il doppio ordine di suggestioni evocate, da un lato quelle dall’Alice di Carroll e dall’altro il sottotesto vampiresco, visto che nella storia emergeva a un certo punto una setta libertina praticante il vampirismo a Torino. Da allora Berra ha pubblicato altro, ma tale chiave di vampirismo liberty è rimasta sottotraccia nelle sue fantasie narrative (per esempio Piume di sangue. 69 racconti noir, Co.RE di Enrico Casaccia, Fossano 2009) e insomma non è una sorpresa trovare ora questa sua agile e ricca lettura, divertente, generosa di attenzioni alle inquadrature e anche ai costumi della pellicola di Coppola, nella godibilissima collana “I migliori film della nostra vita”. Ma, al di là della scelta editoriale di proseguire degnamente una mappatura di grandi pellicole per la penna di bravi scrittori, quale senso può avere nel 2021 riparlare di questo film di quasi vent’anni fa?
In altra sede si è fatto notare come Bram Stoker’s Dracula, uscito nel 1992, si collochi nei fatti all’inizio di una nuova stagione del gotico, dopo l’eclissi del tema negli anni Ottanta tripudianti fantasy: un nuovo ciclo, insomma, destinato a sua volta a chiudersi alla saturazione del motivo vampiresco con Twilight & affini, tanto che oggi possiamo considerarci in una nuova fase di “bassa”. La speranza che un’ulteriore stagione del gotico potesse essere avviata dal Dracula BBC/Netflix del 2020 – che ha fatto il pieno di trovate intriganti e di difetti, scatenando con buoni motivi lodi e critiche – è andata delusa: probabilmente era troppo presto, e comunque la citata miniserie tv, senz’altro interessante, non è stata però tale da impattare per potenza simbolica quanto i Dracula 1931, 1958 e appunto 1992, seminali per altrettante stagioni dell’immaginario novecentesco.
Berra non nasconde – giustamente – aspetti di gusto soggettivo, insistendo sulla fascinazione provata verso il vampiro di Oldman: un succhiasangue baudelairiano ebbro, camaleontico, desiderante & amante ma non sdolcinato, il cui profilo – anche sul piano visivo – differisce tanto dal modello alla Christopher Lee (nei fatti, l’interprete più genuinamente stokeriano mai apparso quanto a connotati, a prescindere dai tradimenti delle sceneggiature). Va detto che Dracula come amante meraviglioso è un portato di adattamenti maturati prima a teatro e poi al cinema, sull’onda di maschere mitiche precedenti. Il Dracula di Stoker è più un anziano, impresentabile stupratore lupesco (fiato che puzza, mani pelose…) che un seduttore in senso romantico, al di là del fatto che noi lo conosciamo solo attraverso le voci dei suoi nemici: quando è gonfio di sangue pare una laida, enorme sanguisuga, con capelli e baffi spuriamente scuri come tinteggiati alla Berlusconi. Non è strano, in fondo è un morto ambulante (parlo di Dracula), non pretendiamo troppo da lui: e invece la sua seduzione forzata – come altre seduzioni forzate che conosciamo, fino a quelle politiche e finanziarie –, al filtro di estasi di vario tipo (dall’eredità byronica del suo prozio, il seduttore Ruthven di Polidori, ai conati vampireschi del decadentismo), è stata poi intesa come qualcosa di esteticamente assai più gradevole. A prescindere dalla discutibile congruità di un rapporto psicologico tra il Vlad III storico e il romantico Drakulya di Coppola, la storia d’amore affidata dal film a quest’ultimo – e narrata in modo meraviglioso, non ci sono dubbi – sulla base di Stoker mi lascia personalmente un po’ perplesso.
