di Sandro Moiso

John Woods, Lady Chevy, NN Editore, Milano 2021, pp. 380, 18,00 euro

Darkness, Darkness
Be my pillow
Ease the day that brings me pain.
I have felt the edge of sadness,
I have known the depth of fear.
Darkness, darkness, be my blanket,
Cover me with the endless night

(Darkness, darkness – Jesse Colin Young, 1969)

Una storia dalla parte sbagliata della Storia narrata alla maniera “nera” di Jim Thompson: questa potrebbe essere la definizione più sintetica possibile del libro appena pubblicato dall’editore NN.
In realtà, però, all’interno del primo romanzo di John Woods, giovane scrittore americano cresciuto proprio nell’Ohio Valley descritta nelle vicende, c’è molto, molto di più.
Così come era già possibile verificare in molti romanzi pubblicati dall’editore milanese nel corso degli ultimi anni. A partire da quelli rivelatori, sia sul piano della scrittura che delle osservazioni sulla società descritta, di Kent Haruf: scrittore della realtà rurale americana vista attraverso le storie ambientate nella cittadina (immaginaria ma non troppo) di Holt, Colorado.

Lady Chevy in realtà è l’appellativo dato ad Amy Wrinker, la diciottenne protagonista nonché io narrante del libro di Woods, dai suoi compagni di scuola a causa del suo peso abbondante che la rende “ingombrante” quanto una Chevrolet. Un peso, non solo fisico, che Amy si è portata dentro per troppi anni della sua ancor pur breve vita, destinato prima o poi ad esplodere, insieme ad un’educazione violenta e razzista ricevuta in una famiglia in cui il nonno materno è un ex- Gran Dragone del Ku Klux Klan.

Tiene ancora una cinta di pelle nera nell’armadio, una reliquia cerimoniale con la fibbia d’argento a forma di teschio. Un giorno l’ho vista. Sopra ci sono trentatré buchi, uno per ogni omicidio, mi ha spiegato […] Io sono contenta di portare il cognome di mio padre.
Eppure non posso sfuggire al passato. Su queste colline i morti sono vicini.
Fuori dalla città i boschi sono vasti e fitti. Non troppo tempo fa, le persone scomparivano. I notiziari non parlavano mai di omicidio o linciaggio. Niente corpo, niente crimine. Nessuno troverà mai le loro tombe. Quando un nero svaniva nel nulla, era difficile che il caso venisse risolto o che trapelasse qualcosa. Quelle tombe sono opera di mio nonno Shoemaker […]
Questi sono i miei ingredienti, le spirali di dna che mi hanno reso una persona, che a volte mi fanno sentire forte e speciale, ma più spesso un mostro1.

La piccola città in cui vive, Barnesville, esiste veramente e i suoi abitanti sostengono che sia la località più alta dell’Ohio, annidata sulle colline pedemontane degli Appalachi al confine con il West Virginia. Isolata e dimenticata, ad almeno due ore da qualsiasi altro posto è stata fondata da “arcigni” coloni tedeschi e scoto-irlandesi che sfidarono l’ignota frontiera, «sterminando i nativi Shawnee e forgiando dal sangue una nuova civiltà».

Amy, giunta all’ultimo anno delle scuole superiori con ottimi risultati, ha un unico desiderio: lasciarla, possibilmente per sempre, per laurearsi in Veterinaria presso l’Ohio State University di Columbus, distante sia geograficamente che culturalmente da quel grumo di case, rancori e silenzi che hanno costituto fin dalla sua nascita il suo habitat “innaturale”.
I genitori sono poveri e insoddisfatti, alcolisti e disperati, che hanno ceduto per primi, ad una società dedita al fracking, i diritti di sfruttamento del sottosuolo dei terreni della famiglia. Contribuendo ulteriormente a quel degrado ambientale e impoverimento delle risorse di cui le miniere di carbone a cielo aperto e le falde idriche inquinate in maniera mortale costituiscono il corollario.

