di Mazzino Montinari

Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, Torino 2020, pp. 472, € 22,00.

Il tempo corre senza concedersi una tregua, in modo incessante, non possiede una direzione precisa, avanza, deviando, strappando, saltando, rallentando, e poi improvvisamente una virata e lo sguardo si volge all’indietro. Il radicalmente imprevedibile si è trasformato nell’irrevocabile, l’apertura al possibile si è chiusa nella cristallizzazione del già accaduto. È cambiato il punto di vista. Non che sia venuto meno l’appello all’immaginazione, perché nell’incerto presente se appare evidente che quella facoltà umana debba operare per il futuro, è altrettanto necessario che agisca anche nei confronti del passato, per ricostruire il fragile, per ordinare il confuso, per notare le tenui somiglianze, per ascoltare le assonanze, per cercare di risalire a un senso. Intanto, però, i fatti che potevano andare in modo diverso ora non mutano più, sono congelati, gli incroci di destini che potevano semplicemente risolversi in un lieve contatto hanno prodotto delle macerie. Si può provare a comprendere le cause, i motivi, ma quello che è successo è là, posato nella teca di un tempo andato. Esposto a occhi indiscreti, a dichiarazioni roboanti, al cinismo, alla superficialità, al moralismo portatore d’odio, alla pura e semplice cattiveria, e anche alla riflessione che si prende del tempo (già, ancora il tempo) per la condivisione.

La città dei vivi di Nicola Lagioia è proprio questo tipo di riflessione. L’esibizione di un tempo che corre e si arresta, di un passato che ciecamente procede verso un futuro e di un futuro che si è tragicamente compiuto e guarda al passato interrogandolo senza trovare risposte. Testimonianze, ricordi, opinioni, materiali d’archivio, storie parallele, vicende personali dello scrittore, per un libro articolato, complesso che ha come soggetto un omicidio e due protagonisti: Manuel Foffo e Marco Prato, gli assassini, quelli che hanno agito, che hanno deciso di togliere una vita e di cambiarne altre in modo altrettanto definitivo. Una storia che purtroppo non può evitare di coinvolgere chi, invece, non voleva essere oggetto di narrazione, Luca Varani, la vittima, il ragazzo straziato, stordito da una droga, oggetto di violenze sessuali, mutilato e consegnato a una fine così orribile che non dovrebbero esserci parole, pensieri e riflessioni destinate a un’arte. Eppure, ecco la letteratura, le pagine, lo stile, la critica, il pubblico, il rimando continuo tra realtà e ricostruzione, l’attrazione e la repulsione, il giudizio e la sospensione.


Lagioia è misurato, consapevole delle insidie, delle tentazioni che questa vicenda per sua natura genera. Le affronta, accetta la possibilità di cadere, si mette in gioco con una vicenda personale, è soprattutto abile nel porre il lettore dentro quel tempo di cui si scriveva all’inizio. Che Foffo e Prato, nel frattempo morto suicida, siano assassini non è messo in dubbio, né tanto meno che siano i primi responsabili di ciò che è accaduto nell’appartamento di via Igino Giordani 2. Manuel e Marco, però, hanno avuto la possibilità di prendere sentieri diversi, dal loro primo incontro a capodanno 2016 fino al giorno dell’omicidio, accaduto tre mesi dopo, il 4 marzo. Nessuno degli eventi di quei giorni possedeva il carattere della necessità. Così, nella parte del libro nella quale ci si approssima all’atto finale, si è quasi portati a sperare che le cose possano procedere diversamente come se ci si trovasse sul set di C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino. Si vorrebbe un finale imprevedibile nel quale uno dei protagonisti, anche casualmente, decida di uscire di scena senza che il sangue scorra. Una scelta che, con quella ferocia, non ponga fine alla vita di Luca Varani. Ma in questa storia senza speranza, Sharon Tate è quella vera, e non Margot Robbie.
L’illusione del racconto termina, il sentimento effimero svanisce. Si impone lo sguardo al passato, quello in cui tutto è irrimediabilmente accaduto. E allora subentra un’altra illusione, quella di un destino superiore al quale nessuno può sottrarsi. Persino l’ipotesi della possessione, dell’opera di un demonio, paventata dal colonnello Donnarumma, appare credibile. Perché le tessere se non si ricompongono in un mosaico, devono almeno trovare una forma adatta all’occhio. I fatti, le azioni, il susseguirsi di episodi, gli incastri, si ha quasi la percezione di assistere a un evento straordinario come quando i pianeti si allineano. È solo un effetto ottico, Luca Varani non è una vittima predestinata (che orrore pensarlo), e Manuel Foffo e Marco Prato non sono Edipo. Non hanno fatto niente per conoscere la verità, non sono eroi tragici incastrati in una trama che si prende gioco di loro. Perciò, di nuovo, si torna ad abitare nel caos delle esistenze umane, ognuno con le proprie responsabilità, sofferenze, atrocità.

Nel mondo della doxa, Ledo Prato, Valter Foffo e Giuseppe Varani, i padri, cercano di capire, di giustificare, di ottenere giustizia, ognuno dal proprio punto di vista, isolati nella propria nicchia, incapaci di stabilire una relazione l’uno con l’altro. Sono storditi, distrutti, sopraffatti da qualcosa che hanno subito, che non avevano previsto e che non sanno spiegarsi. E come potrebbero? Una violenza così radicale, che tutto travolge, chi sarebbe in grado di risalire allo spirito, all’autocoscienza? Soli, sono accerchiati e oppressi da una moltitudine che non mostra alcuna attenzione per la vita e la morte, che ottusamente produce e riproduce parole vuote, pesanti per l’animo, ammesso che ne esista uno.
Nomi tutti al maschile in una storia nella quale le donne sono tenute a distanza o decidono loro stesse di ritirarsi. Persino la moglie dell’autore appare come una presenza eterea, coinvolta nelle decisioni quotidiane (nel racconto, ad esempio, Lagioia lascia Roma alla volta di Torino per dirigere il Salone Internazionale del Libro) eppure distante dall’orrore, come la Loretta Bell moglie dello sceriffo di Non è un paese per vecchi, solo prossima agli incubi del marito, quando all’orizzonte si profila l’enigmatica azione sterminatrice di Anton Chigurh.
Sono uomini i carnefici, la vittima, le persone invitate nell’appartamento nei giorni che poi portarono al delitto, lo scrittore, i padri, appunto, e l’olandese, una figura parallela che incombe con intenzioni precise sulla città dei vivi e dei morti, dei visibili e degli invisibili.
Roma, dunque, la città dei vivi, con quel genitivo possessivo e partitivo. È la città che appartiene ai vivi? O sono i vivi che esistono perché appaiono nella città? Tra appartenenza e apparenza si gioca il senso di un luogo nel quale Luca Varani è stato assassinato, Marco Prato si è ucciso, Manuel Foffo è recluso in un carcere. Allo scrittore, come a Orazio l’amico di Amleto, è dato il compito di ricordare che un tempo quei fantasmi erano visibili dentro una città dove una bambina gioca con innocenza mentre altri ragazzini escono dai tombini incatenati dagli orribili desideri dell’umanità. E noi, aspetteremo Fortebraccio per raccontargli delle rovine di Elsinore o calpesteremo distrattamente quelle macerie?