Ma come si è arrivati alla silhouette di Dracula-Oldman? Diciamo che per la storia d’amore, Coppola non parte ex nihilo: la fiaba della Bella e la Bestia vampiresca rimanda in fondo alle prime trasposizioni filmiche, allo stesso orchesco Orlok di Murnau con la sua passione fatale per Ellen, innescata golosamente dal ritratto di lei. Ben prima degli innamoramenti nati sui social e idealmente a monte dei medesimi, il vampiro si invaghisce tramite un’immagine profilo. Dagli anni Settanta, poi, in eversione all’ordine borghese, si moltiplicano pellicole con un Dracula innamorato: a volte in tono romantico-melodrammatico, come in El gran amor del conde Drácula (I diabolici amori di Nosferatu) di Javier Aguirre, Spagna 1972, col mattatore dell’horror iberico Paul Naschy / Jacinto Molina; ma più spesso in chiave di commedia, un titolo fra tutti Love at First Bite (Amore al primo morso) di Stan Dragoti, USA 1979. Mentre più tardi, alle soglie degli anni Novanta, sarà To Die For (USA 1989) di Deran Serafian, a inaugurare nelle storie d’amore del conte anche una componente maggiormente esplicita e sensuale. In queste trame “atipiche”, di Stoker resta ben poco; ma ricadute arrivano nelle stesse versioni “canoniche”, pure tra loro alquanto diverse. A partire dal taglio: il Bram Stoker’s Dracula di Dan Curtis (quello di Dark Shadows) sceneggiato da Matheson, 1974, in Italia Il demone nero, è un tipico prodotto per la televisione, con Jack Palance nel ruolo del Conte; Dracula di John Badham costituisce la sontuosa trascrizione per il cinema di una fortunata versione teatrale, con Frank Langella venuto proprio da quei palcoscenici (nello stesso anno, il ’79, di altri Dracula toccati dalla passione: il Nosferatu di Herzog e il citato Love at First Bite); mentre la terza, di Coppola, pare svilupparsi in senso inverso, trasponendo il film entro un linguaggio quasi teatrale. Nei fatti, saranno proprio queste tre opere a traghettare l’immagine di Dracula dagli anni Settanta al revival gotico dei Novanta, a indicare come il Dracula in Love rappresenti non una variabile secondaria ma una vera e propria fase dell’evoluzione del mito.
“Non ero molto contento di fare questo film”, ammetterà Coppola a proposito della propria versione. Anche perché, “in un certo senso non era proprio ‘mio’. Ero stato coinvolto nel progetto, ne ero il regista ma l’idea era stata sviluppata da altri. C’è la mano di altri produttori e roba del genere”, e sembra che il copione gli venisse sporto dall’entusiasta Winona Ryder. In realtà il testo circolava da tempo: e ripartiva dal romanzo, con una trasposizione estremamente fedele, a parte la storia d’amore tra Mina e Dracula. L’autore era James V. Hart, lo sceneggiatore che poi lavorerà con Coppola al film e firmerà la novelization della sceneggiatura assieme a Fred Saberhagen, attivissimo nel revisionismo sul Conte e i suoi cattivi nemici (emblematico il suo The Dracula Tape, 1975, in Italia Vampiro! per Fanucci, non a caso 1992). Ovviamente non c’è paragone tra le fantasie piuttosto modeste di Saberhagen su un Dracula buono e il dramma romantico a forti contrasti – anche estetici, vista la capacità di Oldman di apparire repellente o invece attraente – messo in scena nel 1992.
Resta il fatto che il profilo umano e di personaggio offerto a Dracula da Coppola è tanto diverso dai precedenti in cappa nera: e proprio Hart sembra il trait d’union con un altro progetto sospeso. Alla fine degli anni Settanta, infatti, sul soggetto Dracula si era fatta una pensata il provocatore Ken Russell. La sceneggiatura è stata edita nel 2009 dal suo biografo Paul Sutton e riserva alcune gustose sorprese: tutto inizia come un balletto, con la storia trasposta negli anni Venti, un Dracula esteta trasformista byroniano, Lucy diva dell’opera, Jonathan Harker aggredito da un cocchiere mutato in lupo, un visionario viaggio del Conte verso l’Inghilterra… Le previsioni sul cast erano grandiose: Oliver Reed vi avrebbe avuto una parte importante – il Conte, o forse Renfield – ma ci sarebbero stati anche Peter Ustinov, Peter O’Toole, Mia Farrow, Michael York, James Coburn e altri nomi noti.
A bloccare tutto è appunto l’uscita del parallelo progetto di Badham, ma le idee di Russell ispireranno il balletto Dracula di Christopher Gable (che aveva lavorato con lui in Song of Summer, 1968) e la stessa trasposizione di Coppola, visto che Hart era stato al tempo della partita. Pensando a un Oliver Reed come Dracula decadente, e a una zona-Turandot di amore & morte, si comprende assai meglio la scelta di Oldman da parte di Coppola, e persino il costume da Estremo Oriente con cui accoglie Harker (alternato all’altro, bizantino, assai più congruo storicamente, se non filologicamente). Purtroppo la sceneggiatura del Dracula russelliano – che sarebbe meritorio proporre in italiano, lancio qui la proposta – resta in una fase troppo arretrata, con episodi appena abbozzati, e insomma possiamo solo lavorare di fantasia su ciò che quel geniaccio di Ken avrebbe saputo trarne. Non possiamo che desolarci per la perdita di un’opera che avrebbe avuto connotati sicuramente lisergici: va però detto che il sacrificio di quel film ha comportato nei fatti l’uscita del capolavoro coppoliano, e, già prima, di un’altra pellicola molto godibile dove Russell ricicla plausibilmente suggestioni del progetto abortito – e cioè il folle, acido e onirico La tana del serpente bianco (1988).