Le strutture abbandonate sono il marchio dell’Ohio Valley, giganti architettonici ridotti a mausolei.
Le cose qui vanno male. Lo sappiamo. Ma questi edifici sono la prova che una volta andavamo meglio. Il mondo non è sempre stato così. Una volta davamo il nostro contributo. Eravamo importanti. Contavamo. Adesso parliamo del nostro valore solo al passato, per ricordarci che non siamo più così grandi2.

Come spesso capita nella migliore tradizione letteraria e cinematografica statunitense, fin dalle pagine di Moby Dick, la devastazione della Natura costituisce quasi sempre lo specchio del disagio psichico e morale di un’intera civiltà: bianca, cristiana, razzista. Ma qui, nel cuore della Rust Belt, il tema sfugge alle fin troppo facili formule ispirate al politically correct. Anzi, si potrebbe tranquillamente affermare che nella prima opera di ampio respiro di Woods le semplificazioni retoriche sono bandite. E le reazioni sono complicate da un sovrapporsi di sentimenti, tradizioni, rabbie sepolte che poco a poco vengono alla luce e non certo in nome del bene e della fratellanza universale.

La giovane protagonista ha condiviso i suoi sogni con gli unici amici che ha avuto fin dall’infanzia: Paul, il suo impossibile amore, e Sadie la ragazza bella e snella destinata, nonostante la sua intelligenza, ad essere preda e giocattolo dei giovani e brutali maschi locali. Ma Amy vuole andarsene ad ogni costo e ad ogni costo cercherà di farlo. Passando su ogni sentimento di amicizia o di amore e perseguendo con rabbia ostinata il suo obiettivo.

Sarà proprio la devastazione del territorio, che già ha portato in punto di morte il padre di Paul, ex-minatore dai polmoni anneriti e consumati dalla polvere di carbone, e regalato alla famiglia Wrinker un figlio minore, Stonewall, gravemente segnato nel fisico e nell’intelletto, non si sa se per l’inquinamento delle falde acquifere e dell’aria oppure per antiche tare genetiche, a scatenare la catena di violenze in cui l’odio per la società estrattivista, che sfrutta il sottosuolo e fa ammalare chi lo abita in superficie, si accompagnerà ad una serie di omicidi premeditati e non sempre collegati da un unico filo rosso.

I capitoli si alternano infatti tra quelli (numerati) che narrano la storia dal punto di vista di Amy e quelli (contrassegnati semplicemente con una H) in cui si sviluppa pian piano la figura, ambigua e buia quanto quella del nonno Shoemaker, dell’agente Brett Hastings.
Non c’è spazio per la pietà, non c’è speranza nella religione e la carne non custodisce nessuna anima: queste sono le linee di indirizzo che legano tra loro sotterraneamente Amy e l’agente in divisa nera. Così, mentre tutti gli altri personaggi (il padre d Amy, l’agente Durum, lo zio Tom reduce, razzista e piagato nello spirito, dal servizio prestato in Iraq, dove ha ucciso civili e bambini) non sono altro che confusi comprimari, apparentemente la chiarezza, sia essa della ragione o della follia, sembra appartenere soltanto a Lady Chevy e a Brett.

La vera chiarezza, però, non macchiata ideologicamente in nessuna direzione, appartiene soprattutto all’autore, che riesce a farci immergere completamente in quella società bianca ignorante e impoverita che ha contribuito alla vittoria di Trump alle scorse elezioni e che ha tenuto botta, continuando a votare a suo favore, anche nel corso delle ultime. Proprio là dove i confini del repubblicano Ohio segnano, da un lato, una linea di faglia con gli stati “democratici” a Nord e a Est mentre, dall’altro, l’inizio di quelli votati alla causa contraria, dal vicino West Virginia a quelli che si estendono da lì sia verso Sud che verso Ovest.

