di Mazzino Montinari
Francesca Mannocchi, Bianco è il colore del danno, Einaudi, Stile Libero Big, Torino 2021, pp. 216, € 17,00.
Che cos’è la vita se non lo scorrere accidentato e irregolare di un tempo? Una serie di asperità, di fratture, di interruzioni in cui diverse esistenze avrebbero dovuto confluire in un corpo progressivamente dimentico di se stesso, perso nel presente, che rincorre un passato andato e che intanto si ritrova con nuovi sé, con identità impreviste. Un nome e un cognome offrono l’illusione di una linearità, di un continuum, e poi, però, le esperienze, gli accidenti, le azioni, le reazioni, tutto a rompere ciò che, sin dall’inizio, era già disposto a frantumarsi.
«Mi tocco la gamba. Non la sento. Mi tocco il piede. Non lo sento. Mi tocco il braccio. Pizzica. L’ascella. Non la sento. Il collo. Il collo sì, lo sento. La testa. La testa anche. Dormi, Francesca. Dove sono? Palermo. Perché sono qui? Sto lavorando. Che giorno è? Martedì. […] La mia vita con la sclerosi multipla è cominciata così, senza che lo sapessi, in una stanza laccata bianca che avevo chiamato Gemma». In questo modo si è manifestato il male di Francesca Mannocchi, la sclerosi multipla, una minaccia fantasma che alla fine ha deciso di rivelarsi quattro anni fa in una stanza d’albergo a Palermo. Era già presente, poteva apparire prima, dopo, chissà, forse mai. E invece è successo quel giorno. Un punto di svolta per capire qualcosa della vita? No, solo il moltiplicarsi di domande, ricerche, tentativi di comprendere cosa sia accaduto e, soprattutto, cosa avverrà. In un certo senso, la vita di sempre portata al suo limite estremo, quando si è aggrediti da qualcosa che potrebbe portarsi via le parole, le immagini, i gesti, le azioni, le relazioni, i ricordi… il tempo.
Bianco è il colore del danno è allora un libro autobiografico nel quale Francesca Mannocchi condivide delle esperienze, delle riflessioni, dei sentimenti, dei documenti. Nessuna concessione per una solida costruzione, nessuno smercio di materiali utili a edificare e oscurare le rovine. Il lettore non ne uscirà migliore o consapevole, affranto o consolato. Sbatterà contro la fragilità di Mannocchi e di riflesso contro la propria. Tra il delicato e il ruvido, il conflitto e l’accordo, la vicinanza e la distanza.
«Il Dottore ha detto che la malattia era stata una bufera, in quella stanza, una stanza di isolamento esposta all’aria pungente di montagna, una tormenta che si abbatte di colpo, scoperchia i tetti, spalanca porte e finestre, smucchia tutto. Così ha detto: smucchia. Tra la lingua medica e la mia ha scelto una parola che non esiste. Ha ragione lui, la malattia ha fatto così, ha smucchiato. Ora nella stanza tutto è fuori posto, i cassetti sono stati rovesciati: i ricordi, le abitudini, l’ordinario e lo straordinario, il superfluo e l’indispensabile, i progetti, la vita futura e quella passata, tutto è a terra». Il giorno della scoperta del danno coincide con quello in cui nasce una nuova Francesca Mannocchi, una donna che ha perso le coordinate e non ha un navigatore, perché di fatto non esiste un percorso, una strada. La giornalista dell’«Espresso», la scrittrice di Khaled vendo uomini e sono innocente, la regista insieme ad Alessio Romenzi del documentario Isis, Tomorrow, si è congedata, con uno strappo violento, lasciando a un’altra donna il compito di risalire a un senso. Come la precedente, anche questa Francesca sarà in grado di dire «voglio tutto»?
Bianco è il colore del danno non è esclusivamente la storia di una malattia, di una fragilità interiore. È uno sguardo, spesso spigoloso e doloroso, verso il mondo circostante. Sono i ricordi di una famiglia, di un passato fatto di persone, di un presente colmo di ipotesi e punti interrogativi, di episodi che raccontano certamente vicende private, uniche, nelle quali, però, è possibile intravedere qualcosa che si dilata, che sconfina oltre il muro di una casa, di un quartiere, di una città. Il dialogo tra una madre e una figlia, le parole non dette ma solo immaginate e tenute per sé, i pensieri di quella figlia che a sua volta si è fatta madre e che a se stessa e a suo figlio vorrebbe dare delle risposte, delle speranze, si alternano a ritratti di donne e uomini che hanno lottato, sofferto, rinunciato, nascosto, per andare avanti. E poi i pazienti, già anche loro, quelli “come te ma diversi da te”. Tutte figure reali e, al contempo, proiezioni scaturite da un dialogo impossibile tra due donne, quella sana di ieri, quella malata di oggi.
Tra i capitoli, riemerge anche una visione politica, se con quel termine si fa riferimento a una dimensione plurale, al continuo intercettarsi di esistenze che condividono il quotidiano della loro esistenza. La ricchezza di alcuni contro la povertà di altri, le libertà relative alla propria condizione sociale, le ingiustizie che colpiscono chi è più debole, la periferia e il centro, naturalmente la sanità, i diritti dei malati e l’accesso alle cure. Bianco è il colore del danno non è perciò solo il terrore di apparire scoperti e indifesi di fronte al tempo che passa inesorabilmente, di essere esposti agli arbitri incontrollabili degli accadimenti. Non si esaurisce con la frammentazione di un’identità e lo “smucchiamento” dei pezzi che la tenevano insieme. È la ricostruzione di più mondi, quello in cui si è, quello dove si desidera essere, quello dal quale si cerca di non scomparire.
Potrebbe essere un libro che la scrittrice rivolge a Francesca, il suo alter ego temporaneo, a suo figlio Pietro per fornirgli degli strumenti ma non spiegazioni, all’amata nonna Rita alla quale è stata promessa una memoria, a sua madre per renderle note le parole non dette e tenute per sé, a suo padre che, invece, proprio di quelle parole ha timore e che alla loro semplice pronuncia attribuisce lo smisurato potere di far esistere qualcosa che si vorrebbe non apparisse mai su questa terra.
«Non posso abitare quella stanza come prima, ma posso mettere ordine nei pezzi che la bufera ha sbalzato a terra. Non posso spostare l’asse del tempo e riportarlo indietro, ma posso provare a non essere schiacciata dal passato e dal futuro». Un continuo, affannoso, precipitoso, arrabbiato, ironico, rincorrere i ricordi, le parole inespresse o dimenticate, le aspettative disattese, gli sguardi che continuamente sorpassano ciò che è osservato. Un dissidio perenne tra l’irraggiungibile perfezione (e poi cos’è la perfezione?) e l’imperfezione che si presenta non invitata sotto forma di danni fisici e psichici, di mondi che non corrispondono ai desideri e alle ambizioni a cui ognuno di noi ha diritto. «Io voglio tutto», anche quando il mosaico non presenta più la stessa figura, anche quando le tessere non coincidono più.