Ma, silhouette a parte, qualche riflessione può meritarla il senso della storia d’amore. Posto che il tema Dracula in Love è di elaborazione cinematografica, chi ne sostiene la liceità filologica fa osservare l’appartenenza del Conte a tutto un lignaggio di demoni amanti che risale all’inizio del romanticismo e in realtà a molto prima: Stoker conosce queste tradizioni, vi ammicca in qualche modo, e dunque nulla andrebbe perso. Va però detto che il demone amante è in genere figura distruttiva della fanciulla che scioccamente l’ha seguito (Lenore di Bürger docet): e insomma c’è un certo scarto rispetto al vampiro Oldman che inizialmente si trattiene dal mordere Mina perché non vuole condannarla – che presuppone in lui categorie di sensibilità per lungo tempo negate ai suoi simili. In radice è il problema che Dracula resta in Stoker un totalmente altro che potrebbe persino non esistere, se non nelle fantasie sovraeccitate di persone sempre in dubbio sulla propria sanità mentale, e che potrebbero non aver mai superato il mix di shock e rimorso per la morte di Lucy (uccisa da sperimentalissime trasfusioni da più donatori quando non si conoscevano i gruppi sanguigni). Poi per carità, noi vogliamo che il vampiro ci sia, che la fiaba di Stoker ce la conti giusta, ma a quel punto dobbiamo fidarci di lui: e Dracula resta inconoscibile, a dispetto di eredi che sbrodoleranno interviste filosofeggianti in giro o magari, sbrilluccicando, metteranno su famiglia con ragazze babbane (a dirla alla Rowling).
A fronte delle mire essenzialmente alimentari/imperialistiche del Conte, fin dall’inizio delle trasposizioni del Dracula gli sceneggiatori si sono trovati a dover varare adeguati meccanismi per giustificare l’innamoramento dell’essere sovrannaturale. Nel vecchio Nosferatu di Murnau è difficile capire se si tratti di innamoramento o di qualche attrazione più animalesca, ancorché fatale; mentre nel Dracula di Badham tutto è umano, troppo umano. Le fatalità metempsicotiche sono invece richiamate rispettivamente da Curtis & Matheson, Coppola & Hart ed epigoni (compresi Dario Argento per Dracula 3D, Cole Haddon per la serie 2013 e parecchi altri) in apparente eco all’unica battuta del romanzo in cui emergerebbe uno scorcio sui sentimenti del Conte: “Sì, anch’io so amare” ribatte a una delle vampire del castello che gli ha rinfacciato il contrario. “Anche voi lo sapete, se vi guardate indietro” – nel senso che l’amore sarebbe qualcosa del suo passato, alla deriva del passato.
Poi certo, i singoli registi e sceneggiatori offrono soluzioni diverse: in Coppola Mina (appunto Winona Ryder) è la reincarnazione della perduta Elisabeta, ne ha l’aspetto ma anche la personalità. La novità dunque non sta tanto nel fatto che sia Mina e non Lucy – come nell’omonimo precedente di Dan Curtis – la Sposa che torna, bensì nel tipo di ritorno. Nel Bram Stoker’s Dracula di Curtis, Lucy (Fiona Lewis) è soprattutto la riproposizione di un’immagine esteriore, di una fisicità della defuntissima amata Maria; per Coppola, al contrario, in Mina tornano anche ricordi ed emozioni. Per Curtis si tratta di un evento eccezionale, una bizzarria del flusso del tempo; per Coppola, al contrario, il ritorno di Elisabeta è omologo a quello continuo di tutta la realtà, del morto-che-torna Dracula e della sua nemesi, la reincarnazione ideologica del prete Cesare in Van Helsing (entrambi impersonati da Anthony Hopkins). Il tema della reincarnazione di una donna si ripropone in vari film di Coppola: il regista lo connette alla sua personale convinzione che un uomo ami la stessa donna per tutta la vita, anche se assume sembianze di donne diverse. Fin dal primo giorno lui ama lei, per sempre, e lei è parte di lui: una lettura che sgombra il tema della reincarnazione da ogni suggestione mistica o esoterica, per ricondurlo all’orizzonte simbolico dell’interiorità (come sentimenti o idee – eventualmente ideologie, nel caso di Cesare/Van Helsing).