Su Main Street ci sono come al solito uomini seduti sulle panchine a guardare passare le macchine. Fumano sigarette e bevono Mountain Dew. Alcuni li riconosco, operai che riparano tetti come mio padre e, immagino membri del Klan come mio nonno. Ci salutiamo da lontano. Non hanno niente da fare alle 7,30 del mattino, ma sono svegli e vestiti con jeans, giacche di flanella e scarponi da lavoro, nella speranza di trovare qualcosa. Le acciaierie sono state delocalizzate in Cina già da anni. E ora ci sono legioni di uomini espropriati di tutto, in cerca di un lavoro qualsiasi. Tosano prati, trasportano spazzatura, lavano vetri, dipingono case. Ma perlopiù vagabondano, bevono, o si nascondono dalle madri, rintanandosi al piano di sotto guardando film di guerra, uomini adulti con matrimoni falliti e bambini che non vedono quasi mai. Oppure sono giovani senza figli che non hanno mai nemmeno avuto l’opportunità di crescere.
I più fortunati lavorano nelle miniere di carbone, come il padre di Paul. Strisciano fuori dalla terra come sottospecie tenebrose, tornano a casa al volante di un furgone costoso, e sputano catarro nero come l’inchostro sul tavolo della cucina, dove le mogli gli stringono quelle mani perennemente scure, uomini forti con le rughe disegnate a carboncino e gli occhi umidi luminescenti di brina3.

Alle spalle di questi uomini incattiviti dall’odio e dalle difficoltà economiche ci sono le donne che costituiscono il vero architrave delle famiglie e di ciò che rimane di una società allo sbando, e che spesso, come nel caso di Amy e della sua insoddisfatta e apparentemente volubile madre, sono anche le più forti. Magari in modi che non sempre piacerebbero a quegli ambienti liberal-progressisti che spesso guardano a loro, anche nel romanzo, dall’alto delle loro ville dislocate opportunamente nei quartieri migliori della città.

Le vicende si ambientano ai tempi della presidenza Obama, sicuramente poco amato all’interno del perimetro famigliare da cui proviene Amy, ma che ha poca fiducia anche negli altri presidenti, come Bush jr., che hanno mandato troppi giovani a crepare o trasformarsi in assassini prima in Afghanista e poi in Iraq. «Tua madre ha ragione. A noi ci chiamano bifolchi, morti di fame, ce ne dicono di tutti i colori […] Tu, noi, non possiamo essere bianchi e orgogliosi»4.
Un ambiente sociale in costante allerta, in cui la paura di sparire dal punto di vista genetico si accompagna a quella per la possibile morte per cancro legata alla cattiva alimentazione, ai coloranti chimici e agli zuccheri delle bibite gassate oltre che alle acque inquinate.

Noi odiamo gli ospedali, tutti quegli uomini vestiti di bianco. Le pareti dalle tinte tenui e le luci abbaglianti non ci ingannano. E’ solo un’altra vana istituzione americana, un branco di malati che si prende cura di altri malati.
Non ci fidiamo di loro. Secondo i medici […] l’intera cittadina di Barnesville soffre improvvisamente di “allergie stagionali” e “asma” a causa di una “maggior concentrazione di polline”. Questa è la loro diagnosi professionale. Non badate, stupidi contadini, alla terra che trema, alla foschia nera e a quelle fiamme alte sei metri che bruciano nella notte, non c’entrano nulla. Le falde acquifere sono contaminate. L’aria è tossica. E ancora non ci capacitiamo dell’aumento dei difetti congeniti5.

Per tutto ciò anche da qui, da queste pagine6, dalle nebbie pestifere che oscurano le valli oppure che confondono le menti, dai discorsi sui diritti che non hanno gambe materiali su cui muoversi ma che giustificano l’oppressione borghese sul resto della società, occorre partire per comprendere l’America profonda, oscura e malata di oggi. Anche i fatti di Capitol Hill, poiché «il terreno sotto di noi non è instabile. Semplicemente non esiste»7.


  1. John Woods, Lady Chevy, NN Editore, Milano 2021, pp.34-35  

  2. J. Woods, op. cit., pp.148-149  

  3. op. cit., p. 94 

  4. Ibidem, p. 166  

  5. ibid., p.163  

  6. A differenza di quelle di Hillibilly elegy. A Memoir of a Family and Culture in Crisis di J.D. Vance, che non riescono invece a raggiungere l’obiettivo che l’autore si era dichiaratamente proposto. J.D. Vance, Elegia americana, Garzanti, Milano 2017, recensito su Carmilla il 6 gennaio scorso  

  7. J.Woods, op.cit., p. 110