L’inserimento della storia d’amore – con il ritratto della fanciulla in questione, miniatura o foto a seconda del film – permette d’altronde di sovvenire a un punto delicato della trama originaria: che il Conte vada a toccare, tra tutte le donne d’Inghilterra, proprio quelle legate ad Harker, incrociate accidentalmente a Whitby, appare un caso un po’ strano. Il ritratto permette di giustificare il nesso. Ma il rapporto con la categoria della casualità, in Dracula, offre risvolti interessanti. In uno scambio con un’amica antropologa autrice di storie di vampiri, Valentina Ceciliato, lei mi lanciava una provocazione che tengo a riportare: l’assurdo teologico dell’anima di Mina innocente ma prigioniera della maledizione metafisica del vampirismo fino al giorno del Giudizio – se Dracula non venisse sconfitto, una prospettiva evocata in ipotesi a un certo punto nel romanzo – potrebbe spiegarsi con un utilizzo fantastico della categoria teologica della predestinazione. Per Stoker non c’è spazio per reincarnazioni, ma accanto a motivi fantacattolici (quelli branditi da Van Helsing) potrebbero ben figurare suggestioni fantaprotestanti come appunto riletture romanzesche del tema predestinazione, magari nell’accezione più rigidamente calvinista. Dato poi il sincretismo di un simile quadro, che i registi si richiamino anche alla reincarnazione non costituisce una forzatura troppo incomprensibile o incongrua. È come se il ritorno di una certa parte della realtà, il vampiro, comportasse per forza d’inerzia anche il ritorno di altre, in vari modi possibili. Nello stesso Carmilla di Le Fanu il vampirologo barone Vordenburg è discendente di colui che era stato l’amante di Mircalla: la riproposizione lì avviene cioè con un altro tipo di doppio – non per reincarnazione ma per discendenza – volto non ad amare ma a distruggere quella vampira che a sua volta ritorna attraverso la riproposizione onomastica dell’anagramma.
Del resto, lo sappiamo, tali storie fantastiche parlano il linguaggio della nostra vita profonda. E non solo per quanto riguarda la figura del vampiro, con il suo ricchissimo precipitato simbolico e metaforico. Frasi come “Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti”, “Amore mio, mi avete trovata […] ho voluto che questo avvenisse […] Voglio stare con voi, sempre”, “Portatemi via da tutta questa morte” – giustamente evidenziate da Anna Berra – non sono solo espressioni felici di una passione che è gioiosa sorpresa del trovarsi e ritrovarsi fuori dalle secche di sterilità che ci assediano. Come scrive Balzac a Madame de Berny in una lettera del 1822 in cui gioca a plagiare il Melmoth di Maturin, altro romanzo dove il tempo è piegato alla sorte speciale di un personaggio:
Amare è sentire diversamente da tutti gli altri uomini e sentire con violenza, è vivere in un mondo ideale, magnifico e splendido di ogni splendore, è non conoscere né il tempo né le sue divisioni, né il giorno né la notte, né l’inverno né la primavera.
In questo senso, l’amore che sente “diversamente da tutti gli altri uomini e […] con violenza” – una buona definizione per la passione evocata da Coppola – enfatizza la dimensione del tempo superato (“Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti”, fin dal preambolo su Drakulya ed Elisabeta) e insieme lo relativizza (“non conoscere né il tempo né le sue divisioni, né il giorno né la notte [pensiamo al ritmo circadiano del vampiro], né l’inverno né la primavera [anche come vecchiezza e ringiovanimento]”). Qualcosa insomma di esplosivo, irriducibile a un modo di amare corrente, alle gorgheggianti passioncelle alla Lucy (cui Dracula tributa attenzioni crudamente alimentar-sessuali) e alla stessa sensibilità un po’ opaca di Jonathan: un’opposizione – è appena il caso di notare – del tutto estranea alla logica di Stoker, ma che può difendersi in radice, anche senza rimarcare l’eccellenza della prova in questione, per l’inevitabile autonomia della trasposizione cinematografica.
“Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti”. Credo che appartenga a un’esperienza relativamente comune la sensazione di aver già conosciuto persone che in apparenza abbiamo appena incontrato: a chi scrive è capitato almeno un paio di volte, in modo diverso. Che un primo incontro sia avvenuto in un’altra vita è chiaro: plausibilmente – direbbe Occam – in una di quelle vite vicarie legate alla nostra dimensione immaginale tramite fantasie, letture, visioni di film eccetera, per cui poi può accadere di imbatterci in volti che “riconosciamo” al filtro di un teatro profondamente interiorizzato (inevitabile pensare alla frase di Freud: “Non ci scegliamo reciprocamente in modo casuale. Noi incontriamo persone che già esistono nel nostro subconscio”). Nella pozza dei miti che è la nostra esistenza, tutto, compreso l’amore, porta in scena storie – dato che di quelle abbiamo bisogno per vivere. E tale contenuto serissimo ci racconta Coppola: il bel libro di Anna Berra in esame, appassionato e divertito, ci offre un ottimo modo di avvicinarlo festeggiando il prossimo ventennale.